ELOGIO DELLA GLOBALIZZAZIONE

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L’autore indiano di questo illuminante saggio è uno dei più prestigiosi economisti del nostro tempo; già accademico presso l’importante Università americana MIT (Massachusetts Institute of Technology), è altrettanto noto per le sue intransigenti posizioni favorevoli al libero commercio ed è conseguentemente pure un determinato oppositore dei protezionismi e contrario ai modelli economici che certi governi adottano, per aver egli stesso conosciuto dal vivo gli errori commessi da governanti come Indira Gandhi che nella sua poco costruttiva amministrazione ha oltremodo ritardato lo sviluppo del proprio Paese, ricorrendo alle sue notorie politiche autarchiche dalle quali l’India si sta riprendendo solo in questi ultimi anni di lente liberalizzazioni dell’economia, quando questo gigante asiatico è anche uno dei più ricchi Paesi in materia di risorse di capitale umano.

Allo stesso modo, anche la stessa Cina è riuscita a debellare la propria tragica miseria che ha contabilizzato più di due decine di milioni di poveri Cinesi, periti di fame per causa dell’equivoca politica collettivista della disastrosa gestione – a suo tempo pomposamente definita come grande balzo in avanti – dal cosiddetto Grande Timoniere, alias  Mao Dzedong. Infatti, il suo successore Deng Xiao Ping, dopo aver capito che “non importa il colore del gatto, basta che acchiappi i topi” ha saputo rompere con il comunismo, adottando una politica economica molto più adeguata allo sviluppo ed in tendenza con la modernità, ed allo stesso tempo, in diretto contrasto con l’utopica politica del suo predecessore, ciò che ha generato una spettacolare crescita, a ben due cifre dell’economia cinese per oltre due decenni di seguito. Ed infatti, oggi la Cina, liberatasi da quel deleterio incubo dell’ isolamento, grazie all’integrazione al resto del mondo, si è – potremmo dire – miracolosamente trasformata nella seconda economia del mondo.

Ma per tornare al saggio di questa recensione, mi par giusto chiarire che, in realtà, la traduzione del titolo in italiano non risponde fedelmente all’originale, come dovrebbe  – IN DEFENSE OF GLOBALIZATION; infatti, nei tredici capitoli delle duecentosessanta pagine di testo, insieme alle trentasei di note, Jagdish Baghwati presenta una vera quanto validissima difesa all’apertura dei mercati, esponendo tutta una gamma di argomentazioni su come la globalizzazione, non solo non comprometto l’economia dei meno privilegiati, ma al contrario, contribuisce al progresso non solo dei Paesi ricchi, ma in maggior misura di quelli poveri che partono da parametri negativi, e che hanno così potuto usufruire dei vantaggi di un’economia meno vincolata, facilitando un maggiore scambio di esperienze, inclusa la cessione di tecnologie e, perciò, dalla migliore circolazione della conoscenza, ottenendo di riflesso, anche più equa distribuzione della ricchezza prodotta nel mondo, contrariamente a quanto certi conservatori ed isolazionisti sono soliti a sostenere.

E l’esempio più paradigmatico ci proviene dal trasferimento delle tecnologie messe a punto dal ricercatore ed agronomo – già in carica alla multinazionale DuPond –  l’americano Norman Borlaug che grazie ai suoi studi ha aiutato Paesi come il Messico, l’Egitto, l’India, e tutta una serie di Paesi agricoli in via di sviluppo ad aumentare i propri raccolti, ciò che gli ha fatto vincere il Premio Nobel per la Pace del 1970, diventando il legittimo padre della cosiddetta Rivoluzione Verde che, contrariando le assurde previsioni catastrofiste del sociologo del pessimismo Malthus e del suo degno seguace Paul Ehrlich, secondo i quali l’umanità, a quest’ora, dovrebbe già essere morta di fame, mentre grazie allo sviluppo di nuove varietà di piante e le nuove tecniche che si avvalgono anche degli OGM, possono assicurare l’adeguata nutrizione all’umanità intera fino a raggiungere i dieci miliardi di individui.

