L’economia nella Costituzione della Repubblica italiana

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di LIVIO GHERSI

La Costituzione della Repubblica italiana delinea un sistema economico misto, contraddistinto dalla necessaria compresenza di apparati pubblici e di iniziative attivate dai privati.

Ciò esprime una concezione in cui l’economia è qualcosa di più del “market system”. Si tratta di una concezione complessa, in cui il Governo non è onnipotente, ma non è nemmeno impotente rispetto alle richieste degli operatori economici e finanziari privati. Nel contempo, la medesima concezione prevede che alcuni pubblici apparati siano in una posizione di neutralità e di terzietà rispetto agli attori politici, proprio per assicurare l’imparziale assolvimento dei compiti di istituto, a garanzia di specifici beni costituzionalmente protetti e dell’interesse generale di tutti i cittadini. Talvolta la Costituzione garantisce una condizione d’indipendenza ad alcuni pubblici funzionari — come espressamente previsto per i magistrati dell’Ordine giudiziario, ma lo stesso dovrebbe valere per altre Istituzioni, come, ad esempio, la Corte dei Conti — nel senso che essi non sono subordinati ai detentori del potere politico, cioè ai titolari delle funzioni di governo, a tutti i livelli, centrale, regionale, locale. Sono subordinati soltanto alla Costituzione ed alle leggi vigenti.
Richiamo di seguito alcune disposizioni costituzionali.

“La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” (Art. 41, 3° comma, Cost.). Quindi, si prevede che l’attività economica possa essere sia privata che pubblica.
“La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati” (Art. 42, 1° comma, Cost.). Nel successivo comma si afferma lo scopo di assicurare la “funzione sociale” della proprietà privata.
“A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale” (Art. 43 Cost.).

Le modifiche introdotte dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 non interferiscono con le predette disposizioni, inserite nella prima parte della Costituzione. Ma è stato affermato il principio di sussidiarietà (in senso orizzontale): “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà” (Art. 118, 4° comma, Cost.). Ciò significa che quando privati cittadini, singoli e associati, si propongono per svolgere “attività di interesse generale”, la loro iniziativa deve essere favorita dai pubblici poteri. I quali, contestualmente, rinunciano ad esercitare quelle attività tramite apparati pubblici (pubbliche amministrazioni, enti pubblici, aziende, eccetera). Va da sé che non basta proporsi. La gestione da parte dei privati deve realizzare l’interesse generale e, in particolare: i princìpi di “buon andamento” (ossia economicità, efficienza efficacia) e di “imparzialità” (che l’Art. 97, 1° comma, Cost. afferma per l’organizzazione dei “pubblici uffici”). Deve altresì realizzare il principio di “adeguatezza”, stabilito dall’Art. 118, 1° comma, Cost., unitamente a quelli di sussidiarietà (in senso verticale) e di “differenziazione”, per regolare la distribuzione delle funzioni amministrative tra i diversi livelli territoriali di governo, a partire dal livello più prossimo ai cittadini amministrati.

Si può concludere che la nostra Costituzione, nel modellare il sistema economico, respinge tanto il collettivismo integrale (tutti impiegati pubblici), quanto il liberismo integrale (meno apparati pubblici ci sono, meglio è, perché il supremo regolatore è il mercato).

La distinzione tra liberalismo e liberismo economico esce rafforzata dall’impianto costituzionale: si tratta, di volta in volta, di appurare quale soluzione gestionale realizzi meglio l’interesse generale dei cittadini e la tutela del bene comune.
Distinguere il liberalismo dal liberismo economico non significa che le due concezioni debbano necessariamente e sempre confliggere tra loro. La distinzione teorica si traduce nella consapevolezza di una non scontata coincidenza: significa che in relazione ad alcune scelte (valutate nel loro contesto temporale e spaziale, e nei prevedibili concreti effetti), i punti di vista possono concordare, mentre rispetto ad altre scelte divergere e magari contrapporsi. E che giudice di ultima istanza resta la coscienza individuale.

