Se sessanta ore di lavoro vi sembran poche

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di Livio Ghersi

Ci sono notizie che non balzano subito agli occhi, dalle prime pagine dei giornali, ma che bisogna trovare, magari con un po’ di fortuna. Nel “Corriere Economia”, supplemento economico del Corriere della Sera, di lunedì 29 settembre 2008, pagina 12, leggo un interessante articolo, titolato: “Lavoro, euroallarme sulla settimana di 65 ore”. Riferisce dell’iniziativa politica del Segretario nazionale di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero, affiancato dai parlamentari europei Musacchio e Catania, contro «la proposta di direttiva comunitaria orientata a estendere l’orario di lavoro fino a ben 60-65 ore settimanali». Cercando di approfondire da altre fonti, appuro che nello scorso mese di giugno una riunione dei ministri competenti in materia di occupazione degli ormai 27 Stati membri dell’Unione europea ha assunto una decisione che consentirebbe a ciascuno Stato membro di estendere la durata massima settimanale dei contratti di lavoro fino a 60 e, in taluni casi, 65 ore. Attualmente, almeno da noi, la durata è fissata, di norma, in 48 ore. Si tratta, dunque, di una decisione che al momento impegna il Consiglio dell’Unione Europea (cioè i governi) e che dovrà essere approvata dal Parlamento Europeo per diventare normativa comunitaria.

Nella Costituzione della Repubblica italiana, l’articolo 36 afferma che: «la durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge» (secondo comma). Afferma pure che: «il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi» (terzo comma). Di conseguenza, nel nostro ordinamento giuridico, deve necessariamente essere contemplato il «riposo settimanale». Conformemente alla storia d’Italia, Paese per eccellenza cristiano, che addirittura ha in Roma la Sede del Papato, questo riposo viene a coincidere con la domenica. Così il giorno riservato a Dio, diventa anche il giorno in cui ogni persona può (potrebbe) riconciliarsi con il lato migliore dell’esistenza umana. Il lato migliore non si trova certamente nella fatica, nell’abbrutimento del lavoro comandato, nell’ansia di rispettare orari imposti da altri. Si trova, invece, nel tempo che liberamente si dedica ai propri affetti, ai propri interessi, alla propria spiritualità, e (perché no?) anche alla ricerca di un po’ di gioia, che certamente non guasta. Per gli Ebrei il giorno consacrato a Dio (quindi, all’essere umano) è il sabato; ma il fatto di cambiare giorno, secondo le prescrizioni della propria fede religiosa e dei propri costumi, non muta la sostanza: un giorno di riposo settimanale deve esserci.

Mi risulta che gli economisti liberisti più rigorosi nel loro consequenziarismo dottrinario, da tempo siano insofferenti nei confronti di questo giorno di riposo settimanale, che reputano retaggio di concezioni religiose superate. Voglio vedere se l’attuale governo di centro-destra italiano spenderà argomentazioni in tal senso. Penso proprio di no, perché altrimenti il consenso del 60 % degli italiani verrebbe assai rapidamente perduto.

Assumiamo, quindi, che la Costituzione della Repubblica sia ancora, almeno per questa parte, osservata.

Tolto un giorno, facciamo quattro rapidi conti su cosa significhi una settimana lavorativa di 65 ore. Significa che, per sei giorni la settimana, dal lunedì al sabato (incluso), bisognerebbe compiere un lavoro quotidiano di 10 ore e 45 minuti. Immaginiamo un orario tipo. Parte antimeridiana: dalle 08,00 alle 13,30 (cinque ore e 30 minuti). Un’ora di pausa per mangiare qualcosa. Poi la parte pomeridiana: dalle 14,30 alle 19,45 (cinque ore e 15 minuti).

Ma il calcolo non si può fermare qui, perché bisogna anche considerare il tempo che occorre per raggiungere il luogo di lavoro e per tornare a casa la sera. Sappiamo che moltissimi lavoratori sono pendolari, prendono autobus e treni, e su questi mezzi di traporto possono pure trascorrere più di tre al giorno (tra andata e ritorno). Che vita è quella in cui si arriva finalmente a casa, abbrutiti dalla stanchezza, intorno alla 22,00, ci si deve occupare un minimo dei problemi della famiglia, che non si vede dal giorno precedente, e poi si hanno a disposizione poche ore di sonno, tenuto conto che l’indomani, comunque, la sveglia suonerà prima delle sei? Aggiungiamo i problemi di chi ha figli minorenni da lasciare a scuola, prima dell’ingresso al lavoro alle 08,00.

Già, la famiglia. Quella famiglia che — stando alle dichiarazioni ufficiali — sarebbe in cima ai pensieri della nostra attuale classe politica governante. Forse il ministro Sacconi, che rappresentava il Governo italiano quando si è trattato di decidere l’aumento dell’orario lavorativo settimanale, non ha tenuto conto delle compatibilità generali.

