Dalla piramide alle reti di comunicazione

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di MORRIS L. GHEZZI

Non possiamo ammettere, invece, che vogliamo costruire qualcosa come una rete senza centro (cioè senza una gerarchia con un Papa al vertice della piramide), una democrazia che guarda con sospetto persino all’idea di una sovranità democratica – perché teme la collera dell’individuo “comune” nel senso di Chesterton?
Giulio Giorello, Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo

Il discorso intorno al governo della comunicazione non credo debba essere esclusivamente focalizzato sulla, così detta, “rivoluzione digitale”, di questi ultimi tempi, di cui tanto si è parlato e si parla, ma piuttosto si debba affrontare il tema da un punto di vista più vasto, più esteso. Dal punto di vista dell’origine di questa “rivoluzione digitale”, che non rappresenta altro che un episodio di quella rivoluzione tecnologica che dalla seconda metà del 1900 ha condotto ad un vero e proprio salto di paradigma culturale, secondo il significato che a questa espressione attribuisce il pensiero di Thomas Kuhn. Per meglio esprimere il senso di questa affermazione ed entrare con maggiore chiarezza nel vivo della materia da trattare pare opportuno ricorrere ad una metafora storica. Quando nel 776 A.C. gli antichi greci diedero inizio alle Olimpiadi e, successivamente, Pierre de Frédy, barone di Coubertin, nel 1894 rifondò le Olimpiadi moderne si era in presenza di competizioni ludiche, ossia si gareggiava su un piano di disinteresse economico quasi completo. Oggi, invece, anche le Olimpiadi ed, a maggiore ragione, lo sport, in genere, hanno profili crescenti di rilevante interesse economico. Tale interesse sposta lo sport dall’ambito ricreativo, giocoso a quello lavorativo, produttivo. Il concetto ha subito una drastica trasformazione, che ne ha alterato profondamente il significato sociale. In altre parole, è avvenuto un salto di paradigma culturale nel senso delle azioni, che vengono compiute sotto il cappello del medesimo termine. Oggi non esiste più uno sport, esiste solo un lavoro sportivo. Anche nel mondo della comunicazione e dell’informazione è avvenuto un fenomeno simile.

La comunicazione e l’informazione tendono a non diffondersi più da un centro gerarchicamente superiore verso la periferia, ma presentano una molteplicità policentrica in perenne scambio biunivoco su un piano di eguaglianza tra i vari poli. E’ avvenuto, appunto, un salto di paradigma culturale; le parole non esprimono più i medesimi concetti del passato. Ovviamente, in questo salto di paradigma culturale la tecnologia ha svolto un ruolo insostituibile, ma il passaggio non avrebbe potuto avvenire senza una modificazione anche di prospettiva mentale: la tecnologia è condizione necessaria, ma non sufficiente; per modificare i vecchi schemi devono mutare anche le idee.

L’elemento centrale, in cui si sostanzia questo salto di paradigma, consiste nel passaggio dal modello tradizionale gerarchico, verticale, piramidale ed unidirezionale della comunicazione ad un nuovo modello di rete degerarchizzato, egualitario, orizzontale e biunivoco. Dalla strutturazione ed istituzionalizzazione della comunicazione e dell’informazione si passa alla destrutturazione e deistituzionalizzazione delle medesime. Internet si presenta come l’esempio più evidente di questo salto di paradigma: la sua comunicazione/informazione opera in tempi reali; massimizza, al contempo, globalizzazione e capillarizzazione; individualizza il messaggio; consente risposte, rendendolo bidirezionale, e cancella con l’identificabilità della fonte anche ogni sua autorevolezza gerarchica. Le notizie fluttuano come in un mare dove tutte le gocce d’acqua sono uguali. Le conseguenze e le potenzialità socio-politiche di questa nuova situazione sono evidenti ed il recente caso di Wikileaks e del suo fondatore Julian Assange ne è un eloquente e dirompente esempio.

