Non perdiamo l’occasione di razionalizzare la rappresentanza

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Il tema della riduzione del numero complessivo dei parlamentari è sempre stato presente nei progetti di riforma della Costituzione, a partire dalla Commissione parlamentare per le riforme istituzionali, presieduta dal deputato liberale Aldo Bozzi, Commissione che presentò la propria relazione alle Camere il 29 gennaio 1985. Si era allora nella Nona Legislatura del Parlamento repubblicano. Quella attualmente in corso è la Diciottesima Legislatura.

Ad esempio, la Commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema nella Tredicesima Legislatura proponeva che il numero dei deputati fosse variabile e determinato dalla legge; ma in ogni caso non inferiore a 400 e non superiore a 500. Sempre la Commissione bicamerale presieduta da D’Alema proponeva un numero fisso di senatori elettivi, quantificato in 200. Si noti che la modifica dell’articolo 57 della Costituzione che siamo chiamati a valutare nel Referendum del 20 e 21 settembre 2020 prevede che il Senato sia composto appunto da 200 senatori elettivi: la medesima quantificazione proposta dalla Commissione D’Alema nel 1997.

Tengo a ricordare una personalità politica conosciuta dai più, Nilde Iotti, autorevole esponente del Partito comunista italiano e apprezzata Presidente della Camera dei deputati. L’onorevole Iotti sostenne pubblicamente l’esigenza di ridurre il numero dei parlamentari.

Qual era il fondamento razionale della predetta esigenza di riduzione? C’erano almeno due validi motivi:
a) in primo luogo, a partire dal 1970, venivano regolarmente eletti i Consigli delle quindici Regioni a statuto ordinario. Ciò significa che tutte le Regioni previste dalla Costituzione, e non soltanto le cinque a statuto speciale, dopo il 1970 erano realtà istituzionali effettive ed operanti;
b) in secondo luogo, a partire dalle elezioni europee del 10 giugno 1979, l’Italia eleggeva i propri rappresentanti in seno al Parlamento Europeo.

Tanto le norme dell’Unione Europea, quanto le leggi regionali delle singole Regioni italiane, venivano oggettivamente a ridurre l’ambito di attribuzioni e di competenze del Parlamento italiano, quale organo legislativo.

Di conseguenza, era naturale chiedersi se avesse ancora senso mantenere per il Parlamento italiano un Corpo legislativo tanto vasto. Questo, secondo le quantificazioni stabilite dalla legge costituzionale 9 febbraio 1963, n. 2, si articolava, infatti, in 630 deputati e 315 senatori.

Il 20 e 21 settembre prossimi gli Italiani saranno chiamati a decidere, nell’apposito Referendum, se confermare, o meno, la modifica costituzionale approvata dal Parlamento con la procedura dell’articolo 138 della Costituzione.

La posta in gioco è: a) ridurre il numero dei membri della Camera dei deputati da 630 a 400, con contestuale riduzione dei deputati eletti nella Circoscrizione Estero da 12 a 8; b) ridurre il numero dei membri elettivi del Senato da 315 a 200, con contestuale riduzione dei senatori eletti nella Circoscrizione Estero, da 6 a 4. Il numero dei senatori a vita, nominati dal Presidente della Repubblica, non può in alcun caso essere superiore a cinque.

Gli oppositori della riforma lamentano che questa abbia un oggetto troppo ristretto, troppo limitato. Questo argomento è l’esatto contrario di quanto fu sostenuto in occasione del Referendum costituzionale tenutosi nel mese di dicembre del 2016, quando il Corpo elettorale respinse un progetto di modifiche costituzionali presentato dal governo Renzi.

Si disse allora che il progetto “Renzi – Boschi” aveva il torto di sollevare contemporaneamente troppe questioni. Impedendo, di conseguenza, agli elettori di pronunciarsi in modo differenziato: a favore di determinate proposte e contro altre. Ad esempio chi, come me, fosse stato d’accordo a sopprimere il CNEL, ossia il Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro, di cui all’articolo 99 della Costituzione, non poteva dichiararsi a favore soltanto di questa innovazione. La riforma del 2016 andava approvata, o respinta, in blocco. E fu respinta.