Mi colpisce, soprattutto, che l’aumento dell’orario di lavoro venga presentato come una misura coerente con politiche economiche liberiste. Qui sarebbe bene intendersi, una buona volta. Che cosa significa il termine “libertà”? E’ una parola che ha rilevanza soltanto dal punto di vista dell’imprenditore privato, nel senso che egli deve essere libero di meglio attrezzarsi per resistere alla concorrenza, così da garantirsi, comunque, un margine di profitti? In questo «meglio attrezzarsi» è sottintesa la possibilità di pagare di meno i propri dipendenti, o di farli lavorare di più a parità di trattamento economico? Oppure il significato della “libertà” è più ampio e va oltre le considerazioni strettamente economiche? Benedetto Croce definiva la libertà «principio religioso», considerandola la premessa della possibilità di sviluppo dello spirito umano. Così intesa, la libertà serve a consentire che ogni essere umano esprima le proprie potenzialità e metta a frutto i propri personali talenti. La libertà è (dovrebbe essere) a servizio dell’umanità, della realizzazione umana.

Laddove si sopravvive per lavorare non c’è libertà, c’è oppressione, cioè illibertà. Sostengo che proprio i liberali, ossia coloro che considerano la libertà il principio supremo, dovrebbero essere i primi ad insorgere per difendere il sacrosanto diritto dei lavoratori ad avere tempi di vita compatibili con una effettiva libertà personale. Liberali, se ci siete, battete un colpo.

E’ troppo scoperto il gioco giornalistico di fare finta che questioni di questo tipo interessino soltanto il buon Ferrero e Rifondazione Comunista. Invece, si tratta di questioni che interessano la generalità dei cittadini, i liberali non meno dei comunisti.

Alcuni muoveranno l’obiezione che non c’è scelta, perché presunte “leggi dell’economia” imporrebbero di pagare sempre meno il lavoro e di rendere sempre più insicura e meno garantita la condizione dei lavoratori. Queste leggi, semplicemente, non esistono. L’economia intesa come scienza trova sempre il suo limite nella volontà umana che si ribella allo sfruttamento.

Sappiamo che alcuni Paesi oggi sfruttano ignobilmente la propria manodopera e proprio per questo motivo riescono ad immettere sul mercato prodotti con prezzi molto più bassi rispetto ai prodotti dello stesso tipo che si realizzano in Paesi in cui le condizioni dei lavoratori sono più garantite. Questa non è altro che concorrenza sleale nei confronti dei nostri prodotti. La nostra logica non può essere quella di inseguire i predetti Paesi, introducendo anche in Europa trattamenti del lavoro che, per gradi, arrivino ai medesimi livelli di indecente negazione dei valori umani. Il libero mercato non è un dogma religioso. Può realizzarsi soltanto nel rispetto di regole osservate da tutti. L’Europa e l’Italia devono tenere alla condizione di esistenza dei propri lavoratori, cioè dei propri cittadini, come al bene più prezioso. Altrimenti, si verificheranno due possibilità: o saltano gli attuali governanti europei, o salta l’Unione Europea. Quest’ultima prospettiva poco ci piace, ma tantissimi segnali inducono a ritenere che, continuando con l’attuale andazzo, è realistico metterla in conto.

Mille volte meglio, dunque, introdurre limiti e restrizioni nel mercato, piuttosto che inseguire un mercato globale che al momento fortemente ci danneggia. In particolare, nello specifico e strategico settore dei prodotti alimentari, si potrebbe operare affinché nel mondo si creino quattro o cinque aree di commercio, fra loro distinte e ciascuna tendenzialmente autosufficiente, salvo alcune derrate, precisamente definite, ammesse in via eccezionale ad una circolazione più ampia. La nosta area di commercio nel settore alimentare potrebbe comprendere, oltre all’Unione Europea, la Turchia, i Paesi rivieraschi del Mediterraneo e quei Paesi africani di cui si vuole sostenere lo sviluppo. Le istituzioni comunitarie sono nate storicamente per integrare le economie dei Paesi europei, così da rendere possibile un mercato comune continentale. La cosiddetta globalizzazione è venuta dopo e non è esattamente vero che si tratti un fenomeno irreversibile. Né desiderabile, come provano i continui terremoti nei mercati finanziari, che distruggono periodicamente i fondi dei risparmiatori. Abbiamo bisogno di rilanciare l’agricoltura, la zootecnia e l’industria alimentare qui in Italia: infatti, non bisogna considerare come esclusivo parametro economico il prezzo più basso delle derrate teoricamente ottenibile in un commercio a dimensione globale, ma vanno conteggiati pure i danni (quindi i costi) crescenti del degrado del nostro territorio come conseguenza dell’abbandono delle colture agricole.

Più diritti dei lavoratori e migliore tutela dell’ambiente valgono bene la rinuncia a politiche economiche radicalmente liberiste.

In conclusione, la proposta delle sessanta, o sessantacinque, ore lavorative va liquidata come voce dal sen fuggita, come una stravaganza. Chi ritenga di poter andare concretamente avanti su questa strada, si aspetti che non si troverà contro soltanto Rifondazione Comunista.

Pubblicato nel sito: www.livioghersi.it

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