Nick Clegg: Il Regno Unito di fronte all’opzione liberale

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di FRANCESCO VIOLI

Ha destato scalpore la vittoria a sorpresa di Nick Clegg, leader dei Liberaldemocratici britannici, in un dibattito televisivo, il primo nella storia della politica britannica, fra i tre leader dei tre partiti maggiori: il Labour, i Tories e i LibDems per l’appunto. Nick Clegg si è presentato al pubblico come la vera alternativa al sistema bipartitico maggioritario imperante in Gran Bretagna. Si è sempre mostrato rilassato e combattivo, rivolgendosi di continuo sia agli interlocutori in studio che al pubblico a casa e mostrando più chiarezza degli avversari sui punti del proprio programma. Dall’altra parte, Gordon Brown, che deve scontare l’impopolarità dovuta a vari fattori; in primis la crisi e l’elevato deficit a cui seguirà un elevato incremento del debito pubblico; ha comunque saputo dimostrare competenza ed esperienza, soprattutto sulle tematiche economiche. La grande delusione è stata invece David Cameron, che di fronte ai due concorrenti è sembrato bloccato, impacciato e talvolta anche timoroso, sfigurando di fronte alla maggiore comunicatività e chiarezza di Clegg e non disponendo della stessa esperienza di governo di Brown.

L’esito è stato un vero e proprio fulmine nella politica britannica, tant’è che i sondaggi dei giorni successivi hanno registrato una flessione dei Tories, che si porrebbero appena al di sotto del 35%. Il Labour rimarrebbe stabile fra il 28 e il 31% e, last but not least, si è registrato un forte incremento dei consensi dei LibDems, che si porrebbero in una banda fra il 25 e il 30%. Se questo scenario dovesse confermarsi alle urne, l’esito delle elezioni sarebbe un Hung Parliament in cui la maggioranza relativa sarebbe in mano al Labour, che necessiterebbe dell’appoggio dei LibDems. Gli Inglesi, delusi dal bipartitismo Lab/Tories, sembra che abbiano optato per questa scelta.

I Tories devono soffrire il logoramento di una campagna elettorale che dura da tra anni, da quando Tony Blair ha passato le chiavi del n. 10 di Downing Street a Gordon Brown. David Cameron ha goduto per questi anni di una posizione di rendita che ora, all’approssimarsi delle elezioni, sembra esser venuta meno. In questi anni ha puntato molto sul carisma e sull’impopolarità di Brown. La sua debolezza però è proprio il programma: nel tentativo di raccogliere quanto più sostegno possibile, ha più meno scontentato molti. Ha cercato di apparire come un Blair conservatore: ha preso in prestito l’ambientalismo e i diritti civili dal centro e dalla sinistra, ha calcato la mano sul tradizionale euroscetticismo conservatore, ha sostenuto una posizione dura nei confronti dell’immigrazione dai paesi extra UE e una politica economica “libertarian” basata sulla riduzione delle tasse e della spesa pubblica, puntando molto sull’opposizione al concetto di “Big- Government”. Un mix di politiche che se da una parte aveva lo scopo di saldare l’elettorato conservatore e drenare voti dall’elettorato labour, hanno invece sortito l’effetto di scontentare l’elettorato conservatore più tradizionalista, di non convincere il centro sinistra e di allontanare la minoranza più europeista o comunque non euroscettica dei Tories.

I tories, che fino a giovedì sera si sentivano sicuri di poter raggiungere una maggioranza solida alla camera, ora cominciano ad aver paura di fallire persino nel raggiungimento di una maggioranza relativa. Ora cominciano a rivolgere le loro risorse verso i LibDems, attaccandoli e ridicolizzandone i programmi di governo come mai prima d’ora, sostenendo in continuazione la necessità di un governo che goda di una maggioranza forte e stabile, affermando addirittura che l’economia britannica soffrirebbe molto di un governo di coalizione e che questa eventualità metterebbe in pericolo addirittura la stabilità della Sterlina e la stabilità dei mercati finanziari britannici.

Benchè sia così forte il mito della stabilità del parlamento britannico, dovuta soprattutto al sistema maggioritario uninominale e sia risaputo che i lavoratori della City amino i governi forti e business- friendly; questo sistema, come molto probabilmente dimostreranno queste elezioni, è iniquo e difettoso. E’ iniquo perché non rispecchia la varietà e l’eterogeneità del voto, come molti costituzionalisti hanno fatto notare, difettoso perché comunque non evita il crearsi di situazione di stallo come questa che si verificherà. Non è chiaro infatti cosa si deciderà, nel caso dalle urne uscisse un Hung Parliament. Probabilmente, la regina conferirà il mandato al candidato del gruppo con maggioranza relativa alla House of Commons, il quale dovrà necessariamente formare un governo assieme ai LibDems, oppure “rassegnarsi” ad un governo di minoranza, con tutto ciò che ne conseguirà.

Se il risultato delle elezioni vedrà veramente un’emersione del partito liberale, sarà una svolta epocale nella politica britannica per varie ragioni. Per prima cosa, perché segneranno la conclusione definitiva dell’era Blair. In secondo luogo, perché la maggioranza degli Inglesi, sia che essi optino per un governo a maggioranza Tory o Labour, è per lo più intenzionata a mettere in soffitta definitivamente o a riformare radicalmente il Tatcherismo, visto per certi versi a torto, per alcuni a ragione, come un paradigma che ha demolito il settore industriale britannico introducendo una sorta di monocultura finanziaria e terziaria avanzata incentrata per lo più nella City (posizione tra l’altro sostenuta da Clegg). Inoltre, costituirebbe anche una svolta nella politica estera: i LibDems puntano molto sul protagonismo attivo del Regno Unito nell’integrazione europea, a differenza dell’atteggiamento “on the hence” dei Labour e quello di “opposizione interna” dei Tories.

In ultimo luogo perché potrebbe essere l’ultima elezione col sistema maggioritario britannico, in quanto è la prima condizione posta da Nick Clegg per un’alleanza liberale.

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