Del Centro in politica

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LIVIO GHERSI

Il 30 novembre del 1947, durante i lavori del quarto Congresso nazionale del Partito liberale italiano, Benedetto Croce pronunciò un importante discorso, che era un po’ il suo testamento politico. In quell’occasione fece un bilancio della attività di direzione politica da lui svolta in un intenso quinquennio: a partire dal luglio-agosto 1943, quando, in coincidenza con la crisi del regime fascista e l’arresto di Mussolini, Croce aveva contribuito alla rinascita di un partito liberale “puro”, di «tradizione cavouriana». Fino a quel Congresso nazionale del PLI, in cui, in ragione della sua età avanzata, ma anche in dissenso con il nuovo indirizzo politico che stava prevalendo nel partito, si dimise dalla carica di Presidente del partito.

Disse allora Croce: «nel partito liberale la destra e la sinistra stanno sempre insieme, come fusione dei due momenti inscindibili della conservazione e del progresso: onde il partito liberale è veramente partito di centro, il solo partito di centro che sia logicamente concepibile. E chiamare immobilità la posizione di centro è una stoltezza, perché quel centro è centro di azione, e conserva e difende sempre ciò che saviamente è da conservare e difendere, e cangia ciò che è onesto e praticamente possibile cangiare, senza lasciare che altri entri a imporlo per fini suoi laterali o estranei e si dia così l’apparenza di zelatore della giustizia» (si legga il “Discorso di congedo dalla presidenza del Partito liberale italiano”, in “Scritti e discorsi politici (1943-1947)”, volume secondo, Bari, Laterza, 1973, p. 458).

Quando si hanno vent’anni, quando il sangue ribolle, si è convinti che si possa conseguire tutto ciò che si vuole fortemente; non si è ancora consapevoli dei propri limiti nella possibilità di cambiare il mondo circostante. Allora è difficile si possa intendere ciò che voleva dire il vecchio filosofo a proposito della posizione politica “di centro”. A vent’anni, è più facile seguire piuttosto i richiami alla purezza ideale ed all’intransigenza propri di un altro illustre italiano, autentico martire antifascista, quale fu Piero Gobetti. Purtroppo morto, proprio per essere stato coerente con l’intransigenza teorizzata, quando non aveva ancora compiuto i venticinque anni.

Nel campo del pensiero, è chiara la posizione di chi cerchi, con onestà di intenti, la soluzione che gli sembra più vera, senza lasciarsi intimidire dal prestigio mondano e dai titoli accademici di chi sostiene una data tesi, fino a quel momento prevalentemente accettata, e senza la preoccupazione di schierarsi con questo o quel partito preso.

Nella concezione di Croce il partito di centro è un po’ la stessa cosa: in questo caso si ricerca non la verità, ma il bene comune, ossia il bene della comunità umana alla quale si appartiene, non soltanto per nascita, ma anche per i mille legami di affetti, di cultura, di tradizioni, che ad essa ci uniscono. Quella comunità umana che Croce chiamava “Patria”.

Questo concetto di “Patria” può allargarsi: un piemontese, un napoletano, un fiorentino, un romagnolo, del secolo XIX, senza amare di meno la propria storia e le proprie tradizioni, poterono riconoscersi appieno nella nuova Patria italiana, che tutti li comprendeva. Ma quella Patria non nasceva da un giorno all’altro; era fondata su una lingua, su una letteratura, che tutti conoscevano e comprendevano.
E’ l’Europa, o, per essere più precisi, è l’Unione Europea, la nostra attuale nuova Patria? I progressisti, gli amanti del nuovo per il nuovo, risponderanno entusiasticamente sì: quello è il futuro, mentre l’Italia, anzi l’Italietta, è un passato da superare.