Per i liberali che colgono questa distinzione teorica, le pubbliche amministrazioni non soltanto non sono un male in sé, ma sono necessarie. Si tratta di organizzarle bene e di farle funzionare. Obiettivo che sembra impossibile soltanto a quanti, per pregiudizio ideologico, pensano che tutto ciò che è pubblico debba essere inefficiente ed antieconomico.
Il cattivo funzionamento delle pubbliche amministrazioni è la premessa perché abbiano campo libero faccendieri, intrallazzatori e speculatori di ogni risma. Anche la criminalità organizzata (mafia, camorra, ‘ndrangheta, eccetera) incontrerebbe molti più ostacoli se ad ogni livello si incontrassero funzionari pubblici che fanno il proprio dovere, assolvendo con coscienza i propri compiti istituzionali.

In altra occasione ho ricordato che il Testo Unico “delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato”, approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, stabiliva all’articolo 17, rubricato “Limiti al dovere verso il superiore”, quanto segue:
“1. L’impiegato, al quale, dal proprio superiore, venga impartito un ordine che egli ritenga palesemente illegittimo, deve farne rimostranza allo stesso superiore, dichiarandone le ragioni.
2. Se l’ordine è rinnovato per iscritto, l’impiegato ha il dovere di darvi esecuzione.

3. L’impiegato non deve comunque eseguire l’ordine del superiore quando l’atto sia vietato dalla legge penale”.
Queste disposizioni, rispondenti ad una saggezza amministrativa molto risalente nel tempo, servivano a puntellare in modo efficace il principio di legalità dell’attività amministrativa. In uno Stato che si ispira ai princìpi del liberalismo (e che, quindi, necessariamente si configura come Stato di diritto), non soltanto i governanti non possono imporre la propria volontà agli apparati burocratici quando questa volontà sia manifestamente contra legem, ma anche la stessa catena di comando gerarchica può spezzarsi. Ogni pubblico impiegato, che ha giurato fedeltà alla Costituzione della Repubblica e che è tenuto ad operare “al servizio esclusivo della Nazione” (come prevede l’Art. 98, 1° comma, Cost.), non è un automa che debba dare esecuzione comunque all’ordine del superiore gerarchico.

In altre parole, il principio di legalità dell’attività amministrativa è coerente con una concezione in cui i funzionari pubblici sono chiamati a realizzare ed a custodire l’ordinamento giuridico. Una concezione che chiede conto a ciascun funzionario, singolarmente considerato, ovviamente nei limiti delle sue attribuzioni e competenze.

Possono sembrare idee vecchie, superate. Oggi molti pensano che le ragioni dell’economia debbano prevalere sulle regioni della politica (e dell’ordinamento democratico rappresentativo). Sono convinti che le amministrazioni siano un impaccio, perché in ogni caso ritardano la velocità delle transazioni e degli affari. “La moneta deve girare”, come si dice dalle mie parti.

Viceversa, distinguere il liberalismo (e la democrazia) dal liberismo economico significa riproporre il primato della politica sull’economia. Significa puntare sul primato dei valori umani. Ad esempio, esseri umani preoccupati del degrado dell’ambiente naturale e delle sorti del pianeta Terra, potrebbero liberamente e consapevolmente decidere di adattarsi ad un’esistenza più austera. Con meno beni da possedere, meno comodità. Con la prevalenza della ricchezza spirituale su quella materiale, dell’essere sull’avere. Illusioni di “un’opposizione neo-romantica”, come la chiama Luca Ricolfi (nel quotidiano “La Stampa”, edizione del 22 giugno 2011)?

Ricolfi è uno dei tanti intellettuali che pur avendo un passato “di sinistra”, e magari pur continuando a definirsi “di sinistra”, hanno subìto la fascinazione del liberismo economico. Il guaio è che pensa che liberismo economico e liberalismo siano coincidenti, per cui ritiene di interpretare pure il punto di vista dei “liberali”.
I liberali autentici che fecero parte dell’Assemblea Costituente e che discussero e votarono la nostra Costituzione si richiamavano ad un’altra tradizione, ben presente nella storia d’Italia. Era costume, tra quei liberali, considerare migliori politici quelli che dimostrassero, nei comportamenti, di avere “senso dello Stato”. Gli odierni antistatalisti programmatici, i teorici del “privato è bello”, sono altra cosa. Dal mio punto di vista, sbagliano e ci sono solidissimi argomenti, ben radicati proprio nella cultura politica liberale, per confutarli.

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