Trump non si ritira (non ancora) dalla Siria. E sullo sfondo il dilemma Turchia: un’alleanza “too big to fail”?

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Esagerazioni e semplificazioni sulla decisione di Trump di “ritirarsi” dalla Siria, dovute in parte all’intemperanza comunicativa del presidente Usa, in parte all’enfasi con la quale i media si scagliano contro ogni sua decisione.

È importante quindi ristabilire i corretti termini della situazione e considerare che sullo sfondo dell’interminabile crisi siriana, e delle incertezze di Washington, si stagliano gli errori dell’amministrazione Obama e un vero e proprio dilemma Turchia, ovvero la sfida che la politica neo-ottomana di Erdogan pone alla Nato e all’Occidente, su cui torneremo sommariamente.

Nel primo comunicato della Casa Bianca si annuncia che Ankara procederà presto alla sua operazione a lungo pianificata nel nord della Siria, che le forze armate Usa “non sosterranno” e in cui “non saranno coinvolte”, e che avendo sconfitto il “Califfato” Isis, le forze Usa non saranno più nelle “immediate vicinanze”. Quindi, si tratta di un ridislocamento dal confine turco-siriano, dalla zona che sarà interessata dall’operazione turca, non ancora di un ritiro completo dal nord-est della Siria. Dalle mappe delle forze armate turche, la “safe zone” da liberare dalla presenza delle milizie curde YPG dovrebbe interessare una fetta di territorio siriano al confine con la Turchia lunga circa 500 km e profonda 30. I militari americani ritirati da quest’area, per evitare che restassero coinvolti nei possibili scontri, sarebbero tra i 50 e i 150, ma per ora gli Usa manterrebbero le loro 16 basi nel nord-est della Siria. Per un resoconto dettagliato e obiettivo vi suggerisco di ascoltare le corrispondenze di Mariano Giustino per Radio Radicale.

Tuttavia, a poche ore da quello che veniva unanimemente letto come un via libera da parte di Trump al massacro dei curdi e un sostanziale successo politico di Erdogan, già si intravedono da una parte le correzioni di tiro della Casa Bianca, dall’altra tutti i rischi di un’offensiva che per Ankara può trasformarsi in un pantano e per il Sultano in un addio ai sogni di gloria.

Il Pentagono, così come il presidente Trump, ha ribadito chiaramente che gli Stati Uniti non condividono e non sostengono l’operazione turca, pur non volendo rischiare di scontrarsi con un alleato Nato: “Purtroppo, la Turchia ha scelto di adottare misure unilaterali. Di conseguenza dobbiamo garantire la sicurezza delle truppe Usa. Nessun cambiamento nella nostra presenza militare in Siria”. Inoltre, ieri, sempre il Pentagono ha reso noto di aver negato ad Ankara lo spazio aereo del nord della Siria, di averla estromessa dal Joint Air Operations Center e tagliata fuori anche dai dati delle attività di ricognizione e intelligence. Il che significa che Erdogan dovrà cavarsela da solo e probabilmente rinunciare a eventuali piani di espansione più ambiziosi, che riguardino per esempio l’area ricchissima di risorse a est dell’Eufrate.

Oltre a scontrarsi con la reazione delle valorose milizie curde, ancora assistite militarmente e finanziariamente da Washington, senza poter contare sull’aviazione, dovrà vedersela con Russia e Iran. Mosca ha già ricordato l’impegno all’integrità territoriale della Siria e l’invito a togliere il disturbo rivolto a qualsiasi presenza militare straniera non esplicitamente invitata da Damasco (cioè, resterebbe solo la Russia) e altrettanto ha fatto Teheran, ammonendo Ankara perché limiti la sua operazione alle aree di confine. Il ministro degli esteri Zarif ha chiamato il suo collega turco Cavusoglu per esprimergli comunque tutta la contrarietà iraniana. L’offensiva turca potrebbe quindi esporre tutte le contraddizioni, il contrasto di interessi tra Mosca, Teheran e Ankara, mostrando la natura tattica e temporanea dell’intesa di Astana.

Trump comunque non ha ancora ordinato il ritiro dalla Siria, anche se non nasconde che questa sia la sua intenzione. Tuttavia, nelle ultime ore, di fronte alle accuse di “tradimento” delle milizie curde, preziosi alleati nella guerra all’Isis, e alle preoccupazioni espresse anche dai settori repubblicani a lui più vicini, come i senatori Graham e McConnell, ha leggermente corretto il tiro: se la Turchia supererà i limiti, ha avvertito, “distruggerò totalmente la sua economia”. E ha twittato ancora:

“Potremmo essere in procinto di lasciare la Siria, ma in nessun modo abbiamo abbandonato i curdi, popolo speciale e combattenti meravigliosi. Allo stesso modo le nostre relazioni con la Turchia, un partner Nato e commerciale, sono state molto buone… e comprendono che, pur avendo rimosso i 50 soldati che avevamo nell’area, ogni attacco non necessario e non provocato da parte della Turchia sarà devastante per la loro economia e la loro già fragile moneta. Stiamo aiutando i curdi finanziariamente e con armamenti”.