Baghwati, perciò, dimostra di avere i titoli per contestare in maniera oltremodo efficace e convincente tutta una serie di contraddizioni, di solito divulgate, in modo piuttosto oscuro, dalle diverse ONG (Organizzazioni Non Governative), proprio perché egli stesso, in qualità di membro del consiglio accademico della ONG Human Rights Watch, ha avuto modo di conoscerle molto bene dall’interno. Non per niente, queste entità alimentate dagli stessi equivoci che caratterizzavano i tradizionali preconcetti dei collettivisti, adottano molto spesso le idee egualitarie socialiste contrarie alle regole delle leggi naturali – per dirlo con Ludwig von Mises – dell’ Ordine Spontaneo del Mercato. Infatti, gli orfani del comunismo, non avendo più argomenti economici a favore del fallito collettivismo, si ritrovano con quelli delle ONG ed insieme agli attivisti ecologisti, denunciano solo certi aspetti – non sempre del tutto – negativi dell’industrializzazione, nel vano ed ambiguo tentativo di attribuire le cause della miseria dei Paesi sottosviluppati a quello che loro identificano come malefico capitalismo.

Ed a proposito di Mises – uno dei principali membri della illustre Scuola Economica Austriaca – non è mai superfluo ricordare come già nel lontano 1922 nel suo famoso saggio SOCIALISMO, solo un lustro dalla inutile e tragica Rivoluzione Bolscevica, il grande economista – potremmo dire – in modo del tutto profetico, descriveva come e perché la chimera collettivista si sarebbe risolta in un fatale grande insuccesso economico. Ed infatti, dopo sette decenni di infausta repressione, di altrettanti miserabili lutti ed ingiustizie, quell’ ingannevole illusione si confermava in tutta la sua più cruda realtà; ed esaurita la sua fase, cadeva in piena disgrazia; ed alzando bandiera bianca, quegli stessi governanti che avevano creduto a quell’imbroglio, adottavano il modello virtuoso del libero mercato, aprendo alle iniziative individuali.

Ora, gli ultimi seguaci di quella fallace ideologia, mossi dall’eterna superficiale retorica, disperatamente cercano nuove vie. Non ha caso, molte delle ONG ospitano questi disorientati naufraghi del marxismo che ora si arrampicano sugli specchi, integrano quella che l’economista ed ex presidente della Repubblica Ceca, Vaclav Klaus, nel suo bellissimo saggio PIANETA BLU, NON VERDE, ha giustamente definito il movimento ambientalista della nuova religione.  Infatti, fanatici militanti dogmatici si ostinano a rilanciare una nuova ideologia verde in sostituzione di quella rossa: una sorta di inguaribile tentativo di sopravvivenza di ciò che ancora resta dell’utopia socialista che si è naturalmente mortalmente logorata con la devastante ed amara esperienza collettivista, finita sotto le macerie del Muro di Berlino. Così, nell’ inutile intento di ostacolare la libera iniziativa vincente contro la fallita economia pianificata del marxismo, cercano di difendere teorie economiche eterodosse, imponendo restrizioni e controlli già sperimentati da quei Paesi del blocco socialista, senza che peraltro, osservare minimamente considerazioni che rispettassero le più elementari norme ambientaliste. Ed ora, a cielo aperto, emergono le ferite e le cicatrici degli orrori ecologici, prodotti, in modo più che palese, dai regimi che avevano adottato – spesso contro la propria volontà popolare – quei modelli ormai sconfitti dalla storia e dalla più concreta realtà, lasciando dietro di sé le evidenti prove di disastrosi ed irreparabili danni all’ambiente.

