Capitalismo

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(LB) Possedere capitale (sia in denaro liquido che immobili) non è di per sé reato in alcun Paese al mondo. Per questo ci diciamo “capitalisti”. Sono diventati capitalisti la Federazione Russa e i Paesi dell’ex blocco sovietico; poi la Cina, l’India, il Vietnam, la Cambogia, Cuba (in parte). Resta fuori, se non sbaglio, solo la Corea del Nord. Dunque, il capitalismo si è affermato in tutto il mondo: e con esso la cosiddetta economia di mercato. Insieme all’economia di mercato si è allargata la libera circolazione delle merci, dove “libera” significa senza pagare dazio: oltre quella dell’Unione europea (che include 28 Paesi), le unioni doganali si diffondono. Ad esempio sono in corso trattative per l’unione doganale fra Europa e Stati Uniti, che insieme costituiscono la più grande economia esistente: circa 30/35.000 miliardi di dollari di Pil.

Fino a qui forse non ci sarebbe niente da eccepire: libero mercato vuol dire maggiore accesso a beni di ogni genere per tutti e, in particolare, accesso a quelli più economici. “Libero” mercato però, in Occidente significa, almeno in linea di principio, regolato e controllato: ad esempio ci sono regole e controlli per garantire la sicurezza dei prodotti. Purtroppo significa anche circolazione di beni che sono imitazioni del made in Italy: pare per una cifra di 60 miliardi di dollari, che vengono sottratti alle nostre aziende. Ed è un traffico che non si riesce a smontare. Inoltre c’è il problema non irrilevante che le produzioni a basso costo di manodopera (Cina ma non solo) portano via il lavoro ai Paesi dove il lavoro è più costoso (per esempio in Italia, dove il lavoro è più costoso non tanto in sé, ma per i balzelli che vi gravano sopra, il cosiddetto cuneo fiscale). Per ovviare a questo problema si risponde che i Paesi avanzati devono puntare sulla produzione di beni più sofisticati, sulla innovazione, sul design, sulla tecnologia, sulla automazione (che però di nuovo porta via posti di lavoro), sulla produttività. Quindi ci sono pro e contro nella libera circolazione delle merci; ma, sommando vantaggi e svantaggi, si può dire che sulla distanza sarebbe forse peggio (e comunque di incerti risultati) cercare di ostacolare e restringere questi scambi.

Insieme all’allargarsi delle frontiere doganali, negli ultimi trent’anni si è inserito un nuovo fattore che chiamiamo “finanziarizzazione dell’economia”. E’ un processo complesso, di matrice anglosassone e soprattutto americana, che ha portato a mettere al centro del sistema una visione puramente finanziaria dei processi economici. Al centro non c’è l’uomo, non c’è l’impresa, non ci sono più neppure il mercato ed il profitto. C’è il capital gain, il guadagno derivante dallo scambio di titoli finanziari, gestiti da istituzioni largamente manipolatrici del mercato. Questa involuzione non solo ci ha portato al crollo finanziario internazionale del 2007/2008, ma ha svuotato di fatto la nostra Costituzione economica, che è di stampo liberale, ma con un elevato livello di responsabilità sociale e con un ruolo di rilievo per il lavoro (art. 1 e 4). (Marco Vitale).

La libera circolazione dei capitali viene osteggiata da un certo numero di Stati i quali cercano di mantenerli a casa propria, nella presunzione che vengano investiti e producano ricchezza localmente. Ma con poco successo. La massa di denaro che circola nel mondo, secondo di Giulio Tremonti (Bugie e verità, Mondadori), assomma a un triliardo di dollari. Ovvero un milione di miliardi, ovvero quindici volte il Pil mondiale, che è appunto oggi di 60/70 miliardi di dollari. Va detto che queste cifre sono approssimative: dipendono da valutazioni degli economisti, e possono oscillare anche in larga misura. Ma il punto è che, non ostante le restrizioni dei singoli Stati, il denaro che circola nel mondo, cioè fuori dai confini dei suddetti Stati, è una massa enorme. Per intanto ci sono le ricchezze che vengono tenute nei paradisi fiscali europei (Svizzera, Lussemburgo, Andorra, Monte carlo, San Marino, Lichtenstein, ma anche Olanda e Irlanda); oppure, che da questi paradisi domestici vengono gestite nei paradisi fiscali extra europei (cosiddetti offshore). Oppure direttamente nei Paesi offshore.

