Non bisogna parlar male di Garibaldi

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di LIVIO GHERSI

Gianfranco Miccichè, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, membro della Camera dei Deputati, autorevole sostenitore del Presidente della Regione Siciliana, il quale non potrebbe reggersi senza il suo appoggio, dichiara che le “nostre disgrazie” (nostre di Siciliani, intende), “sono iniziate proprio con l’Unità” d’Italia. La frase si legge, nero su bianco, nell’intervista rilasciata l’8 giugno 2010 al giornale telematico “Siciliaoggi.net“.

Anni fa ebbi l’occasione di studiare un pregevole libro, “Ruggero Settimo nel Risorgimento Siciliano”, pubblicato nel 1928 dalla Casa Editrice Laterza di Bari, scritto da un aristocratico siciliano, Carlo Avarna (1885-1964), duca di Gualtieri. Avarna è noto agli storici anche per aver pubblicato, nel maggio del 1925, un libro, titolato “Il fascismo” presso l’Editore Piero Gobetti.

Richiamo, rapidamente, qualche passaggio storico. 11 dicembre 1816: Ferdinando di Borbone, IV come re di Napoli e III come re di Sicilia, dispone con proprio decreto l’unificazione dei due regni e diventa Ferdinando I delle due Sicilie. I Siciliani mal sopportano questa decisione, considerato che il Regno di Sicilia risaliva al 27 settembre dell’anno 1130, quando fu incoronato Ruggero II di Altavilla. Come ha scritto Carlo Avarna, il re Borbone conculcava le “secolari autonomie dell’Isola che trentacinque re avevano, per circa otto secoli, rispettate ed alle quali, per la prima volta, si era voluto attentare nel 1816” (op. cit, p. 269).
12 gennaio 1848: inizia la rivoluzione a Palermo; i palermitani precedono ogni altro popolo europeo, in un anno in cui quasi tutta Europa sarà sconvolta da moti rivoluzionari.

25 marzo 1848: nella Chiesa di San Domenico a Palermo s’inaugura il General Parlamento di Sicilia. Quel Parlamento esprimeva una classe dirigente di straordinaria qualità, quale, purtroppo, la Sicilia non conoscerà mai più. Ne facevano parte, tra gli altri, Francesco Ferrara, Francesco Paolo Perez, Filippo Cordova, Michele Amari, Emerico Amari, Vito D’Ondes Reggio, Matteo Raeli, Francesco Crispi, Giuseppe La Farina. Molti di loro poi sarebbero stati protagonisti della storia nazionale italiana.

13 aprile 1848: il Parlamento siciliano proclama, solennemente, che: “Ferdinando II e la sua dinastia sono decaduti dal trono di Sicilia”. La corona viene allora offerta al duca di Genova, figlio secondogenito di Carlo Alberto re di Sardegna. Secondo quanto deliberato, sarebbe dovuto diventare Alberto Amedeo I, re dei Siciliani (cfr. op. cit., p. 146). Le trattative con la Corte di Torino furono travolte dagli eventi: il 25 luglio del 1848 i Piemontesi furono sconfitti a Custoza dagli Austriaci.

Il 3 novembre del 1860: Ruggero Settimo (1778-1863), dei principi di Fitalia, che aveva presieduto l’Esecutivo siciliano durante il glorioso biennio 1848-1849, scrive al Cavour: “Ella ha, con ragione, veduta nella politica seguita dal governo provvisorio del 1848 la tendenza alla nazionalità italiana sotto la dinastia di Savoia, sebbene si manifestasse nella forma che le condizioni politiche di quell’epoca permettevano … Sono convinto che la libertà non può essere senza l’ordine interno, garanzia della prudente conservazione e del saggio progresso. Tutti questi beni ci può soltanto garantire la costituzione dell’Italia in monarchia costituzionale sotto quel re, che alta, incontaminata ha mantenuta la bandiera dell’indipendenza e della libertà italiana. Tutte le varie regioni d’Italia hanno sentito e compreso questo vero, e quindi la nobile gara a sacrificare sull’altare della Patria i vieti e dannosi pregiudizi del gretto municipalismo. La Sicilia non voleva, né poteva essere meno italiana delle altre regioni: il suo unanime ed entusiasta voto per l’annessione ne fu prova” (cfr. op. cit., p. 259).