La carenza, dunque, che mi pare emerga dal dibattito pubblico attuale, consiste proprio nel non volere prendere atto di questo salto di paradigma; nel tentare disperatamente di fare sopravvivere all’interno del nuovo, che avanza inesorabilmente, il modello arcaico di comunicazione/informazione. Nel momento in cui si continua ad incentrare il discorso intorno ai giornalisti, all’ordine dei giornalisti, alle testate giornalistiche, alla radio, alla televisione ed alle relative concessioni governative si continua a discutere del vecchio paradigma centralizzato, verticizzato ed istituzionalizzato; non della situazione in fieri, che ci viene incontro. L’attuale situazione ci parla, invece, dello sgretolamento progressivo di questo vecchio mondo, di questo modello arcaico di comunicazione/informazione. Si dibatte ormai da tempo con preoccupazione intorno agli editori “non puri”, alla contemporanea proprietà di reti televisive e di testate giornalistiche, ai limiti quantitativi nella proprietà di reti radiotelevisive, alla concentrazione delle testate giornalistiche e non ci si avvede, che tali effetti hanno come causa principale proprio il vecchio paradigma di comunicazione centralizzata e gerarchizzata. Tutti questi problemi sono destinati a scomparire, come per magia, solo che si lasciasse il campo libero al nuovo paradigma decentrato ed egualitario. Infatti, sono proprio le restrizioni giuridiche all’accesso ed all’esercizio della comunicazione a garantire le situazioni di monopolio/oligopolio, di rendita parassitaria e di condizionamento dell’opinione pubblica tanto apparentemente temute. Basti pensare alle concessioni pubbliche radiotelevisive, che, da un lato, limitano, l’esercizio della libera comunicazione e, dall’altro lato, garantiscono la spartizione parassitaria della pubblicità e dei relativi profitti. Basti pensare all’ordine dei giornalisti, che configura una casta privilegiata, ma anche ben controllabile da parte del potere statale, di addetti ai lavori della comunicazione: strana, ma non troppo, sopravvivenza del “passato” regime fascista. La risposta a questi problemi risiede proprio nella più completa deregulation, immanente al nuovo paradigma stesso. Libero mercato, anzi meglio, mercato selvaggio e completa assenza di norme giuridiche statali, nell’ambito della comunicazione/informazione sono lo strumento più efficace, in presenza dell’attuale fase di salto di paradigma, di smantellamento di ogni situazione di privilegio, di ogni rendita di posizione. Il prodotto non potrebbe appiattirsi, come avviene ora, poiché l’offerta inevitabilmente eccederebbe di gran lunga la domanda ed il gradimento del lettore e dello spettatore risulterebbe essere l’unico concreto criterio di successo.

Per meglio precisare quanto sta attualmente avvenendo nella comunicazione/informazione, pare opportuno sottolineare che le preoccupazioni ed i pericoli troppo spesso denunziati non sorgono tanto dal nuovo modello di paradigma, quanto dalla asserragliata resistenza del vecchio modello intorno ad interessi oligopolistici e monopolistici, inclini ad utilizzare qualsiasi strumento giuridico statale per impedire il libero sviluppo delle prospettive nuove, che avanzano. Si cerca di non vedere la realtà postmoderna e postindustriale, che ormai tende a prevalere, ed a dimenticare l’annunzio di questa realtà, che batte alle porte da oltre un secolo. Non è possibile ignorare che la monoliticità e le certezze delle società industriali sono in crisi dagli inizi del millenovecento. Le vecchie società industriali si reggevano sulla produzione di beni e di servizi, ma anche in esse il paradigma postmoderno è comparso all’improvviso con devastante violenza. Quel mondo finanziario, che era nato come strumento di supporto allo sviluppo industriale, come volano della produzione, come momento di congiunzione tra investimento e profitto, si è autonomizzato ed è divenuto prodotto di se stesso, prodotto virtuale, moltiplicatore fittizio di inesistente valore economico. Il salto di paradigma è avvenuto, la drammatica e ricorrente esplosione delle bolle speculative sembrava averlo fatto collassare, averlo fermato, ma è proprio questa ricorrenza, che ci segnala il suo persistere, la sua ricerca di affermazione, che nessuna norma può o vuole arrestare; anzi, che troppo spesso trova tutela negli Stati. Potrebbe bastare un divieto normativo assoluto di commercializzazione di prodotti finanziari derivati per tornare al mondo industriale puro; ma ciò è ancora possibile e, soprattutto, è auspicato dal potere dominante? Il fatto che non avvenga e che nessuno prospetti questa ipotesi è una risposta sufficientemente eloquente.