Tuttavia negli Usa oggi vige la regola dell’ex presidente del Fed Paul Volcker, per vietare alle banche, forti della garanzia statale sui depositi raccolti presso il pubblico, di investirli in attività ad alto rischio, di cui è ben nota la regola: se le perdite superano i profitti, esse graveranno sui contribuenti, mentre i profitti arricchiranno azionisti e manager. La strenua resistenza dei giganti bancari Usa sui minuti dettagli dei regolamenti attuativi, sembra sia stata superata dal grande vecchio Volcker, secondo il quale le grandi innovazioni finanziarie han fallito alla prova del mercato: l’unica innovazione utile degli ultimi 30 anni è stato il Bancomat. Le minacce delle banche, che non potranno più fare scommesse a senso unico, non hanno avuto successo. Non cambierà il mondo, ma in futuro i contribuenti Usa saranno più protetti.

Le istituzioni europee invece rendono tutto più complicato. La Francia ha mosso qualche timido passo verso la Volcker Rule, mente il Regno Unito sta per separare nettamente le tradizionali banche commerciali dalle più rischiose banche di investimento. Non molto, dunque. Per fortuna si va invece avanti sull’unione bancaria, pur se sono ancora nebulosi i dettagli, per le obiettive astrusità del tema e per il freno frapposto da alcuni, Germania in testa, ai progressi della Unione bancaria. Questa ha in sé le premesse par fare da acceleratore, oltre un certo punto irreversibile, alla vera integrazione, economica e politica. Di qui una comprensibile ma esasperante lentezza. Agli Usa son serviti ben quattro anni per placare gli spiriti animali delle banche; almeno, in Europa, si confrontano gli interessi non di biscazzieri privati, ma di Stati sovrani.

(Salvatore Bragantini).

La nuova finanza

(Francesco Guerrera, La Stampa) I signori della finanza non abitano più a Wall Street. Le banche sono ancora potenti, ricche e tentacolari: nomi quali Goldman Sacks, Morgan Stanley e J. P. Morgan rimangono bastioni della finanza globale. Ma la reputazione e l’alto status sociale di chi le guida e di chi ci lavora sono stati distrutti dalla crisi del 2008. Basta guardare le proteste dei ragazzi di Occupy: schernivano senza pietà le capacità manageriali, mentali e fisiche dei vari Jamie Dimon, il magniloquente capo della J.P. Morgan, o Lloyd Blankfein, il leader della Goldman. Di qui il disprezzo, invece dell’ammirazione. Ma l’economia, come la natura, aborre il vuoto. Il posto dei titani di Wall Street sta per essere preso da un gruppo di finanzieri che vive nelle ombre del settore finanziario, lontanò dalle luci della ribalta che stanno causando così tanti problemi alle vecchie banche.

Benvenuti nell’era del private equity, un’industria misteriosa e influente che sta ricoprendo dì denaro i suoi guru. I re Mida della finanza oggi hanno nomi che i} grande pubblico non conosce: Stephen Schwarzman, Henry Kravis, Leon Black e David Kubenstein. Lavorano in società da loro fondate, senza il blasone o la storia di Goldman Sachs, Morgan Stanley o Merrill Lynch, ma con più voglia di fare e molte meno remore sul come farlo. Il passaggio di mano è evidente quando si guarda all’unico fattore che conta nel mondo della finanza: i soldi fatti da questi capitani d’industria. L’anno scorso, i grandi capi del private equity, un gruppo di più o meno dieci persone, si sono portati a casa quasi tre miliardi di dollari grazie ai successi delle loro operazioni.