C’è sempre la tendenza a riscrivere la storia, secondo quelle che si ritengono le convenienze politiche del momento; ma dalle vicende di tutto il Risorgimento siciliano si coglie un significato che nessuno, documenti alla mano, può contestare: la classe dirigente siciliana non perdonò mai ai Borboni di avere prima giurato, poi tradito, la Costituzione siciliana del 1812. Tutti i moti furono sempre ispirati dalla pressante volontà di essere indipendenti da Napoli. A Messina, Ferdinando II di Borbone continua ad essere ricordato come “re bomba”; nomignolo conquistato per i devastanti cannoneggiamenti dell’artiglieria borbonica, ai quali la città resistette orgogliosamente per mesi e mesi nel 1848. L’adesione alla causa italiana fu avvertita come l’opportunità storica di inserire l’Isola in un contesto di più vasto respiro, dove le più ampie forze di una grande Nazione avrebbero potuto convergere e sostenersi reciprocamente, nell’obiettivo del comune progresso civile ed economico.

Non sto a ripetere i volgari attacchi che Miccichè ha mosso contro la memoria di Garibaldi. Riportarli sarebbe attribuire loro importanza e amplificarli.
Il Regno Borbonico cadde perché era marcio fino al midollo, minato dalla sfiducia, tradito in primo luogo da quanti, per i ruoli ricoperti, avrebbero dovuto sostenerlo e difenderlo.

Consideriamo la battaglia di Calatafimi del 15 maggio 1860. I garibaldini sconfiggono in campo aperto un esercito regolare più numeroso, meglio armato e che combatteva in condizioni di vantaggio, avendo l’artiglieria disposta su alture da cui poteva tirare contro le camicie rosse che venivano avanti. Fu quella vittoria a dimostrare che la spedizione dei Mille era qualcosa di diverso dai falliti tentativi insurrezionali tentati in precedenza nel Meridione, quali quelli dei fratelli Bandiera, o di Carlo Pisacane. La vittoria di Calatafimi fece sì che le classi dirigenti dell’Isola ed il popolo siciliano si schierassero con Garibaldi, il quale, infatti, già dodici giorni dopo, il 27 maggio 1860, conquistava Palermo. Per essere disposti a rischiare la propria vita, per combattere e vincere, ci vuole forza morale; evidentemente, Garibaldi era capace di infondere questa forza in coloro che lo seguivano.
Con la battaglia di Milazzo, del 20 luglio del 1860, Garibaldi ha il pieno controllo della Sicilia. Poi può attraversare lo Stretto, percorrere l’intera Calabria senza che nessuno osi attaccarlo ed entrare a Napoli, il 7 settembre 1860, accolto come un trionfatore.

Intanto, Francesco II di Borbone si è rifugiato a Gaeta, dove ammassa ingenti forze militari. Quando tenta lo scontro in campo aperto con la battaglia del Volturno (1-2 ottobre 1860) dispone, sulla carta, di cinquantamila uomini. Ma il suo esercito è messo in rotta da quello di Garibaldi che, stavolta, vince definitivamente.

E’ vero che Garibaldi non ebbe mai grande genio politico; ma era un autentico patriota ed un cuore generoso, sinceramente amante della causa della libertà dei popoli e del progresso umano. Per dimostrarlo, basta ricordare che: accettò di porre fine alle istituzioni della Dittatura (e lui era il dittatore); consentì che il 21 ottobre 1860, nelle province napoletane e in Sicilia si tenesse il plebiscito per chiedere al popolo se voleva “l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele II re costituzionale i suoi legittimi discendenti”; si inchinò al risultato elettorale (i SI furono pari al 78,91 % degli aventi diritto al voto nelle Province napoletane e al 75,13 % in Sicilia); il 26 ottobre 1860, nell’incontro di Teano, consegnò idealmente l’Italia meridionale e la Sicilia a Vittorio Emanuele II di Savoia, re legittimato dal voto popolare. In altri termini, Garibaldi antepose il bene dell’Italia alle proprie personali convinzioni politiche; si fece semplicemente da parte, senza contropartite, lui che, per quanto aveva ottenuto, avrebbe potuto chiedere qualunque cosa. Vanno ricordati pure quanti lo consigliarono in questo senso; in particolare, Francesco De Sanctis, oggi ricordato come insigne critico della letteratura italiana, ma che allora rappresentava la linea politica della conciliazione con Cavour, e Francesco Crispi, che allora era repubblicano.