I salti di paradigma culturale difficilmente si fermano una volta che la situazione sociologica ha consentito loro di manifestarsi. Per fermarli si dovrebbe modificare la situazione sociologica e non sembra che attualmente nella nostra realtà sociale esistano i presupposti di una tale modificazione. Del resto, questo nuovo paradigma culturale non giunge inatteso; esso era già stato annunziato da tempo da numerosi studiosi ed il suo avvento reputato ineludibile. Non è, dunque, comprensibile lo stupore e, talvolta, anche il disappunto, che accompagnano l’affermarsi di questo paradigma.

Le visioni filosofiche nichiliste della seconda metà del milleottocento di Friedrich Nietzsche1 si estesero ben presto anche all’ambito sociologico e con il politeismo dei valori di Max Weber si dovette prendere atto, che la società industriale moderna andava affievolendo le antiche certezze assolute e monolitiche in nome di valori relativi, plurimi, soggettivi, in una parola, individuali. A coronamento di questo inesorabile processo, in età contemporanea, il filosofo Emanuele Severino ormai, giustamente, sentenzia la morte di ogni epistéme nel mondo moderno2 ed il sociologo Zygmunt Bauman propone una immagine di società addirittura postmoderna, che definisce “liquida”, alla perenne ricerca della felicità individuale.3 Anche nel mondo del diritto si è fatta strada una dottrina, che da Axel Hägerström, da Karl Olivecrona, dalla Scuola di Uppsala, da Theodor Geiger a Natalino Irti ha teorizzato un diritto meramente fattuale ed è stata costretta a prendere atto dell’ormai dominante nichilismo pure in ambito giuridico.4 Dunque, dopo tanta attesa le “profezie” sociologiche si sono realizzate quasi completamente ed il relativismo dei valori ha trionfato, aprendo la strada a società sempre più nichiliste e nella comunicazione/informazione, non casualmente, questo nichilismo ha raggiuno, forse, uno dei suoi massimi livelli di sviluppo. A nulla vale stupirsi o negare l’evidenza dei fatti; ben più costruttivo è prenderne atto e cercare di gestire al meglio la realtà esistente. Non ha senso esorcizzare il relativismo soggettivista ed individualista, che ormai trionfa, cercando rifugio in inveterati miti assolutisti di una qualità non più universalmente percepita come tale. A nulla vale rimpiangere un’età dell’oro, per altro mai esistita, delle certezze indiscutibili, delle verità rivelate e dei valori monolitici e rigidi come cristalli. L’elaborazione culturale filosofica, sociologica e giuridica, ma anche etica e religiosa, aveva già da tempo preparato il terreno alla modernità relativista, eppure sembra che tali riflessioni non siano state prese in seria considerazione, se ancora vi è chi appare sconcertato dalla realtà presente. Tuttavia il relativismo non coincide con l’assenza di valori, ma con la loro relativizzazione, soggettivizzazione, dunque, non si può identificare con il caos. Pertanto le società postmoderne debbono porsi il problema non di negare, ma di saper governare questo relativismo, espressione della valorizzazione del singolo essere umano e dei suoi diritti. Seguendo questo percorso, sarà finalmente possibile costruire una comunicazione/informazione democratica (presupposto irrinunziabile per la realizzazione di una effettiva democrazia politica), che cresca dal basso; ossia espressione reale delle diverse volontà individali, nonché dei molteplici interessi contrapposti e delle relative aspettative.