Per esempio, il signor Black, che aveva iniziato come venditore di obbligazioni spazzatura negli Anni 80, ha guadagnato più di mezzo miliardo di dollari, grazie ai successi della sua società, Apollo Global Management. La sua collezione di opere d’arte, che già conta L’Urlo di Edward Munch e un prezioso Raffaello, ne trarrà senz’altro giovamento. Ma le differenze tra le banche storiche e i nuovi ricchi della finanza non si fermano al portafogli o ai capolavori d’arte. Il private equity e Wall Street hanno funzioni e doveri completamente diversi nell’ecosistema economico. A differenza delle banche, che nel corso degli anni si sono impelagate in operazioni sempre più complicate, il private equity è semplice. Le società dì Kravis, Black e Rubenstein raccolgono soldi dai dai fondi pensione, università e governi e comprano società quotate m Borsa, spesso quando sono in difficoltà. Le società vengono ristrutturate, con gran tagli di costi e di dipendenti (leggi: licenziamenti) e dopo un po’ di anni, rivendute o sul mercato o a concorrenti. I signori del private equity distribuiscono gli utili di queste operazioni ai propri investitori (di regola il 20% annuo sul capitale investito) al netto della loro commissione non insignificante.

Il trucco del private equity è utilizzare pochi capitali e molto debito, in modo da spendere poco e aumentare il ritorno. E’ un sistema che funziona quando l’economia tira, e i tassi di interesse sono bassi, ma che può contribuire alla crisi economica e sociale in tempi di recessione. Non è un caso che società di grandi dimensioni comprate dal private equity prima della crisi – per esempio la catena degli Hotel Hilton, oppure un gruppo di casinò di Las Vegas, Caesar Palace – abbiano fatto una fatica enorme a stare in piedi durante gli anni bui del 2008-2009. Alcune sono andate in bancarotta, con perdite finanziarie ingenti e perdite ingenti di posti di lavoro. I rischi ci sono e non sono piccoli ma sono diversi da quelli corsi dalle banche. Goldman, Morgan Stanley e Merrill Lynch (come anche Deutsche Bank e Unicredit) sono degli intermediari. La società private equity investe di suo. Nel caso delle banche, c’è il rischio che una delle due parti – il cliente che vuole vendere azioni o quello che le vuole comprare per esempio – non abbia soldi o che le banche stesse mettano del proprio capitale a rischio, come è successo nella crisi del 2008. Nel caso del private equity, il capitale è sempre a rischio. Quando si vince, si vince bene ma quando si perde si perde molto. Ma per ora, il private equity sta vincendo, grazie in parte ai tassi di interesse bassissimi della Federal Reserve e al momento d’oro dei mercati azionari: nel 2013 gli investitori hanno ricevuto circa 360 miliardi di dollari da questo tipo di fondi – un ottimo risultato. Quando ho spiegato questo ragionamento ad un amico banchiere, mi ha sorriso e, con la condiscendenza tipica della professione, mi ha chiesto: <Davvero? E tutte queste compravendite il private equity come le fa?>. Domanda retorica, la cui risposta è: .