Quanti oggi sostengono che non si possano accettare riforme della Costituzione che non rientrino in un progetto complessivo ed organico, si dimenticano di aggiungere la cosa più importante: fra le forze politiche italiane non c’è mai stato un accordo ampio circa il modo di procedere ad un’eventuale grande riforma della Costituzione. Meno che mai c’è la possibilità di raggiungere un accordo di tale natura nel Parlamento attuale.

Di conseguenza, non potendo fare la “grande” Riforma, con l’iniziale maiuscola, perché non ci sono le condizioni politiche, dovremmo astenerci da qualunque intervento di razionalizzazione. Ossia, dovremmo scegliere di stare fermi; dovremmo schierarci, sempre e comunque, a difesa della conservazione dell’esistente.

Quanti sono schierati a sostegno del “No” nel prossimo Referendum, asseriscono che la riduzione del numero dei parlamentari si tradurrebbe in una inaccettabile compressione della rappresentanza.
Ho avuto modo di ascoltare un senatore della Basilicata che più volte è intervenuto negli spazi che il servizio pubblico della RAI dedica all’informazione sui Referendum. Non interessano i motivi per i quali detto senatore, eletto dal Movimento Cinque Stelle nel Collegio di Potenza, sia poi entrato in contrasto col Movimento e ne sia stato espulso. Interessano, invece, le sue argomentazioni sulla rappresentanza.

Per quanto riguarda la Camera dei deputati, il numero dei deputati spettanti a ciascuna circoscrizione viene deciso dividendo il numero degli abitanti della Repubblica, quale risulta dall’ultimo Censimento generale della popolazione, per il numero complessivo dei seggi spettanti alla Camera, detratti quelli da assegnare nella Circoscrizione Estero. Ogni circoscrizione ha diritto a tanti seggi quante volte il quoziente così ottenuto è contenuto nella cifra della popolazione della circoscrizione medesima. Per le parti frazionarie, si tiene conto dei più alti resti. Il predetto criterio della distribuzione dei seggi in proporzione alla popolazione residente è affermato dall’articolo 56, quarto comma, della Costituzione, e resta immutato.
Per quanto riguarda il Senato, il numero dei senatori spettanti ad ogni Regione è determinato sempre in proporzione alla popolazione residente. Si veda l’articolo 57, quarto comma della Costituzione, che resta immutato.

Per garantire adeguata rappresentanza anche alle Regioni meno popolose, l’articolo 57 della Costituzione nel testo attuale stabilisce che nessuna Regione possa avere un numero di senatori inferiori a sette. In tempi non sospetti, cioè nel 1963, si decise che tale disposizione non valesse per la Valle d’Aosta e per il Molise. Per queste due realtà territoriali era necessario un trattamento differenziato perché il dato della popolazione era troppo basso.
Il numero minimo di sette era stato concepito con riferimento ad un Corpo legislativo di 315 senatori. Dovrebbe essere evidente a tutti che se questo Corpo legislativo si riduce a 200 senatori, il predetto numero minimo vada rideterminato. La matematica non è un’opinione. La proposta di riforma oggetto del Referendum prevede, infatti, che nessuna Regione, o Provincia autonoma (le Province autonome sono soltanto due: Trento e Bolzano), possa avere un numero di senatori inferiore a tre. Restano invariate le specifiche previsioni per il Molise (due senatori) e per la Valle d’Aosta (uno).
Il senatore di cui si sta parlando non si rassegna al fatto che la sua Basilicata sia privata della certezza di continuare ad eleggere sette senatori, e che anzi, in relazione ai dati della popolazione, possa prevedibilmente eleggerne soltanto quattro. Ci compenetriamo nel suo caso umano, qualora, in futuro, non fosse rieletto.

Facendo appello alla mia modesta esperienza di ex funzionario dell’Assemblea regionale siciliana, ricordo che il numero dei deputati regionali della Sicilia è stato – secondo me, giustamente – ridotto a 70 dalla legge costituzionale 7 febbraio 2013, n. 2, che, per questa parte, ha modificato lo Statuto speciale della Regione. Di conseguenza, nelle ultime elezioni regionali siciliane del 5 novembre 2017, gli elettori hanno eletto 70 deputati regionali. Nelle precedenti sedici legislature (a partire dal 1947), i deputati regionali erano, invece, 90.