L’autore, dunque, affronta le distinte critiche che vengono mosse alla globalizzazione, confutando punto per punto, con risposte precise alle specifiche e distruttive, quanto ambigue  valutazioni di questi nebulosi attivisti indottrinati. Egli ricorre anche ad analisi statistiche elaborate da entità indipendenti, forte della propria concreta pedagogica esperienza, nell’ ambito delle Nazioni Unite, appunto, in qualità anche di Consigliere proprio per la globalizzazione oltre a Direttore Generale dell’Accordo Generale del Commercio. Ed in questo stesso contesto non risparmia nemmeno critiche al Vaticano – sempre puntuale nella ricerca di trarre qualche vantaggio al proprio proselitismo – che, estrapolando dalle proprie prerogative spirituali, pretende dare lezioni su materie del tutto estranee alla fede. Un esempio tipico è l’inopportuna intromissione nelle faccende dell’economia e dell’ambientalismo da parte dell’attuale papa argentino, che, dimenticando l’altrettanto sconvolgente azione di globalizzazione da parte della sua Chiesa, nel corso degli ultimi due millenni, in cui per imporre la propria globalizzazione delle sue particolari tesi religiose, i suoi predecessori hanno promosso sanguinarie guerre, brutali repressioni, coercizioni crudeli con barbare torture, luttuosi e spietati delitti consumati su umani in vita fra le fiamme, in piazze pubbliche ed oggi, candidamente, pretende elargire lezioni di politica, di economia e di ambientalismo.

Baghwati, fondamentando così le proprie sperimentate nozioni, fornisce tutta una serie di argomenti e dati contro le perverse tendenze protezioniste e mette in luce i più evidenti vantaggi  portati dalle multinazionali, puntualmente accusate di sfruttamento dei poveri indifesi, quando, in verità, il loro arrivo compromette proprio quei monopoli nazionali protetti dai governi, obbligandoli al confronto, mentre prima, indisturbati, in un pernicioso connubio con chi detiene il potere, pur di poter mantenere i loro privilegi, si fanno blindare dal disturbo dalle possibili minacce di forti quanto scomode concorrenze. Oltretutto, le multinazionali tendono pure a pagare meglio i loro dipendenti e danno loro opportunità e condizioni che non possono apparire in contraddizione a ciò che già praticano nei Paesi sviluppati di loro origine.

Così, l’autore demolisce letteralmente gli argomenti ai quali i nemici della globalizzazione ed in maniera contraddittoria sono soliti a ricorrere contro la libera iniziativa e la contro libertà di circolazione delle idee; fornisce, inoltre, altrettanti argomenti in difesa pure della libera circolazione degli individui come dei capitali ed attribuisce la responsabilità della condizione di povertà e di sottosviluppo a quei regimi che nell’intuito di poter controllare ogni attività economica, tendono ad isolarsi pur di poter consolidare il proprio dominio del potere politico. Gli esempi più tipici di tale modello sono costituiti dall’India e dalla Cina di ieri, Paesi ricchi di capitale umano che per pura volontà di politici ostinati hanno sofferto per decenni gli effetti delle ideologie che ne impedivano lo sviluppo di opportunità, come di poter esprimere idee e creatività individuali con la finalità di produrre beni e soluzioni ai quali le grandi masse ansiosamente ambivano.

Certo, il coro di chi per dottrina si oppone alla globalizzazione è di molte voci chiassose e conta numerosi attivisti tanto intransigenti quanto miopi; tuttavia, non sono nemmeno così rari gli economisti più competenti che non cedono al richiamo del populismo; e non esitano dichiararsi apertamente a favore della virtuosa globalizzazione. Forse è utile citare l’economista britannico Martin Wolf che fino agli inizi degli anni Settanta simpatizzava con i laburisti, convertendosi poi, convinto delle ragioni del brillante pensatore austriaco, Premio Nobel per l’economia F.A. von Hayek, integrandosi così, a partire dall’inizio del nuovo secolo, alla determinata difesa del mercato aperto, pubblicando il un saggio – PERCHE LA GLOBALIZZAZIONE FUNZIONA. Se poi vogliamo rimanere in casa nostra abbiamo pure uno dei saggi dell’economista Enrico Colombatto – L’IMMORALITA’ NO GLOBAL , recensito in questa sede e che fornisce una altrettanto efficace critica nei confronti di chi si ostina ad avversare – soprattutto con atti di violenza –  la inconfutabile utilità del libero scambio.