II che è giusto. Wall Street trova sempre e comunque un modo di fare soldi quando ci sono i soldi in gioco. Ma ciò non toglie che il ruolo delle banche, come le buste paga dei loro capi, sia stato sminuito dalle vicende degli ultimi anni e dall’esplosione delle società di private equity. Uno e lei fattori chiave in questo avvicendamento è la struttura delle società. Quasi tutti i gruppi di private equity sono in mano ai loro fondatori, che a loro volta hanno investito quasi tutta la loro ricchezza nei fondi. Nel caso delle banche, Dimon e Blankfein sono degli impiegati che rispondono a migliaia di azionisti senza volto. Come mi ha detto un capo di private equity in maniera chiara anche se non proprio delicata:

Ma lo Stato c’era

(Tonia Mastrobuoni, la Stampa) Lo slogan di Steve Jobs “siate folli”, e i ragazzini che inventano un algoritmo rivoluzionario nel garage, sono ormai due immagini potentissi-me, che hanno contribuito a fondare negli ultimi anni la mitologia americana di un capitalismo coraggioso e innovativo, quello digitale della Silicon Valley. Immagini che continuano ad alimentare una storia che sa molto di Wild West, ma che omettono un particolare non trascurabile. Quel mito non sarebbe mai esistito senza lo Stato. Apple, il colosso costruito da Jobs col simbolo ribelle della mela morsicata; il personal computer, Internet, il Gps, le moderne tecnologie legate agli smartphone come il touchscreen o Siri sarebbero inimmaginabili senza il contributo della ricerca pubblica, senza lo Stato imprenditore. Oltretutto in un Paese, come gli Stati Uniti, dove si pensa – e si predica – che la sua influenza debba essere minima.

Mariana Mazzuccato, economista dell’Università di Sussex, ha scritto un libro (Lo Stato innovatore, Laterza) che rovescia una serie di luoghi comuni ormai cristallizzati sul rapporto tra Stato e mercato. L’economista di origine italiana si pone un obiettivo ambizioso: quello di smentire la vulgata che lo Stato debba dare spazio agli “spiriti animali” del mercato, che, lasciati liberi, si precipiterebbero alla ricerca di nuove avventure innovative investendo montagne di soldi. È vero l’esatto opposto: da decenni a questa parte, come dimostrano a un’analisi attenta i progressi in alcuni settori cruciali, la visibile mano dello Stato è stata fondamentale. .

Basta timidezze: questo il filo rosso del libro. Chi sostiene la necessità di un su ruolo attivo dello Stato deve uscire dall’ombra. Il settore pubblico è uno dei rari attori del mercato che dimostri “visione”, cioè capacità di rischiare, che fa investimenti “pazienti”, che hanno una prospettiva di più lungo respiro di quelli delle aziende. Per citare i grande pensatore Karl Polanyij

Oklocrazia

(Elirs/Roel, Circolo Rosselli) Oggi non ci si accorge che la democrazia voluta dai nostri “padri costituenti”, in maggioranza persone perbene e oneste, animate da istanze di legalità, di libertà e di equità, nel corso dell’ultimo quarantennio è stata tanto “abusata” da diventare una oklocrazia (degenerazione populista della democrazia). A ben vedere, la realtà oggettiva dice che ci troviamo in presenza di contenuti, fatti e misfatti che, per antonomasia, rappresentano la negazione di un regime autenticamente “democratico” Per esempio: tangentopoli eretta a sistema, corruzione a 60 miliardi, evasione a 200 miliardi, parentopoli, clientelismo, intere regioni in mano alla criminalità, il 50% della ricchezza in possesso del 10%, i ricchi diventati sempre più ricchi e viceversa … privilegi smodati, pensioni d’oro, vitalizi, finanziamenti illeciti, partitocrazia che come idrovora succhia e inghiotte montagne di denaro, gruppi politico-amministrativi d’una voracità illimitata, centinaia di corrotti come De Gregorio che ammorbano le istituzioni e come sanguisughe rendono anemico lo Stato, milioni di giovani disoccupati e senza futuro, manager e dirigenti con retribuzioni milionarie, i politici più pagati e i lavoratori i meno pagati d’Europa, disuguaglianze sociali intollerabili, forniture di materiali e strumenti che in alcune regioni costano anche dieci volte in più rispetto ad altre, appalti truccati, avvelenamento del suolo e delle falde, di fiumi, di laghi, di mari … Indicando come esclusivi responsabili di tutto ciò i cittadini-elettori, ci si dimentica che l’astensionismo in alcuni casi ha raggiunto il 50% e, nelle prossime elezioni europee il dato potrebbe anche essere superato. Parlare di stato “etico e culturale” in queste condizioni risulta veramente paradossale! Sono milioni quelli che pensano che votando ci si rende complici di questo stato di cose e dell’andazzo della “politica”, dei politicanti e del politichese. Hanno torto?

