Burocrazia, merito e paradossi

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di BRUNO POGGI

Una volta, durante una lezione universitaria, il mio professore di Sociologia delle Organizzazioni ipotizzò il seguente scenario: immaginate un paese dove ci sia un alto tasso di disoccupazione, diciamo il 30% per cento. Cosa fa il Governo di fronte ad un emergenza del genere? Crea un Ente Nazionale Assistenza Disoccupati che ha appunto il compito di combattere la disoccupazione, assistere coloro che sono senza lavoro e formulare proposte e mettere in atto iniziative atte a risolvere tale fenomeno. L’Ente viene creato, finanziato e vengono assunte 500 persone per farlo funzionare. E poniamo, continuava il mio professore, che questo Ente svolga talmente bene il suo lavoro che riesca a compiere la sua missione e a debellare effettivamente il problema della disoccupazione.

Quale sarebbe allora la sorte di questo Ente e dei 500 impiegati che ci lavorano? Verrebbe chiuso e ci sarebbero 500 disoccupati in più!
Questo, che il mio professore chiamava “il paradosso dell’organizzazione”, è uno degli aspetti più problematici che attanagliano il nostro paese perché determina uno dei principali problemi che affliggono gli italiani: quello di una burocrazia sempre più invadente, inefficiente e costosa. E questo avviene perché, a differenza dell’esempio citato, i vari Enti, Aziende, Authority e Comitati vari attivati dallo Stato (e in parte anche dalle Regioni) per rispondere, di volta in volta, alle emergenze che si presentavano non si dimostrano affatto efficienti. Anzi, quasi tutti subiscono una sorta di mutazione genetica che trasforma gli strumenti in fini.
Cerco di spiegarmi meglio: prendiamo l’esempio della formazione professionale largamente finanziata dalle Regioni e dalle Province. Teoricamente dovrebbe essere uno strumento utile a dare ai giovani (e non solo) meno scolarizzati delle competenze utili al loro inserimento nel mondo del lavoro.

In pratica, se si va a vedere i risultati, ci si accorge che così non è: i corsi di formazione professionale sono l’ennesimo “parcheggio per disoccupati” (ci sono giovani che ne frequentano tre o quattro assolutamente disorganici tra di loro), e l’unica vera finalità che hanno è quella di permettere ai centri di formazione professionale (molti dei quali collegati al mondo sindacale) di ottenere finanziamenti e quindi di gestire risorse e posti di lavoro. Il problema è che tutto questo ai cittadini costa e non si risolvono problemi. Anzi, lo Stato di norma premia le inefficienze: dove più alti sono i tassi di insuccesso maggiori sono le risorse che vengono invocate e concesse. A questo riguardo, andate a vedere il bilancio della Regione Sicilia o il numero delle Guardie Forestali in Calabria per rendervene conto. Come si risolve questo problema, questo paradosso? A mio giudizio in due modi; in primis evitando che lo Stato intervenga direttamente ma aiuti il cittadino a risolvere il problema che lo opprime. Si chiama principio di sussidiarietà; molti ne parlano ma pochi sanno esattamente di cosa si tratta. Per la stragrande maggioranza delle persone, il principio di sussidiarietà consiste nel fatto che lo Stato interviene quando i cittadini non sono in grado di farlo autonomamente. Ma è una visione distorta: una sussidiarietà autentica si basa sul principio che, qualora non siano in grado di farlo, lo Stato interviene a creare le condizioni per cui i cittadini possono risolvere i problemi organizzandosi autonomamente. E’ molto diverso: in questa ottica la formazione professionale potrebbe essere un bonus in denaro dato a un giovane disoccupato il quale può decidere di “spenderlo” presso un azienda per formarsi nel settore che lo interessa.
Sarebbe probabilmente più efficace e sicuramente meno costoso. Il secondo luogo bisogna premiare il merito. Bella scoperta, direte voi, ne parlano tutti! E’ vero ma, sempre in omaggio al principio che il significato delle parole è importante, bisogna chiedersi: cos’è il merito? A mio parere il merito è premiare qualcuno, riconoscergli appunto un merito. Ma contestuale a ciò bisogna fare anche un’altra cosa: penalizzare i meno meritevoli.

E’ molto più difficile, ma non c’è niente da fare: il merito e il demerito vanno di pari passo come il bene e il male. Non si può dire a qualcuno che è bravo senza paragonarlo a qualcun altro che è meno bravo, altrimenti il riconoscimento del merito dove sta? L’alternativa è quello che mi raccontò qualche anno fa un assistente sociale la quale, tutta contenta, mi annunciò che aveva ottenuto il premio di produzione dalla sua Azienda Ospedaliera. Al che le domandai: “quante tue colleghe hanno ottenuto il premio?” “Cinque” fu la sua risposta. “E quante assistenti sociali ci sono nel tuo ospedale?” le chiesi. Al che mi disse: “Cinque!”.

Ora, questo è avvenuto perché se una di quelle assistenti sociali non avesse avuto il premio di produttività si sarebbe rivolta al sindacato, il quale avrebbe piantato una grana. Così tutte ebbero il premio ma, ribadisco: il merito dove sta? E’ solo una voce aggiuntiva in busta paga. Una vera politica meritocratica deve da un lato dare obiettivi precisi, dare più risorse a chi li consegue e ridurre le risorse a chi non li consegue. In questo modo si migliora la qualità e l’efficacia dell’intervento pubblico riducendone gli sprechi e quindi, in ultima analisi, i costi. Altrimenti la burocrazia pubblica diventa un mostro divoratore di risorse senza, come sta accadendo in questi giorni in Lazio dove la Polverini si vede costretta ad aumentarle tasse per fornire gli stessi (pessimi) servizi sanitari, visto che lo Stato non vuole e non può più pagare i debiti della Regione Lazio. Ma a lungo andare questo andazzo non è più sostenibile a meno di non ridurre pesantemente la qualità della vita dei cittadini. Una prospettiva inaccettabile.

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