Soltanto che il futuro va costruito; mentre spogliarsi frettolosamente del passato, come di cosa fastidiosa, significa non soltanto essere sradicati, ossia senza radici, ma trovarsi nudi, senza protezione e senza riparo, di fronte alle intemperie ed al cospetto di altri i quali, invece, alla loro identità non rinunciano, anzi orgogliosamente la rivendicano e su questa costruiscono la propria forza.
Consideriamo, a titolo di esempio, la recente legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, sull’equilibrio di bilancio. Fra le disposizioni della nostra Costituzione che sono state modificate c’è l’articolo 119 Cost.. Articolo importante nel nostro ordinamento, perché ad esso si riferiva la legge di delegazione legislativa in materia di federalismo fiscale (legge n. 42/2009), con tutti i decreti legislativi che ne sono scaturiti.

La modifica del primo comma dell’articolo 119 Cost. introduce due limiti sostanziali all’autonomia finanziaria di entrata e di spesa riconosciuta alle Regioni ed gli altri livelli di governo territoriale: il primo è il «rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci»; il secondo l’obbligo di concorrere «ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea».

Nel contesto del riformulato articolo 119 Cost., l’espressione “ordinamento dell’Unione europea”, lascia insoddisfatti per il suo significato troppo ampio: si presta all’interpretazione che qualunque norma, purché contenuta in un atto che fa parte del sistema delle fonti del diritto dell’Unione Europea, senza distinguere il livello della fonte, debba trovare automatica applicazione nell’ordinamento italiano, anche quando la sua applicazione comporta il sacrificio di valori costituzionalmente garantiti, come appunto nel caso dell’autonomia finanziaria di Regioni ed Enti locali.

Ben diversa la formulazione dell’articolo 109 della Legge fondamentale della Repubblica federale tedesca: «La Federazione (Bund) e i Länder adempiono congiuntamente agli obblighi della Repubblica federale di Germania derivanti dagli atti legislativi dell’Unione europea sulla conformità alla disciplina di bilancio come previsto dall’articolo 104 del Trattato che istituisce la Comunità europea, e in tale quadro tengono conto delle esigenze connesse all’equilibrio economico generale». Dopo il Trattato di Lisbona, il richiamo all’articolo 104 va riferito all’articolo 126 del TFUE; questo reca disposizioni per evitare «disavanzi pubblici eccessivi» ed è il fondamento di tutta la normativa sul Patto di stabilità e crescita, nel suo braccio correttivo. Come si vede, i Tedeschi non hanno fatto riferimento al diritto dell’Unione europea, genericamente inteso, ma agli atti legislativi che assicurano la conformità del bilancio alle disposizioni attuative di uno specifico articolo di uno dei due Trattati fondamentali dell’Unione Europea.

Non è soltanto un problema di forma. La nostra Corte Costituzionale si è attestata sul criterio della prevalenza del diritto comunitario sul diritto nazionale. Prevalenza, a prescindere, come avrebbe detto Totò. In Germania, prima di ratificare il Trattato che istituisce il Meccanismo Europeo di stabilità, hanno atteso che la Corte Costituzionale tedesca valutasse la conformità della normativa all’assetto costituzionale della Germania.

Essere europeisti a tutti i costi, più europeisti degli altri, non è di per sé indice di serietà, o di senso di responsabilità: può anche denotare un complesso di inferiorità, la cattiva coscienza di valere poco come Nazione, con la conseguente smania di offrirsi ad un padrone esterno che finalmente ci insegni come bisogna comportarsi.

Gli Inglesi mantengono le automobili con la guida a destra, fregandosene del resto d’Europa che funziona diversamente. Hanno i loro costumi e non vedono il motivo di cambiarli.