Se tutta Italia diventa Sud

(Michele Salvati, Corriere) . Chi scrive è Luciano Cafagna, uno dei più grandi storici italiani e profondo conoscitore del Mezzogiorno. Emanuele Felice è un allievo di Cafagna, che ha scritto un libro giustamente ambizioso: Perché il Sud è rimasto indietro. La sua interpretazione (del perché il Sud sia oggi così mal messo) conferma le intuizioni di Cafagna e smentisce . In particolare esse mostrano l’infondatezza di quell’atteggiamento “rivendicativo” e “risarcitorio” che ancora è presente in alcuni studiosi, e assai diffuso in chi studioso non è: un atteggiamento basato sulla presunta responsabilità per i danni che la classe politica dell’Italia unita avrebbe arrecato al Mezzogiorno. La verità è un’altra: il governo borbonico, specie nel periodo in cui altrove in Italia e in altri Paesi europei ritardatari si creavano le premesse istituzionali per l’imminente sviluppo capitalistico – il mezzo secolo precedente l’Unità – deliberatamente si pose controcorrente, esasperando quei tratti reazionari e regressivi che avrebbero condannato il Mezzogiorno alla minorità economica e istituzionale nella fase post unitaria.

La distinzione fra istituzioni economiche “inclusive” e istituzioni “estrattive”, è dovuta ad un importante lavoro di due autori americani dal titolo Perché le nazioni falliscono. Le istituzioni inclusive favoriscono il coinvolgimento di larghi segmenti della società in attività economiche libere, regolate da uno Stato autorevole che difende i diritti dei cittadini: ciò conduce alla crescita economica e allo sviluppo umano e civile. Le seconde sono finalizzate a estrarre rendite a vantaggio di una minoranza privilegiata, ciò che avviene anche se, anzi proprio perché, l’economia ristagna: se fossero garantiti e ampiamente diffusi i diritti di libertà (e di conseguenza la crescita economica e civile), essi minaccerebbero gli equilibri politici che garantiscono l’estrazione di rendite. Emanuele Felice fa un buon uso delle categorie dei due autori, ovvero dell’analisi dell’ultima fase del governo borbonico, delle grandi organizzazioni criminali, della debolezza delle istituzioni statali, del funzionamento della politica meridionale, specie della politica locale, e di tanti altri pezzi del puzzle del Mezzogiorno. Di suo, Emanuele Felice dedica particolare attenzione alla diseguaglianza tra le diverse regioni italiane, alla più alta sperequazione nei redditi e nelle ricchezze che già caratterizzava il Sud all’inizio dell’esperienza unitaria. Tratti reazionari e regressivi – istituzionali, economici, politici – che il governo borbonico aveva accentuato nella sua ultima fase, che il regno d’Italia e il fascismo non hanno estirpato e anzi hanno assecondato, e che ancora in forme diverse permangono in regime repubblicano.

