Potrebbe indicarmi l’uscita di sicurezza?

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di Fabiana Galassi

L’exit strategy è stata presentata all’opinione pubblica come una scelta doverosa per una politica dal volto umano. Il principio è elementare: l’uscita dai teatri di guerra degli attori che hanno voluto e investito sulla guerra stessa, garantirebbe il riequilibrio dei sistemi politico-sociali degli Stati, scenari di crisi regionali e internazionali.

Quest’automatismo di teoria politica è traducibile nella realtà politico-strategica?

La contemporanea dimensione unipolare della politica internazionale, ha portato gli Stati in un sistema di alleanze costruite ad hoc con potenze regionali, per raggiungere scopi contingenti. La cesura posta dalle Torri non ha costituito, quindi, un mondo nuovo, ma ha svelato una complessità, fino a quel momento ignorata e negata. L’immediatezza della Guerra Fredda doveva essere abbandonata, due Stati non satellitavano più gli altri, non esistevano più modelli ideologici ai quali aderire e i nemici non erano più facilmente riconoscibili e individuabili.

Gli Stati sono diventati atomi, la glocalizzazione ha fatto emergere paesi di riferimento per aree precedentemente monopolizzate dai due monarca della politica internazionale, ma soprattutto elementi prima irrilevanti, come quello religioso, hanno preso il sopravvento nelle decisioni.

Da un punto di vista strategico, si è definito il mito di una guerra asimmetrica nata da un equivoco: la novità dell’asimmetria stessa. Quest’elemento, centrale nella Guerra fredda, non ha proposto un’innovazione, ma il ritorno d’attualità della triade di Clausewitz. La guerra contemporanea è tornata preda di una violenza profonda e ancestrale, in cui nessun elemento moderatore può intervenire, in un gioco delle probabilità fonte d’indeterminatezza del comportamento dell’avversario.

Questo porta a compiere scelte efferrate, attraverso strumenti di lotta di una politica non lucida, preda e vittima di naturali diffiderenze culturali e religiose per propri fini politici.

Le operazioni in Afghanistan e Iraq possono, in questo modo, essere lette come il frutto di una politica di reazione a quella complessità; Afghanistan e Iraq hanno palesato le conseguenze di una politica emotiva che utilizza lo strumento militare, grazie a informazioni parziali.

Le perplessità sull’utilizzo dello strumento militare in questi due paesi, sono state motivate da due atteggiamenti dell’analisi politica statunitense, non condivisibili da un punto di vista meramente tecnico, di strategia. Le tendenze nelle analisi dell’intelligence, al cherry picking e al worst-case thinking, cioè raccogliere solo le informazioni finalizzate a rafforzare quello che si vuole dimostrare, trascurando le altre a detrimento, pensando sempre al peggio. In questo modo, si è arrivati a sostenere l’irrazionalità del ricorso al militare per una guerra guidata dagli Stati e dalle forze dell’integralismo islamico, da necessità razionali – economiche e politiche, dallo sfruttamento delle risorse alla creazione di Stati islamici in cui la religione è stato solo un pretesto per la conquista del potere – o primordiali, cioè la paura e l’odio, ma presentata all’opinione pubblica – più o meno critica, ma della quale si ha bisogno – come scelte imprescindibili.
In termini pratici, come si è tradotto tutto questo nelle scelte strategiche? Il terrorismo ha scelto di compensare il gap tecnologico con attacchi suicidi sempre più eclatanti, finalizzati più a destabilizzare che a produrre conseguenze politiche materiali e spendibili; mentre gli Stati occidentali hanno cercato di tutelarsi con la tecnologia senza potersi mettere al riparo da attentati terroristici, ma consolando le opinioni pubbliche.

Lo strumento militare e, conseguentemente, le scelte strategiche sono state asservite a una politica che nell’era dell’informazione ha sfruttato il luogo comune per ridurre la realtà, combattendo guerre con il pretesto di una traduzione sbagliata del termine jihad perchè l’Occidente doveva sentirsi bersaglio di un intero mondo musulmano e non di gruppi d’integralisti, presentando alle proprie opinioni pubbliche i termini “musulmano” e “islamico” come sinonimi. Quest’incomprensione ha portato il mondo occidentale a non capire l’altro e a chiudere la comunicazione; mentre il mondo musulmano ha radicalizzato la sua convinzione, puntando tutto sulla carta della religione per affermare la propria identità, sostenendo leader fondamentalisti per necessità di semplificare una realtà complessa e per senso di riscatto.

Dopo aver combattuto due guerre, dopo aver inventato una rivoluzione negli affari militari con l’evoluzione delle peace operations, cosa rimane?

L’uscita di scena da Stati non pacificati, ma consegnati a scontri civili prima sconosciuti, non porterebbe ad aumentare una dissonanza e un’instabilità?

Dopo aver scoperchiato il vaso di Pandora è possibile chiuderlo con la stagnola?

L’exit strategy non porterebbe la società di quegli Stati in balia di forze di polizia che non hanno i mezzi per proteggerle, di sistemi giudiziari non forti e a forze politiche indebolite da crisi interne?

Forse non saranno le forze di Stati terzi a equilibrare paesi instabili, ma la loro presenza non è al momento una tutela?

Solo domande possiamo porre, ai posteri l’ardua sentenza.

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