Disagio sociale 2.0

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di GABRIELLA SERINO

“Estate 1992 anno dell’Europa unita” recitava una canzone orami datata. Il progetto europeo, la grande casa comune, un nuovo impianto da cui far nascere innovative spinte sociali.
Estate 2011: l’Unione Europea c’è ancora, per fortuna, ma nei singoli Paesi sono troppi i segnali di insofferenza. I PIIGS fanno fatica a venire realmente fuori dallo stallo e a ripartire con la crescita. Le notizie statunitensi sono ancor meno rincuoranti, considerando il ruolo di traino generalmente affidatogli per l’economia occidentale. Onori ed oneri.

Quali sono le conseguenze per i bambini del 1992, che oggi hanno venti anni in più? Il futuro prospettato all’epoca è divenuto il loro presente, con una realtà estremamente differente, soprattutto sotto il punto di vista lavorativo. E’ cambiato il mercato del lavoro e sono cambiate le norme che lo regolano.
Una nuova generazione di post ventenni, impegnati prima di tutto a capire che volto devono impegnarsi ad assumere per costruirsi una nuova e più piena identità per entrare in modo accettabile nel mondo del lavoro. Cresciuti ed educati all’idea (e all’ideale) secondo cui investire sulla propria formazione potesse essere la vera chiave di volta per realizzare sogni e gratificazione personale, ma più di tutto sentirsi realizzati. Invece, alla soglia dei trent’anni, una laurea in tasca e parecchie esperienze non sono ancora sufficienti. Delusioni, ansie, paure, voglia di rischiare e farcela ancora, ma anche il desiderio di non doversi “svendere” a tutti costi, ripiegando su profili decisamente inferiori rispetto all’impegno portato a compimento negli studi.
Un forte senso di smarrimento attanaglia chiunque nella fase del post-laurea. Allo stesso tempo c’è da mettersi nella situazione di chi deve decidere, a 18 anni, per il proprio futuro: continuare a investire sul capitale umano studiando o “mettendosi a bottega”?

Difficilissima la scelta. Tra le più dure della vita, probabilmente, perché si avverte un forte senso di impotenza. Chi pensava di aver raggiunto un punto di approdo, scopre di essere ad un punto di partenza. Così si rincorrono Master che possano aprire un futuro nuovo, ancora una volta e magari correggere l’errore commesso iscrivendosi alla facoltà sbagliata. In gran parte il risultato è ancora una volta quello di rinviare l’entrata nel mondo del lavoro, seppure qualche spiraglio di svolta si prospetta per i più.
Seguire l’ideale della formazione che ripaga, dello studio che forma, che apre porte nuove, che consente i salto sociale anche per chi arriva dal basso non è stato produttivo per tutti. Neolaureati in ingegneria e architettura con abilitazione professionale che in attesa di un mutamento fanno domanda come bidelli.
Certo, dello stesso pacchetto di insegnamenti fanno parte anche le sagge raccomandazioni sul fatto che qualsiasi lavoro è rispettabile e onesto. Sacrosanta osservazione. Tuttavia, ci si chiede cosa rappresentino anni di tasse pagate, libri, viaggi, stage a titolo gratuito, periodi di possibile inserimento professionale che non conoscono mai fine?

Il sistema è ben preventivato a monte: a partire dai crediti formativi in attività esterne necessari al conseguimento della laurea. Inizialmente si sarebbe dovuto trattare di un periodo formativo, per facilitare il contatto diretto tra lo studente e la sua futura professione. Dunque, per poter costituire un elemento valido ai fini formativi in ambito accademico bisogna obbligatoriamente svolgere periodi di formazione a titolo gratuito. Peccato che durante i colloqui o le candidature venga solitamente richiesto quanto si guadagnasse per portare a termine determinate funzioni, perché lo stipendio di riferimento costituisce una base valutativa per la fascia di inserimento. Non basta, il sistema ci si è resi conto che funziona molto bene. Perché limitarlo al periodo di studio accademico? Molto meglio propinare esperienze di possibile inserimento ancora a titolo gratuito per laureati, ormai vicini ai trenta anni, che non hanno diritto neanche ad un simbolico rimborso spese.

Cosa fare? Mollare tutto, cercare il lavoretto che si sarebbe potuto fare senza studiare o al massimo nel fine settimana durante gli anni di università o continuare ad investire su stessi?
Migrare e cercare di cogliere le opportunità che la casa comune europea mette a disposizione?
Quando i bambini del 1992 potranno diventare grandi e rendersi non solo autonomi, ma anche indipendenti a 360 gradi?
Forse c’è bisogno di guardare sempre un po’ oltre. Non perché l’erba del vicino è sempre più verde, ma perché bisogna riflettere con oculatezza sulle mancanze e sui punti di miglioramento.
Basti pensare in Europa al caso tedesco e in Asia alla grande prova recentemente data dal Giappone. Due popoli che con grande serietà, sobrietà, impegno, basso profilo e razionalità sono stati più e più volte capaci di ripartire da zero e ri-costruirsi un futuro, anche di fronte ad eventi di una durezza efferata che il destino gli ha riservato.

Si dice poi che come popolo noi Italiani abbiamo una marcia in più, quella dell’inventiva, che ha ci ha consacrati come “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori”.
Bisogna darne allora nuova testimonianza e non lo si può fare restando riversi su stessi a interrogarsi su come sarà il domani e lamentandosi delle scelte fatte a monte, ma passare alla dimensione del concreto, mettendoci quell’inventiva, quell’entusiasmo che da almeno 150 anni ci rende unici. Esplorare, viaggiare, incuriosirsi, sfidare la sorte e spezzare i meccanismi insiti nel sistema sociale che hanno paralizzato crescita ed apertura vera del mercato del lavoro, della mobilità, del progresso tecnologico, del miglioramento delle condizioni di vita.

L’ottimismo non basta, ma può essere una leva per spronare una fattiva concretezza costruttiva.

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