Dannati torinesi

Gian Arturo Ferrari, nato a Gallarate, è stato per molti anni direttore generale della divisione libri Mondadori e manager di un terzo dell’editoria italiana. <È l’uomo più potente dell’editoria italiana e questa posizione gli piace moltissimo. Nei corridoi felpati della Mondadori lo chiamano Il Professore. Letterato e manager, passionale e cinico, colto e smaliziato> (Caterina Soffici). <L’editoria è uno strano mestiere, in cui si usa lo spirito per fare i soldi e i soldi per fare lo spirito> (G. A. Ferrari)

(Gian Arturo Ferrari, Corriere) A priori non era scritto che Torino dovesse diventare, come è diventata, la capitale morale del libro (e forse della cultura) in Italia. Dignità quest’ultima cui è stata definitivamente elevata, e per così dire consacrata, dalla ventisettesima edizione del Salone del Libro. Una consacrazione non solo metaforica, visto che il Paese ospite è stata quest’anno la Santa Sede e che il contributo più profondo e anche più seguito è venuto da agguerritissimi (sul piano culturale, s’intende) cardinali. Ma alla fine degli anni Ottanta, quando fi Salone nacque, altre erano le città italiane in cui libri e cultura parevano destinati a trovare stabile dimora. Alcune, leggasi Milano, per la concentrazione in loco delle capacità imprenditoriali. Altre, leggasi Roma, per la vivacità e la brillantezza dell’iniziativa pubblica. Torino, capitale di una strana monarchia pluridinastica e borghese, factory town declinante, patria di fatto o di elezione di tutti o quasi i segretari del Pci e dei partiti derivati, pareva avviata a un lento e onesto tramonto. E, culturalmente parlando, all’insignificanza. Se così non è andata, lo si deve all’esercizio assiduo di tre virtù, che per essere nel nostro Paese poco popolari, poco apprezzate e ancor meno praticate, meritano non solo la menzione, ma qualche illustrazione. La prima è la perseveranza. Che vuol dire, restare fedeli a una propria idea, a una propria visione delle cose resistendo agli inevitabili scoramenti e considerando ostacoli, intoppi e cadute come qualcosa da varcare o aggirare, ma di fronte ai quali non vacillare, non rinunciare, non arrendersi. Anche quando la situazione si era fatta grave, e in alcuni momenti lo è stata, la città di Torino e le istituzioni piemontesi hanno trovato la forza – anche concreta, economica – di far fronte, di non cedere, di perseverare. La perseveranza dei cittadini, dell’elettorato, ha consentito di mantenere un assetto politico sostanzialmente stabile per un arco di tempo motto lungo. La perseveranza della politica ha consentito prima di scegliere poi di applicare un indirizzo secondo il quale la cultura era non un doveroso accessorio, ma l’investimento principale della collettività. Altre città e regioni italiane hanno goduto di analoga o persino maggiore stabilità, ma nessuna ha compiuto una scelta così netta e così chiara. E andando a fare i conti si scoprirebbe forse che la città e la provincia di Torino, insieme con la Regione Piemonte, hanno investito in promozione della lettura più dello Stato italiano. La perseveranza dei gestori e dei responsabili culturali ha fatto il resto, ha cioè affermato in concreto un principio di libertà e di apertura a tutte le voci. La seconda virtù è la solidità. Che vuol dire principalmente rifuggire dal melodramma nazionale, quell’oscillazione perpetua tra il faraonico e lo sconquassato. Il Salone internazionale del libro di Torino, grazie a Dio, non si è mai proposto mete grandiose, cambiamenti epocali della sensibilità, eventi di portata planetaria. E Torino è stata, attentamente, al suo. Guardandosi intorno con l’aria un po’ circospetta degli agricoltori piemontesi. Quell’aria che doveva avere anche il senatore, poi Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi quando acquistava le cartoline postali, dal costo di 7 centesimi l’una, tre alla volta. Per farsi dire dal tabaccaio, mentre si frugava in tasca: . Il Salone del libro, come le altre istituzioni culturali torinesi, non ha inseguito chimere. Ha coltivato serenamente il proprio campicello. Serenamente anche perché sapeva che il suo campicello era grande come il mondo, era il sistema nervoso del mondo. Ma sempre nei suoi confini e rimasto. Il che ci porta diritto alla terza virtù, che è la manutenzione. La quale manutenzione non viene in genere annoverata tra le virtù, né cardinali, né teologali. Ma lo dovrebbe essere, specialmente in Italia, dove siamo professionisti del non tenere bene, con cura, con amore, quello che abbiamo. Il Salone del libro è stato invece tenuto bene, con attenzione. E di anno in anno si notano piccoli aggiustamenti, riparazioni, qualche comodità aggiunta. Nulla di emozionante, ma un lavorio continuo, un formicaio di attività sotto la superficie delle grandi manifestarono della folla che si accalca – ma poi si siede ordinatamente – per vedere i propri autori più amati. C’è qualcosa di confortante nell’assistere alla reiterazione: le sale, gli stand, i corridoi, persino gli autori. Un contenitore stabile, solido, ben tenuto. Perché intanto il contenuto, sta cambiando, si sente là in fondo un sordo brontolio e a qualcosa dobbiamo pure aggrapparci. Nei corridoi del Salone del libro era percepibile una sensazione di schiarita e di conforto, come di ritornare nel vecchio e amato luogo di vacanza, come di sentirsi un po’ più’ al sicuro. Come di energia ritrovata per affrontare quello che ci aspetta domani o, più alla torinese, dopodomani.