Tutti questi ragionamenti, apparentemente astratti, trovano un aggancio concreto nel nuovo raggruppamento moderato che in questi giorni si sta costituendo intorno al Presidente del Consiglio in carica. Il gruppo di riferimento nella dimensione europea, quello del Partito Popolare europeo, non è di “centro”, nell’accezione crociana del termine, ma di centrodestra. Senza dimenticare che, in ambito europeo, i liberali dichiaratamente tali non fanno parte del PPE, ma hanno un proprio gruppo autonomo (l’Alde), numericamente significativo. I liberali europei non sono necessariamente più progressisti rispetto ai popolari europei: scontano oggi una certa confusione ideale, per cui al loro interno si possono trovare posizioni molto radicali in materia di diritti civili e, insieme, posizioni ultraliberiste in campo economico. Tuttavia, sono distinti dai popolari: in Germania, nel Regno Unito, un po’ dovunque.
Non è inutile evidenziare che gli aderenti al raggruppamento di Monti, Casini, Fini, Riccardi si richiamano al PPE, esattamente come Berlusconi, Lupi, Quagliarello, Brunetta.

Nella cosiddetta “Agenda Monti”, a pagina 4, si ricordano gli «obblighi europei in materia di disciplina delle finanze pubbliche». In particolare, al punto “b” si richiama l’obbligo di «ridurre lo stock del debito pubblico a un ritmo sostenuto e sufficiente in relazione agli obiettivi concordati» (in coincidenza con il conseguimento del pareggio di bilancio strutturale); al punto “c” c’è la specificazione che il predetto impegno si traduce nel dover «ridurre a partire dal 2015, lo stock del debito pubblico in misura pari a un ventesimo ogni anno, fino al raggiungimento dell’obiettivo del 60 % del Prodotto interno lordo». Però, nel frattempo, per la riduzione del PIL nazionale, conseguente alla recessione economica, il debito pubblico è arrivato al 126 % del PIL; quindi, il programma di abbattere il 66 % del debito pubblico in vent’anni è politicamente molto ambizioso e vedremo quanto economicamente e socialmente sostenibile.
La sostenibilità sociale delle politiche economiche sembra diventata cosa trascurabile nei ragionamenti politici (con qualche lodevole eccezione). Non molti anni fa, invece, veniva considerata questione cruciale quale fosse il tasso di disoccupazione sopportabile da un dato sistema statuale.
Penso che nelle prossimi elezioni del 24 febbraio 2013, fra i tanti comportamenti “devianti” che gli esperti di sondaggi fanno fatica ad includere nelle loro previsioni, ci sarà anche il caso di quei liberali dichiaratamente tali e tendenzialmente centristi che si guarderanno bene dal votare per il raggruppamento che fa capo a Mario Monti.

Perché vorrebbero che fossero più tutelati gli interessi nazionali specificamente italiani, perché vorrebbero che fossero più considerati gli Italiani in carne ed ossa, mentre Monti appare ed è perfettamente allineato a quanto si decide nell’ambito dell’Unione Europea. Certamente non è stato reso un buon servizio al nostro Paese quando si è fatto sì che la legge costituzionale sull’equilibrio di bilancio venisse approvata come se si trattasse di un adempimento burocratico, senza che i grandi mezzi di informazione si impegnassero in un approfondimento ed in una discussione nel merito. Quasi che qualsiasi critica avesse di per sé una valenza antipatriottica. Lo stesso dicasi per le ratifiche parlamentari del Trattato sul cosiddetto “Fiscal compact” e del Trattato istitutivo del Meccanismo Europeo di stabilità, avvenute, in tutta fretta, il 19 luglio 2012, prima che l’opinione pubblica italiana avesse il tempo di rendersi conto di cosa si trattasse.

In quel caso l’obiettivo di “silenziare” fu conseguito.
Personalmente, ho grande stima per i Tedeschi, ma i Tedeschi si possono apprezzare se si è nella condizione di liberi osservatori, mentre diventano sgradevoli ed insopportabili se si è nella condizione di essere soggetti a loro.

Dopodiché è chiaro che anche quei liberali centristi voteranno, perché si tratta di elezioni troppo importanti per decidere di restare a casa. Voteranno quanto, dal loro punto di vista e nelle condizioni date, rappresenta il meno peggio, nell’interesse dell’Italia.

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