Un’altra preoccupazione del presidente Usa è la custodia dei combattenti Isis catturati, di cui ritiene Ankara direttamente responsabile, dal momento che sotto l’offensiva turca le milizie curde potrebbero non essere in grado di garantirla.

Per comprendere le decisioni di Trump occorre sempre tenere presente la sua volontà di mantenere gli impegni presi con gli elettori americani. Riguardo la Siria, aveva detto in campagna elettorale “sconfiggiamo l’Isis e torniamo a casa”. Bisogna ammettere che almeno su due argomenti il presidente non ha tutti i torti: “Sono stato eletto per uscire da queste ridicole endless wars” (“guerre infinite”), ha ricordato in uno dei suoi tweet rispondendo alle critiche, “dove le nostre grandi forze armate svolgono operazioni di vigilanza a beneficio di persone che nemmeno amano gli Usa”. Si sente forte l’eco di una politica estera jacksoniana anche in un altro tweet del presidente: “Combatteremo solo laddove sia a nostro vantaggio, e solo per vincere”.

Forte è anche l’irritazione di Trump per la latitanza dei Paesi europei, a partire da Francia e Germania, che sanno solo alzare il ditino e propinare ipocrite paternali:

“Abbiamo velocemente sconfitto il 100 per cento del Califfato dell’Isis, catturando migliaia di militanti, la gran parte provenienti dall’Europa. Ma l’Europa non li ha voluti indietro, hanno detto teneteveli! Ho detto no, vi abbiamo fatto un gran favore e ora volete che siano tenuti in prigioni americane ad un costo enorme… Sono vostri, processateli. Hanno detto ancora no, pensando, come sempre, che gli Usa siano i fessi, sulla Nato, sul commercio, su tutto…”.

È chiaro, come dimostra anche la decisione di non rispondere militarmente al proditorio attacco iraniano ai maggiori impianti petroliferi sauditi, che Trump vuole entrare nella campagna elettorale per le presidenziali 2020 offrendo agli americani segni tangibili di uscita degli Usa dalle “endless wars” (Afghanistan e Siria), ormai decisamente impopolari, senza farsi trascinare in nuovi conflitti. Il problema, come spesso accade, potrebbe emergere dalle conseguenze non intenzionali. Soprattutto nel confronto con Teheran, come abbiamo scritto su Atlantico, voler a tutti i costi evitare una risposta militare oggi potrebbe incoraggiare il regime iraniano nella sua escalation di provocazioni, fino al punto di ritrovarsi proprio in piena campagna elettorale con una nuova provocazione, forse persino un attacco a uomini e mezzi Usa, che metterebbe Trump di fronte alla scomoda alternativa tra non reagire, mostrandosi debole, e rischiare un conflitto armato a quel punto su larga scala.

Per quanto riguarda la Siria, l’amministrazione Trump ha ereditato da Obama una situazione oggettivamente compromessa. Piuttosto che mettere in piedi e guidare una coalizione regionale per combattere l’Isis, l’amministrazione Obama è rimasta a lungo paralizzata tra Assad e gli islamisti, per poi decidere di scansarsi per facilitare il deal sul nucleare con gli iraniani e appaltare a un solo attore, tra l’altro non statale e nemico giurato della Turchia, un alleato Nato, la lotta contro lo Stato islamico. È questa politica che ha creato le premesse per una guerra oggi tra Turchia e milizie curde, e incrinato i rapporti con Ankara spingendola ancor di più a guardare verso Mosca. Fin dall’inizio appariva infatti evidente che sarebbe arrivato il momento in cui la Turchia non avrebbe potuto più tollerare ai suoi confini quella che di fatto è un’entità territoriale autonoma, nel nord-est della Siria, dominata dal PKK – tra l’altro un attore comunque destinato prima o poi a rientrare nel sistema Assad-Iran.

Dunque, quello che oggi appare come un “tradimento” delle milizie curde YPG da parte di Trump è l’inevitabile conseguenza del “tradimento” di un alleato Nato da parte americana andato avanti per anni. È un danno di immagine per la credibilità di Washington agli occhi dei suoi alleati? Sì, doppio. Ma il prezzo inevitabile di scelte sbagliate precedenti. Gli Stati Uniti avrebbero forse dovuto con leggerezza abbandonare un’alleanza decennale con la Turchia nella Nato per una relazione temporanea, di momentanea convenienza reciproca, con un attore non statale dalla forte componente terroristica? È realistico pensare di poter contenere l’Iran e la Russia in Medio Oriente, al tempo stesso voltando le spalle a turchi e sauditi? Con l’aiuto di chi l’America dovrebbe cercare di stabilizzare la regione difendendo i propri interessi?