Può darsi che Miccichè ignori chi fosse Adolfo Omodeo, il grande storico, pure lui nato a Palermo, il 18 agosto 1889. In un “Discorso ai conterranei di Sicilia”, letto alla Radio di Napoli il 15 dicembre 1943, Omodeo confutava le tesi allora messe in circolazione dai separatisti siciliani. Li accusava di interpretare una “reinvoluzione baronale”, di coltivare un sentimento reazionario di isolazionismo, di falsificare la storia. Era falso, ad esempio, che “lo Stato libero fiorito tra il 1860 e il 1922” avesse precorso il fascismo nello stremare l’Isola.

Al contrario, sosteneva Omodeo, “a chi non abbia la mente ottenebrata da passioni e non sia ignaro di storia appare evidente che mai, dopo il periodo normanno, l’isola ebbe una fioritura simile a quella del libero Stato italiano, quando il nostro naturale ingegno trovò più vasto campo per affermarsi, e uomini di Sicilia diressero la politica, la magistratura, le grandi assemblee politiche del Regno d’Italia”. Bisognava fare l’opposto di quanto voleva il separatismo: riprendere, nella sua purezza, il grande ideale mazziniano: “la Patria unita nel consorzio di tutte le patrie libere; l’unità italiana nella confederazione europea, che consolidi l’equilibrio continentale, consacri nell’armoniosa collaborazione di molti popoli dalle molte lingue la civiltà europea che fin ora è stata la luce del mondo” (cfr. Adolfo Omodeo, “Libertà e storia. Scritti e discorsi politici”, Torino, Einaudi, 1960, pp. 129-130).
La Sicilia ha festeggiato recentemente il sessantaquattresimo anniversario dello speciale Statuto di autonomia, approvato con regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455. Le prime elezioni dell’Assemblea regionale siciliana si sono tenute il 20 aprile 1947. Non è colpa di Garibaldi se le istituzioni autonomistiche hanno dato così discutibile prova di sè, in un periodo sufficientemente lungo da poter essere valutato storicamente. Non è colpa di Garibaldi se, quando ancora non esisteva la Corte Costituzionale, l’Alta Corte per la Sicilia, con sentenza del luglio 1948, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una disposizione di quella stessa legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, con cui lo Statuto Siciliano è stato convertito in legge costituzionale. Tale disposizione prevedeva che, nel rispetto della procedura di revisione costituzionale, entro il termine dei successivi due anni, sarebbero state apportate le opportune modifiche allo Statuto per armonizzarlo con le norme della Costituzione della Repubblica, scritta ed entrata in vigore successivamente. Il mancato coordinamento fu un drammatico errore politico, di cui portano piena responsabilità quanti affermano l’assurda tesi che lo Statuto sia frutto di un accordo, su un piano paritario, fra la Sicilia e lo Stato italiano.

Non è colpa di Garibaldi se oggi non si è capaci di gestire correttamente il ciclo dei rifiuti e grandi città, come Palermo, sono sporche, maleodoranti ed esposte al rischio di insorgenze sanitarie.
Sappia Miccichè che gli esseri umani non sono tutti uguali, nei gesti e negli atteggiamenti. Alcuni conservano grata memoria dei loro antenati diretti e, comunque, delle precedenti generazioni. Si sentono legati al passato da saldi vincoli ideali e culturali. Le parole possono offendere e dividere; in particolare, le parole che tendono a negare quanto per altri merita rispetto, affetto, venerazione. Parole siffatte scavano fossati che nessun interesse politico poi potrà colmare. E’ una questione d’onore; almeno questo Miccichè dovrebbe essere in grado di capirlo.
Cavalcare il sicilianismo forse farà prendere qualche voto; ma, con certezza, ne alienerà altri in modo irrimediabile.
Come già Ruggero Settimo anch’io mi definisco “italiano, nato in Sicilia” e quando vedo una statua di Giuseppe Garibaldi sorrido, come si sorriderebbe a un vecchio amico.

Livio Ghersi (livioghersi@virgilo.it)

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