Un voto per il cambiamento

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LIVIO GHERSI

Negli Stati in cui gli ordinamenti liberaldemocratici sono consolidati, l’alternanza delle forze politiche al governo è considerata fisiologica. In particolare, quando un Governo ha malgovernato, o ha creato al Paese più problemi di quanti non ne abbia risolti, non c’è partita: il Corpo elettorale si rivolge allo schieramento politico alternativo e lo mette alla prova. Anche in Italia, quindi, dopo la crisi del 2011, l’esito dovrebbe essere scontato. Il Corpo elettorale dovrebbe concedere un turno di riposo allo schieramento di Centrodestra, che si è diviso politicamente e non ha saputo garantire la tenuta dei conti pubblici. Tanto più che il Centrodestra, dopo cinque tornate elettorali (1994, 1996, 2001, 2006, 2008), schiera per la sesta volta consecutiva il medesimo leader: Silvio Berlusconi. E’ un po’ troppo anche per gli Italiani moderati e pazienti.

Si fa fatica a credere che il dibattito elettorale s’incentri sulla possibilità di restituire ai contribuenti il gettito dell’IMU corrisposta per la prima casa. Al riguardo, il problema non è soltanto quello della copertura finanziaria. I giornalisti che pongono le domande ed i politici che espongono i propri rispettivi programmi, sembrano perdere di vista il contesto generale. Con legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, è stata modificata in modo rilevante la Costituzione della Repubblica italiana; in particolare, è stato completamente riformulato l’articolo 81 Cost. e sono stati introdotti cambiamenti sostanziali nell’articolo 119 Cost.. Quest’ultimo riguarda la finanza regionale e locale e, tanto per capire la sua importanza, è quello che sta a fondamento della legge di delegazione legislativa in materia di federalismo fiscale (legge n. 42/2009), con tutti i decreti legislativi che ne sono scaturiti. Per chi si fosse distratto, la riforma costituzionale ci vincola a tenere in ordine i conti pubblici e vale non soltanto per lo Stato, ma anche per le Regioni e gli Enti locali.

Il contesto generale è caratterizzato anche dal trattato “sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria”, detto, nel linguaggio giornalistico, del “Fiscal compact”. E’ stato sottoscritto dal Governo presieduto da Mario Monti il 2 marzo 2012 e ratificato, in tutta fretta, dal Parlamento italiano il 19 luglio 2012. Per amore di verità, va detto che il Governo Berlusconi non si era fieramente battuto per difendere gli interessi nazionali italiani, ma aveva spensieratamente promesso il pareggio di bilancio già per il 2013. L’ineffabile Giulio Tremonti lascia intendere di essere capace di comprendere che piega prenderanno gli eventi, molto prima che accadano; purtroppo ci comunica le sue geniali intuizioni sempre molto dopo, a cose fatte.

Rispetto alle regole del Trattato di Maastricht del 1992, quello sul “Fiscal compact” comporta le seguenti sostanziali differenze: 1) mentre prima era consentito che il bilancio annuale dello Stato prevedesse un disavanzo fino al tre per cento del Prodotto interno lordo nazionale (PIL), ora invece il bilancio deve essere in pareggio e, quando proprio non è possibile, il disavanzo ammesso deve essere contenuto entro lo 0,50 per cento del PIL; 2) mentre prima si tollerava che la regola del rapporto tra ammontare complessivo del debito pubblico e PIL non venisse rispettata, ora invece se ne pretende il rispetto. Così ci siamo impegnati ad eliminare in vent’anni la parte di debito pubblico eccedente il 60 per cento del PIL. Per la cronaca, oggi il debito pubblico è pari al 126 per cento del PIL.

Tutto ciò significa che il nostro Paese non è più sovrano in materia di determinazione della politica economica; anche perché gli obblighi che abbiamo sottoscritto non sono meramente teorici, ma l’ordinamento dell’Unione Europea ed il medesimo trattato sul “Fiscal compact” prevedono procedure di verifica e sanzioni nei confronti degli Stati membri che volessero sottrarsi. Secondo fior di economisti, sottoscrivere il Trattato sul “Fiscal compact” è stata un’autentica follia, considerato che siamo in fase di recessione economica. Ma i nostri uomini di Stato hanno convenuto che, per non compromettere i già fragili equilibri europei, non si potesse fare a meno di firmarlo, hanno “silenziato” il dissenso, ed hanno ratificato in tutta fretta, sperando che l’opinione pubblica italiana non si rendesse conto di ciò che capitava. In questo contesto, affermare oggi che si possano sottrarre alle entrate pubbliche quattro, o addirittura otto (in caso di restituzione dell’IMU già riscossa), miliardi di euro, è semplicemente irresponsabile. Questa non è soltanto l’opinione di un modesto osservatore, quale sono.