La legislazione elettorale della Regione siciliana prevedeva che i deputati regionali fossero eletti nelle nove province dell’Isola, in proporzione alla popolazione residente in ciascuna provincia. Vediamo cosa succedeva quando i deputati erano 90 e, quindi, la rappresentanza era più ampia. Considero i dati delle elezioni regionali del 16 giugno 1996, per la dodicesima legislatura dell’A.R.S.

Il collegio di Palermo eleggeva 22 deputati regionali e quello di Catania 19. Contemporaneamente, il collegio con minore popolazione, Enna, eleggeva 3 deputati. A seguire i collegi di Caltanissetta e Ragusa, entrambi con 5 deputati.

Va da sé che, con questi numeri, le liste dei partiti più piccoli potevano ottenere rappresentanza soltanto nei collegi più popolosi; mentre era impensabile che potessero ottenere seggi a Enna, Caltanissetta, o Ragusa. Tutto questo nell’ambito di una legge elettorale proporzionale, senza clausole di sbarramento.

Sì, ma allora dov’è lo scandalo che nessun senatore della Basilicata, in futuro, potrà essere espresso da liste minori? Si tratta di una normale conseguenza del rapporto tra rappresentanza e popolazione. Semmai c’è da dire che dal 1963 al 2018 la Basilicata è stata costantemente sovra-rappresentata con sette senatori.
Tra i più accesi sostenitori del “No” al Referendum troviamo parlamentari eletti all’estero. Chi si preoccupa oggi che la nostra Costituzione possa essere “sfregiata” se venisse accolta la proposta di ridurre il numero dei parlamentari, pensi agli sfregi che questa ha subìto in passato. L’Italia non poteva accontentarsi che gli Italiani all’estero votassero per corrispondenza. No, perché questa è la normale prassi seguita dai Paesi civili, mentre noi siamo speciali. È giusta ed anche economicamente vantaggiosa l’esigenza di sviluppare proficue relazioni con le comunità storiche di Italiani emigrati. Non ha senso logico, tuttavia, ritenere che lo sviluppo di tali relazioni dovesse passare necessariamente dal riconoscimento del diritto di voto ai discendenti di quegli emigrati; si sta parlando di terze o quarte generazioni, ossia di persone che, il più delle volte, non parlano nemmeno l’italiano. Agli inizi del ventunesimo secolo si realizzò la brillante idea, sempre sponsorizzata da una destra italiana nostalgica del Ventennio, di istituire una “Circoscrizione Estero”. Sto facendo riferimento alla legge costituzionale 23 gennaio 2001, n. 1, legata alla memoria dell’onorevole Mirko Tremaglia. Nella sua attuazione pratica, ciò ha portato alla soluzione “ridicola” di suddividere l’intero pianeta Terra in quattro aree elettorali, per eleggere un certo numero di deputati e senatori nel Parlamento italiano. Si pensi che c’è una circoscrizione che comprende l’Africa, l’Asia, l’Oceania. Il che significa non avere senso del limite ed esporsi alle accuse di superficialità e di megalomania. Ripetutamente, in una condizione in cui è difficile garantire la trasparenza dei processi democratici, sono emersi problemi di brogli elettorali relativamente a parlamentari eletti nella Circoscrizione Estero. Il personale parlamentare finora selezionato per questa via si è palesato, comunque, non eccelso. Abbiamo già tanti “faccendieri” in Italia e non è proprio il caso di importarne altri. Per le considerazioni esposte, la riduzione del numero degli eletti all’Estero appare sacrosanta. L’ideale sarebbe sopprimere del tutto tale circoscrizione.
Penso si sia capito che il mio è un punto di vista indipendente. Voterò convintamente “Sì” al Referendum, ma non sono un elettore del Movimento Cinque Stelle, né del Partito Democratico. Avverto, tuttavia, l’esigenza di sgombrare il campo da argomenti tratti dalla peggiore politica “politicante”, che vengono fatti circolare all’unico scopo di avvelenare il clima della discussione e che non c’entrano alcunchè con il merito del Referendum.

