Clima: falliscono i vertici ma l’attivismo ambientale è forte, il caso di Greenpeace

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di MARTINA CECCO

Nonostante il fallimento clamoroso della Conferenza di Copenhagen e del vertice di Kyoto e la promozione del nucleare come energia compatibile al moderno stile di vita c’è qualcuno che invece non accetta di lasciare cadere nel vuoto le speranze per una alternativa al fallimento ambientale, è il caso di Greenpeace.

Affrontare i cambiamenti del clima proponendo una rivoluzione energetica, organizzare i mari in reti di riserva di pesca per difendere le specie anche oceaniche, proteggere le foreste e promuovere le azioni sostenibili, sono obiettivi che servono anche al raggiungimento della pace economica e ambientale. In questo contesto sono inserite anche le azioni per il disarmo e per la de tossificazione dell’ambiente.

Greenpeace è indipendente rispetto a Governi, Stati e partiti e si pone come scopo alcuni punti cardine, su cui organizza e muove i propri attivisti in veste non solo di protesta ma anche di vero e proprio movimento. L’impegno di Greenpeace non è solo quello della manifestazione locale, ma ha un carattere internazionale, che si snoda su diversi obiettivi, tutti in coerenza alle necessità del pianeta dal punto di vista dell’ambiente e del disarmo.

Ma perché i vertici internazionali falliscono e come mai si mettono in discussione dei temi che poi non trovano motivo di confronto? Una delle possibili chiavi di lettura del problema la offre proprio Greenpeace, che con il suo modo alternativo di operare, cioè indipendente dai poteri politici ed economici, dimostra che la razionalità del combattere una battaglia nell’interesse di tutti non può essere condizionata da un sistema interfacciato di rapporti già stabiliti e di accordi su cui un Governo o un potere di Stato può anche non poter intervenire in nessun modo. Dunque: da una parte l’interesse economico per i singoli stati e dall’altra l’interesse collettivo del rispetto delle risorse umane, prima di tutto e naturali.

Pare che il trattare temi di natura ambientale ed ecologica non sia affatto caro alla politica internazionale, troppo tesa a valutare e a perseguire obiettivi che sono personalistici, interessi che sono legati all’economia interna dei diversi stati e continenti che non vogliono ancora o che non sono ancora pronti per sostenere una politica ambientale globalizzata.

Una seconda chiave di lettura la offre il bilancio di Greenpeace che parla di cifre, al netto dei costi davvero irrisorie, che spiegano come mai ci sia una differenza profonda tra chi ha la possibilità di intervenire con il danaro per proporre alternative compatibili all’ambiente e chi invece non ce l’ha. In altre parole: se il danaro non ci fosse, se non esistessero i milioni di donatori che credono di riuscire a muoversi insieme grazie a un ideale, non esisterebbe una alternativa alla politica in senso proprio, perché anche un gruppo associato, a suo modo, è una parte politica, però indipendente.

Alcuni dati dal bilancio: Greenpeace nasce nel 1971, quando il 15 settembre un gruppo di attivisti per l’ambiente sono partiti da Vancouver per protestare contro i test nucleari degli USA in Alaska, quello può essere considerato il primo vero e proprio intervento di Greenpeace International nel mondo, seguono le proteste contro gli armamenti francesi di Mururoa e la battaglia per fermare le baleniere, in cui il veliero “Vega”, diventato simbolo di Greenpeace viene aggredito: gli attivisti non si fermano e cominciano a riunirsi in gruppi di difesa per la pace e per l’ambiente. Conta 47 uffici nel mondo e oltre 3 milioni di sostenitori e di donatori. La sola Greenpeace Italia, fondata nel 1986 con sede centrale a Roma ha raccolto nell’ultimo anno 2009 ben 4.018.553 di proventi al lordo degli oneri e delle spese.

Infine una ultima la più umana in senso proprio: il problema dell’ambiente ci riguarda tutti, non solo un mondo pulito ma anche un mondo in cui la popolazione possa vivere con dignità e in pace. Solo che questo è possibile solo dove la società è cresciuta e ha maturato una base economica e politica abbastanza stabile da garantire per tutti un livello sufficiente di benessere.

Quello dell’ambiente è un tema difficile proprio perché mette in luce la differenza abissale tra i continenti che hanno le possibilità economiche e politiche di “sopravvivere” o di vivere nel benessere e quei continenti dove invece la strada è tutta in salita. Non va messo in secondo piano questo problema. Perché l’interesse del paese in guerra, del paese desertificato, del paese che muore sarà quello di sopravvivere e di far tornare la speranza, mentre l’interesse del continente che sta bene sarà quello di riuscire a far tornare i conti per mantenere il proprio stato di grazia. Forse è proprio questo il motivo per cui i vertici internazionali falliscono sempre: i latini dicevano “mors tua e vita mea” poco è cambiato.

Di Martina Cecco

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