E’ venuto, dunque, il momento di cambiare cavallo e di passare la responsabilità del governo al Centrosinistra.

Le prossime elezioni sono molto importanti ed è nostro interesse, oltre che nostro dovere, sforzarci di individuare il voto migliore, o meno peggiore, nelle circostanze date. Per quanto mi riguarda, voterò la lista di Sinistra, ecologia e libertà (SEL), alla Camera. A differenza di quanto si vorrebbe far intendere, Vendola ha da tempo scelto la linea del riformismo possibile, rispetto a quella dell’opposizione pura e dura. Al Senato, laddove l’esito delle elezioni è più incerto, voterò direttamente per il maggior partito della coalizione di Centrosinistra, il Partito democratico. Si tratta di un partito nazionale, che, cosa più importante, assume l’unità nazionale non soltanto come un fatto storico, ma come un bene da tutelare. Si tratta di un partito che prende sul serio l’esigenza dell’equità, e quindi vuole che gli inevitabili sacrifici non ricadano sui ceti più poveri della popolazione. Si tratta di un partito che, ferma restando la volontà di salvaguardare l’Unione Europea e di svilupparne le potenzialità in senso democratico, sembra aver chiaro che occorra rivedere la politica economica e monetaria dell’Unione, superando un punto di vista eccessivamente rigorista. Questa consapevolezza appare evidente nel candidato Presidente del Consiglio, Bersani, in politici di lunga esperienza, come D’Alema, in esponenti della nuova dirigenza, come Fassina.

La coalizione di Centrosinistra, proprio perché non vuole ulteriormente gravare sulla massa della popolazione e dunque sa che la strada dell’aumento delle entrate non è ulteriormente percorribile, fatto salvo ciò che si può recuperare dall’evasione, cercherà di ridurre la spesa pubblica attuando riforme di sistema. Si pensi in primo luogo alla riforma costituzionale dei livelli di governo territoriale (trovando in quell’ambito anche soluzioni strutturali per i piccoli Comuni), senza lasciarsi scappare l’occasione di correggere nel contempo alcuni dei non pochi, e non lievi, errori che si fecero con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, sulla revisione del Titolo quinto della Parte seconda della Costituzione. Immagino che la coalizione di Centrosinistra possa dare spazio alle giuste esigenze di riduzione dei costi della politica, senza sposare soluzioni che sono frutto di un antiparlamentarismo becero. Ad esempio, sarebbe razionale portare la composizione della Camera dei deputati intorno a 450 membri; invece, il parlare di “dimezzamento” del numero dei deputati risponde soltanto ad una logica punitiva. Confido che la coalizione di Centrosinistra studierà soluzioni per correggere la tendenza alla crescita illimitata dei trattamenti economici dei manager, privati e pubblici. Le politiche economiche avviate da Ronald Reagan e da Margaret Thatcher tendevano all’obiettivo di aumentare la forbice sociale, ossia il divario tra pochi troppo ricchi e la restante popolazione sempre più impoverita. E’ venuto il momento di restringere il divario sociale e di tenere a bada l’egoismo. Con riferimento alle riforme costituzionali ed istituzionali è auspicabile una più ampia intesa fra le forze parlamentari, senza steccati preconcetti.

Potrei scrivere un saggio se mettessi insieme le critiche che, nel corso del tempo, ho mosso nei confronti del PD. Sempre non per pregiudizio, ma con riferimento a questioni di contenuto, di volta in volta esattamente individuate. Quando, come nel mio caso, non vengano in considerazione consonanze sul piano ideale, la scelta di voto è frutto di un ragionamento, di una ponderazione degli argomenti pro e contro. Il voto non rappresenta né un’adesione al partito votato, né un’accettazione incondizionata della sua linea politica. E’ revocabile alla prima occasione, se dovessero prevalere nuovi motivi di critica. Per me oggi questo voto rappresenta semplicemente il meno peggio, in una logica costruttiva, sempre per amore dell’Italia.

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