Oggi molti esprimono il proprio sdegno per il fatto che il Partito Democratico avrebbe accettato di barattare l’integrità della Costituzione con l’opportunità di andare al governo. Nel senso che avrebbe accettato la modifica costituzionale chiesta dal Movimento Cinque Stelle, perché unicamente interessato a consentire la formazione del secondo governo Conte.

Ricordo un precedente, ben più significativo. La Commissione bicamerale presieduta da D’Alema ed istituita con legge costituzionale 24 gennaio 1997, n. 1, fece fallimento, come tutti sanno. Ci ha lasciato, però, un frutto avvelenato: le modifiche del Titolo quinto della Parte seconda della Costituzione, riguardanti le Regioni e le autonomie locali. Quelle modifiche del Titolo quinto recepirono gran parte delle disposizioni elaborate dal Comitato per la “Forma dello Stato”, che costituiva appunto un’articolazione della Commissione D’Alema. In un tempo successivo furono approvate da una maggioranza parlamentare di centro-sinistra (al tempo, Presidente del Consiglio era Giuliano Amato) e, purtroppo, confermate dal Corpo elettorale in un Referendum assai poco partecipato. Ne è scaturita la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, la quale ha cambiato non poco la Costituzione pensata dai Padri costituenti ed entrata in vigore il primo gennaio 1948.

Le parole “federalismo” e “federale” non figurano nelle disposizioni costituzionali entrate in vigore nel 2001, ma è evidente che allora si fecero ampie concessioni ideologiche alla Lega Nord. Tutto ciò avvenne per motivi esclusivamente politici: perché nelle elezioni del 27 marzo 1994, le prime tenutesi dopo l’approvazione di una legge elettorale prevalentemente maggioritaria, la Lega Nord contribuì a far vincere la coalizione di centro-destra. Nel corso della medesima dodicesima Legislatura, ebbe, però, un ruolo importante nel consentire che si formasse, nel gennaio del 1995, un nuovo Governo, presieduto da Lamberto Dini, inizialmente tecnico, ma poi sorretto da una maggioranza parlamentare di centro-sinistra. Lo stesso partito, rifiutando di fare parte della coalizione di centro-destra, agevolò il successo del centro-sinistra nelle elezioni del 21 aprile 1996, per la tredicesima Legislatura.

In altre parole, la Lega Nord dimostrò allora che, coalizzandosi, o anche decidendo di presentarsi da sola, era in grado di far vincere l’uno, o l’altro, schieramento politico-elettorale. Chi voleva l’alleanza con la Lega Nord doveva accettarne l’impostazione federalista. Questo era il prezzo da pagare. E fu pagato; anche con l’assenso di qualche maturo signore che oggi mena scandalo per il baratto fra Costituzione e governo.

Non starò a ripetere gli argomenti a favore del “Sì” che ho già espresso in altre occasioni. Voglio solo sottolineare che un Corpo legislativo meglio dimensionato nella sua composizione può lavorare meglio. Si pensi, ad esempio, ai parlamentari che prendono la parola per finalità esclusivamente dilatorie, o intenzionalmente ostruzionistiche. Un numero minore di parlamentari si traduce automaticamente in un minor numero di interventi. Si risparmia tempo prezioso.

La riforma dei Regolamenti parlamentari, necessariamente conseguente alla riforma costituzionale, dovrebbe prevedere, ovviamente, un minor numero di Commissioni legislative permanenti. Non sta scritto in nessun libro sacro che le Commissioni legislative del Senato debbano essere quattordici, ossia in numero uguale alla Camera. Si potrebbe procedere ad una loro riduzione, derivante da accorpamento per materie affini. Qui la difficoltà da superare va ricondotta alle esigenze meno nobili della politica. Più sono le Commissioni, più sono le indennità da corrispondere ai presidenti e ai membri dei rispettivi uffici di presidenza. Tanti non hanno alcuna intenzione di rinunziarvi, per essere retrocessi al trattamento economico del parlamentare semplice.

Penso che di tutto questo gli elettori si rendano conto perfettamente.

Palermo, 12 settembre 2020

Livio Ghersi

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