Lettera a un cugino speciale nel Giorno della Memoria

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MAURO CALDIROLA

È impossibile, per noi fortunati, ricordare lo Sterminio senza cadere nella retorica: le parole sono pochissimo, così come mettere una fotografia cruda e terribile, per quanto necessario, può essere inadatto per un social network, dove finisce con il mescolarsi a cose di scarso peso. Voglio quindi ricordare con un sorriso il cugino Galdino, che riuscì a tornare vivo da Mauthausen.

Non ebbe modo o forse voglia di testimoniarlo a noi ultimi arrivati della famiglia, allora ragazzetti pieni di speranza e voglia di vivere velocemente. Usciva poco, veniva di rado a casa, capitava ogni tanto che passasse a salutare, trovando talvolta da noi suo fratello Carlo, combattente della Liberazione, più solito di lui frequentare la nostra casa. Io e mio fratello Paolo sapevamo benissimo la loro storia, più volte raccontataci da nostra madre, e sapevamo quanto fosse insieme eroica e tremenda, ma non abbiamo mai avuto né coraggio né modo di affrontare neanche da lontano qualunque discorso sul loro passato. Carletto e Galdino portavano una fiamma diversa negli occhi, non ricordo che dicessero mai una parola triste, mai un indugio, mai un rancore. Erano luminosi, Carlo e Galdino.

Carletto era allegro con noi giovanotti e capace di una fierezza benevola che, allora lo capivo solo vagamente, metteva forza e voglia di credere in qualcosa. Amava lavorare e farlo bene, gli piaceva cantare, ballare, frequentare gli amici e la gente. Galdino era più introverso, riflessivo, talvolta indolente, legatissimo alla sua famiglia e buono, infinitamente buono. Da buoni fratelli non andavano d’accordo su niente, ogni faccenda era origine di bisticci infiniti e infinitamente divertenti.

Essere stati identici nell’eroismo e sapere di aver combattuto dalla stessa parte aveva dato loro la certezza di potersi dire di tutto con la sicurezza che alla fine si trattasse solo di un gioco. Una delle dispute più accese e comiche era quella sulla capacità professionale, dal momento che entrambi erano stati saldatori. E davano spettacolo di sé per interi quarti d’ora, per poi salutarsi sempre nello stesso modo: “Te ghé di bàl!” (hai delle balle, tu!).

Andai a trovare Galdino in ospedale, poco prima che la malattia lo portasse via da qui. Lo trovai nella penombra della sua stanzetta che leggeva: appena mi riconobbe si allargò in un enorme, caldo sorriso sulle labbra e negli occhi, sempre vividi d’amore per questo mondo che pure gli aveva fatto superare prove indicibili. Purtroppo o per fortuna, Galdino non ebbe modo di testimoniare la propria esperienza di prigionia in maniera più allargata e giustamente celebrata. Molto più tardi avrei imparato da un altro reduce di Mauthausen, Giuseppe “Pino” Galbani, quanto per loro fosse stato impossibile raccontare. Pino smise per sempre di provarci quando capì che persino la sua mamma lo implorava di tacere: “Basta! Peu minga vèss véra!” (Basta, non può essere vero!) e chiuse la bocca fino al 1995, quando, grazie alla giornata della Memoria, la società civile lo invitò, quasi lo costrinse a rivivere la sofferenza di quei momenti e a raccontare tutto, soprattutto ai giovani.

Galdino fece tutto con il silenzio e con le opere, con l’affetto per noi ragazzi e con la voglia di vederci vivere consapevolmente felici. Forse aveva capito che la responsabilità di esercitare parole difficili per non dire impossibili sarebbe stato il nostro prezzo da pagare, il riscatto per il regalo immenso della libertà e la penitenza infinita di portarsi addosso il peso di una colpa incancellabile. Ciao, Galdino, ti voglio bene.

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