Israele-Usa: siamo ai ferri corti?

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di ANTONIO PICASSO

In controtendenza alle attese, sembra che la visita del vice Presidente Usa Joe Biden, in Israele e nei Territori Palestinesi, altro non abbia fatto che irretire le tensioni nella zona. Nelle ultime 48 ore la sequenza degli avvenimenti si è dimostrata un crescendo di provocazioni. Dopo l’incontro di Biden con il premier Netanyahu, il Ministero dell’Interno israeliano ha dato il via alla realizzazione di altri 1.600 alloggi nell’insediamento di Ramat Shlomo. Gli israeliani non hanno aspettano nemmeno che Biden ripartisse per Washington per andare avanti con la loro intransigenza. Il Presidente palestinese Abu Mazen di conseguenza ha ritirato la sua disponibilità a riprendere i negoziati indiretti, promossi dalla Lega Araba la scorsa settimana e appoggiati dagli Stati Uniti. A conclusione di questa catena di schermaglie, ieri – venerdì, giorno di preghiera per i musulmani – il Ministero della Difesa israeliano ha chiuso temporaneamente i varchi fra Israele e la Cisgiordania, onde prevenire l’ingresso di elementi facinorosi sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme e magari anche qualche potenziale attentatore. Consapevole che questa situazione è insostenibile, Abu Mazen, dopo un colloquio con l’inviato speciale Usa per il Medio Oriente George Mitchell, ha teso nuovamente la mano per i “proximity talks”.

La settimana che si conclude fa emergere un quadro della situazione mediorientale estremamente torbido. Ogni giorno che passa, l’ottimismo del Presidente Usa, Barack Obama, viene ridimensionato. L’intenzione di concludere il processo di pace entro i quattro anni del suo mandato appare sempre più una chimera. A Washington echeggia un silenzio che si rivela essere un’implicita ammissione di colpa. È come se l’Amministrazione Usa, sebbene si sia proclamata alfiere di una nuova realpolitik, riconosca adesso la propria ingenuità e senta inoltre il peso di un Premio Nobel per la Pace consegnato al Presidente Usa “per le buone intenzioni”. Altrettanto confusa appare la situazione dei due governi direttamente interessati. I tentennamenti di Abu Mazen confermano le sue paure e l’intenzione di non voler fare scelte impopolari ma coraggiose che potrebbero riaprire davvero i colloqui. Il Presidente dell’Anp aveva accolto favorevolmente la proposta della Lega Araba, poi l’ha negato, infine dato nuovamente il suo ok.

Discontinuità e indecisione caratterizzano un’Autorità Palestinese che sa di essere profondamente criticata presso la sua opinione pubblica, come al tempo stesso di non godere del pieno sostegno dei suoi partner arabi. Del resto, a fine gennaio ci sarebbero dovute essere le elezioni, sia nel West Bank sia a Gaza. Abu Mazen ha preferito rinviarle, perché sa che nella Striscia una vittoria di al-Fatah sarebbe assai improbabile. Hamas, da parte sua, ha accettato di buon grado, conscia che in Cisgiordania raccoglierebbe ben poche preferenze. Il voto quindi è stato consensualmente, ma con un accordo tacito, rinviato sine die. Veniamo infine a Israele. Ci si domanda il perché della sua intransigenza. Si colpevolizza Netanyahu di lanciare una sequenza infinita di provocazioni. Provocazioni che possono effettivamente fare da scintilla per una vampata di violenza. Tutto vero. A ben guardare negli ultimi due anni non si è mai stati così vicini a una terza Intifadah. Israele ha però una carta in mano che rende nulle tutte queste accuse.

È la spaccatura interna ai palestinesi. L’accondiscendenza di Netanyahu in appoggio ai coloni – oltre a tenere compatta la sua fragile maggioranza – è giustificata dalle sue comprensibili condizioni imposte agli Usa quanto alla Lega Araba. Finché al-Fatah e Hamas continueranno a non parlarsi, Israele si sentirà forte di poter rifiutare un confronto con una Presidenza palestinese screditata e divisa. Il punto debole del Primo ministro israeliano è solo interno alla sua opinione pubblica. Perché anche questa è stanca di uno status quo ormai intollerabile. Il Partito laburista, che è parte della coalizione di governo ed è guidato da quel Ministro della Difesa Ehud Baraq che ieri ha chiuso i varchi con la Cisgiordania, ha esplicitamente disapprovato la scelta di proseguire nell’ampliamento degli insediamenti. Netanyahu deve tener conto anche di questo.

Pubblicato su liberal del 13 marzo 2010

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