E per contrariare anche coloro che vorrebbero costruire muri od isolare i propri presunti paradisi con il filo spinato, onde impedire la libera circolazione degli individui, vorrei citare un’altra oltremodo opportuna lettura qui già recensita, quella di Philippe Legrain – IMMIGRANTI. PERCHE’ ABBIAMO BISOGNO DI LORO; e per concludere, mettendo in evidenza i continui errori commessi dai nostri politicanti occidentali nei confronti dei Paesi poveri, mi sembra utile ricordare pure l’ottima opera, ugualmente qui recensita, dell’economista africana Dambisa Moyo – LA CARITA’ CHE UCCIDE – in cui espone  gli ambigui aiuti economici che alimentano solo regimi corrotti, mentre si dovrebbero aprire i mercati a questi Paesi bisognosi, permettendo ai rispettivi Popoli di integrarsi alla globalizzazione, eliminando in primo luogo le inadeguate ed ingiuste sovvenzioni all’agricoltura che proprio i Paesi ricchi praticano e che fomentano in maniera perversa una concorrenza del tutto sleale, obbligando migliaia di individui dei Paesi poveri ad espatriare, abbandonando i propri focolari e famiglie, per cercare migliori condizioni di vita.

Pertanto, non è la globalizzazione, bensì la sua diretta mancanza il vero nodo da sciogliere; e su questo non ci possono essere dubbi, perché la globalizzazione è il migliore mezzo capace di emancipare gli individui e soprattutto le donne che nel loro isolamento in quei Paesi poveri, a basso sviluppo, dove esse sono, generalmente, condannate a lavorare in regime di semi schiavitù, sono emarginate in un mondo chiuso – a volte perfino primitivo – in cui predomina la superstizione e l’ignoranza, private del più elementare accesso alle opportunità, all’apertura verso il mondo libero dell’informazione, ridotte ad una totale precarietà; la libertà fa il contrario: facilita la circolazione dell’ utile conoscenza che a suo tempo, senza alcun margine ad equivoci, agisce a loro favore. 

In fine, ricordiamo, dunque, anche al “buon” Bergoglio – papa Francesco – che la globalizzazione vera e buona non è quella delle certezze della sua Chiesa che intende imporre da secoli il pensiero unico o quella della religione che da sempre ha la pretesa di aggiudicarsi il monopolio della verità rivelata; non è l’inquisizione, né la presunzione di essere gli unici a saper comunicare con il Creatore; la globalizzazione giusta, è quella che si espande e emigra, attraversando oceani e frontiere spontaneamente; è quella alimentata dai dubbi, sempre alla ricerca di nuove risposte, nuove scoperte; quella del libero confronto fra diseguali; quella della libera circolazione della conoscenza, delle tecniche, dell’innovazione, quindi dello sviluppo e del progresso umano capace di allargare all’individuo sempre più vasti orizzonti di questo nostro meraviglioso mondo aperto. Infatti, non è la conservazione che libera gli umani, bensì il cambiamento, l’evoluzione; anche perché, oggi abbiamo delle aspirazioni che domani potranno essere sostituite da altre necessità e chi deve decidere quali, non sono i teologi, né gli intellettuali dell’attualità, ma gli individui stessi che oggi la pensano in un determinato modo, potendo tornare sulle loro scelte, ben come a nuove aspirazioni che oggi non possiamo nemmeno immaginare; il mondo dev’essere aperto al massimo dei liberi individui e non ridotto alla volontà di pochi, presunti depositari della conoscenza; proprio perché – come insegna quell’illuminato liberale di Popper -, la conoscenza non ha fine e non si esaurisce mai: nella misura che impariamo, sorgono nuove mete che porteranno gli umani ad una sempre crescente capacità di discernere.

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