Aveva ragione Kant

Durante gli anni del liceo (confesso: avevo un debole per la filosofia), pensavo che la spiegazione della oggettività della conoscenza, elaborata da Immanuel Kant nella “Critica della Ragion Pura”, fosse la più persuasiva fra quelle proposte dai filosofi prima e dopo di lui. Non avendo proseguito in quegli studi, ero rimasto fermo a questa convinzione. Ebbene: quale soddisfazione nel leggere un recente articolo, che conferma l’interpretazione di Kant addirittura attraverso una prova scientifica! Fornisco qualche ragguaglio. In Kant il meccanismo “formale” della conoscenza, a prescindere cioè dal contenuto di essa, si chiama “trascendentale”. Kant infatti vuole spiegare non “che cosa” si conosce, ma come avviene la conoscenza. Ossia, vuole definire i presupposti teorici che rendono possibile la conoscenza oggettiva. Essa è per un verso passiva, in quanto si basa su dati sensibili che noi acquisiamo, appunto, passivamente; ma, per altro verso, è attiva, poiché siamo dotati di “modi di funzionamento” ossia di funzioni trascendentali dell’intelletto che automaticamente si attivano nel momento in cui riceviamo i dati sensibili. Questi modi di funzionamento della conoscenza sensibile non sono un’attività che viene messa in moto da noi, ma dalle peculiarità specifiche del nostro stesso intelletto. Kant inoltre afferma che le funzioni trascendentali hanno caratteristiche di “necessità” – nel senso che la nostra ragione le mette “necessariamente” in azione: tanto che anche se volessimo non potremmo fare a meno di usarle. A questo proposito Kant parla anche di “universalità” perché appartengono, allo stesso modo, a tutti gli uomini dotati di ragione.

(Massimo Piattelli Palmarini, La Stampa) Non capita tutti i giorni che una tesi filosofica fondamentale sia confermata sperimentalmente. Eppure questo è successo, grazie a un lavoro appena uscito ad opera di una delle più note e autorevoli psicologhe cognitive: Elisabeth Spelte, docente di Harvard. Lo studio ha confermato la tesi di Immanuel Kant che spazio, tempo e numero, sono innati. Afferma la Spelte: .

Effettuare esperimenti di natura cognitiva su bimbi molto piccoli, in particolare su neonati a solo due o tre giorni dopo la nascita, sembrerebbe presentare formidabili difficoltà.

Perché questi risultati mostrano che spazio, tempo e numeri sono innati? .

Quali saranno i prossimi esperimenti del gruppo?

Citazione

Il problema dell’umanità è che gli stupidi sono ultrasicuri, mentre le persone intelligenti sono piene di dubbi (Bertrand Russell)

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