E qui veniamo al dilemma di cui parlavamo all’inizio. La Turchia è ancora un alleato leale, affidabile per l’Occidente dopo la deriva autoritaria ed islamista di Erdogan? Il Sultano sta in effetti sganciando il suo Paese dall’ancoraggio occidentale, non per traghettarlo in qualche altra sfera di influenza (almeno non nelle sue intenzioni), ma per giocare una partita geopolitica più ambiziosa, forse troppo, un disegno neo-ottomano, in cui la Turchia tornerebbe ad avere un ruolo egemone nel mondo arabo sunnita e in quello turcofono dell’Asia centrale. Dunque, la questione della sua appartenenza alla Nato andrebbe aperta? È un vero e proprio dilemma e ad oggi non ci sembra di intravedere alcun leader, in Europa o negli Stati Uniti, con la risposta pronta. Tutti temporeggiano. E se la presa di Erdogan sul Paese non fosse poi così irreversibile? Se il suo progetto stesse già fallendo? L’alleanza dell’Occidente con la Turchia è semplicemente “too big to fail”, sostengono in un interessantissimo saggio Michael Doran e Peter Rough, in cui sottolineano che salvare la relazione con Ankara dovrebbe essere l’obiettivo comune di una partnership tra Stati Uniti e Germania, in una fase di profonde e numerose divergenze anche tra Washington e Berlino.

L’imprevedibilità di Trump, che si lascia guidare dall’istinto, e il mix contraddittorio di politiche che ne deriva rischiano di compromettere la credibilità e l’influenza di Washington, ma la difficile posizione in cui si trovano oggi gli Stati Uniti in Medio Oriente – per cui spesso non esistono buone opzioni ma solo politiche di riduzione del danno, per le quali diventa arduo guadagnare il consenso del pubblico americano – non dipende da lui.

Se da una parte, la strategia della “massima pressione” sull’Iran sta funzionando, tanto che persino la Cina sta riducendo il suo ruolo nel Paese (temendo le sanzioni Usa, la China National Petroleum ha rinunciato agli investimenti nel giacimento di gas iraniano South Pars), dall’altra le recenti proteste violente e lo stallo politico a Baghdad, l’offensiva turca a cui alla fine Washington si è dovuta piegare, le attività malevoli di Teheran in Iraq, Siria, Libano e Yemen, la guerra in Libia, sono tutti eventi che dimostrano come siano ancora all’opera le forze destabilizzanti sprigionate dalle cosiddette Primavere Arabe, che lungi dall’avviare il Medio Oriente sulla strada della democrazia, del buon governo e dello sviluppo, come tragicamente in molte capitali occidentali si era pensato, continuano a produrre conflitti, tirannie, estremismo islamico e migranti.

Nella sua column sul Wall Street Journal, Walter Russell Mead ha ricordato come Trump “non sia il primo presidente che prova a ritirare l’America da un conflitto in Medio Oriente”. Ancora più sconsiderato del ritiro per ora solo annunciato di Trump dalla Siria fu il frettoloso ritiro dall’Iraq voluto da Obama, che ha lasciato dietro di sé un vuoto riempito dall’Isis, dall’Iran e dalla Russia, e a cui si deve la situazione attuale in cui Washington può mantenere una posizione solo interdittiva. E non tutti quelli che oggi criticano Trump con argomenti fondati criticarono Obama allora.

La decisione di Trump può certamente rivelarsi un errore, conclude WRM, portando ad un coinvolgimento maggiore in futuro, ma se due presidenti così diversi sono giunti a conclusioni simili circa i rischi politici di un prolungato impegno militare in Medio Oriente, questo dovrebbe chiamare tutti ad un supplementare sforzo di approfondimento. “Gli Stati Uniti possono essere l’attore più potente nella regione, ma non così potente da poter risolvere i conflitti economici e sociali che destabilizzano il Medio Oriente”. Non esiste intervento risolutivo, posizione definitiva e, forse tranne Israele, nemmeno alleati validi in ogni circostanza e in ogni momento.

È qualcosa che i cittadini americani sembrano aver compreso prima e meglio di tanti analisti e dell’establishment politico a Washington. Per questo, sarà sempre più difficile che un impegno militare di lungo termine in Medio Oriente possa trovare il loro consenso e, quindi, lo slancio dell’inquilino pro tempore della Casa Bianca.

Di Federico Punzi in Atlantico Quotidiano QUI

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