Il capitalismo non ha più fiducia in se stesso

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di Giovanni Radini

La preoccupazione è tanta e naturale. La settimana si conclude con i mercati finanziari di tutto il mondo frustrati per le perdite subite. Gli analisti cercano di dare spiegazioni ed elargire consigli per interventi di emergenza. Tuttavia, la sensazione è che al mondo capitalistico – vittima dell’ennesimo trauma borsistico – manchi quell’elemento essenziale per riprendersi. Per rialzarsi e ricominciare da capo. La fiducia in se stesso.

Forse non è ancora il momento. Forse siamo ancora nella fase delle batoste e delle sberle. Poi verrà quella della cura. Il tempo, le nazioni e il mercato sapranno fare il proprio dovere. Tuttavia, l’evento ha dell’eccezionale. Sembra un nuovo 11 settembre, ma senza grattacieli che si sfaldano a terra e migliaia di morti. Certo, questo è già un bene. Resta il fatto che si sta concludendo un ciclo, un altro strepitoso e poi drammatico capitolo della finanza, impostata sulle regole e sulla morale occidentali.
Ma, oltre alla rituale domanda di come sarà il futuro, bisogna anche rendersi conto di come sia il presente. Tutto è bloccato. Tutto. Il crack a catena di Wall Street e dei mercati finanziari asiatici ed europei ha letteralmente stoppato la vita politica e diplomatica internazionale. Le elezioni USA, l’evento clou che avrebbe dovuto attrarre l’attenzione dei media in questo mese, vengono trattate per via accessoria, per sapere come il prossimo inquilino della Casa bianca si comporterà per affrontare un problema che, al momento del suo insediamento, sarà ancora aperto. Le crisi del Caucaso, del Medio Oriente e anche la questione del nucleare iraniano sono passate nelle seconde linee. Logico quanto naturale. Tuttavia, una cosa è bloccare i lavori per poi riprenderli senza che nulla cambi, un’altra è riavviare le macchine quando i motori si sono raffreddati e i conducenti non sono gli stessi di prima.

Prima di questa crisi, il sistema-mondo vantava un quantitativo di risorse sufficienti per trattare in sede diplomatica e raggiungere gli obiettivi prefissati. Le riserve economiche davano fiducia e stimolavano le parti a sedersi ai tavoli della pace. Non è un caso che Bush sia andato in Israele e nei Territori Palestinesi proprio all’inizio di questo stesso anno. Certo, gliel’hanno suggerito le dinamiche elettorali già in corso a gennaio oltreoceano, come pure la necessità di compensare con il disastro iracheno. Ma è stato lo stesso trend positivo della locomotiva statunitense a fargli fare passi così importanti in sede diplomatica. Oggi tutto questo non è possibile. E mentre broker e analisti si arrabattano per tamponare falle incredibili, la diplomazia resta a guardare, auspicando che questo tzunami – se proprio non riuscirà a far pulizia – per lo meno non distrugga quel poco di positivo che è stato costruito pazientemente in questi anni di globalizzazione. Globalizzazione in sede di politica internazionale.

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