Il futuro ci invita verso una svolta innovativa, che non può ricondurre al sogno seicentesco di una Respublica christiana, ma deve prendere atto della rottura di ogni unità culturale, propria della postmodernità. Il salto di paradigma, in sintesi, è già avvenuto e, dunque, non è più possibile cercare effimero conforto in istituzioni consolidate dal tempo, statiche, immutabili, rassicuranti in quanto prevedibili. Il nuovo paradigma alle certezze fa subentrare le incertezze, alla stabilità l’instabilità, alla staticità il dinamismo. Su questa strada la risposta in termini di garanzie per la democrazia, di governo delle libertà, di getione delle comunicazioni/informazioni si sposta da prospettive eterogestite verso prospettive autogestite; si sposta, sostanzialmente, su un piano nel quale l’accesso di tutti a tutto diviene l’unica concreta garanzia di libertà, eguaglianza e democrazia. Ovviamente questo nuovo percorso non è privo di inconvenienti , sopratutto, in questa sua fase iniziale, poiché il modello, presentandosi ancora incompiuto, non riesce ad esprimere tutte le proprie potenzialità, mentre fa sentire le carenze dovute al venire meno del vecchio modello. L’abitudine ad un modello di realtà e di società paleopositivistica o protopositivistica ha condizionato il modo di pensare secondo schemi conoscitivi, che distinguono il concetto di realtà dal concetto di virtualità, come in passato venne distinto il concetto di verità storica da quello di mito. Eppure questi tre concetti sono certo diversi, ma solo in quanto rappresentano tre differenti modi di narrazione della realtà, non sicuramente per il diverso contenuto di verità, che esprimono (intendendo per verità la corrispondenza tra narrazione ed esistenza esterna al narratore di quanto narrato). Dunque, se l’epistemologia contemporanea più avveduta ormai sostiene il soggettivismo prospettico di qualsiasi narrazione, si giustappongono molte verità: quella mitologica, quella, per così dire, empirica di stampo paleopositivistico, e quella virtuale5.

Quest’ultima verità è quella che ora ed in questa sede maggiormente interessa. Infatti, è quest’ultima verità che per lo più si aggira nella comunicazione/informazione contemporanea a cominciare da Internet, ma non solo. L’assenza di gerarchia, di punti di riferimento autorevoli e l’accesso indiscriminato alla comunicazione cancellano in via definitiva ogni ipse dixit, ma non per questo producono falsità; si manifesta, più semplicemente, quel relativismo soggettivo e prospettico di opinioni, di modi di pensare e di narrare, che si materializza in punti di vita, convinzioni, asserzioni tutti egualmente opinabili e discutibili. In questo consiste il grande salto di paradigma culturale, che accompagna una comunicazione/informzione di rete, rispetto a quella monocentrica. Questo salto di paradigma cancella inesorabilmente il concetto assoluto di qualità della comunicazione/informazione, poiché elimina ogni fonte autorevole e qualsiasi parametro di riferimeno esterni alla comunicazione ed alla sua percezione medesima.

Tutto si sostanzia in una realtà autoreferenziata costruita momento per momento. Siamo finalmente in presenza di quella destrutturazione completa del modello istituzionalizzato e cristallizzato di senso, sul quale si è fondata sino ad ora la nostra società non libera, gerarchica e disegualitaria. Del resto, anche queste riflessoni non sono nuove, giacché non è difficile reperirle nella critica anticipatrice, filosofica e sociologica, di molti autori del ‘9006; si tratta, ora, di prenderle in seria considerazione e di non ritenele più mero esercizio intellettuale accademico. Il problema oggi è di consapevolezza sia del salto di paradigma, sia dell’impossibilità di esocizzarlo, di evitare di fare i conti con le conseguenze da esso prodotte. Il nuovo paradigma può e deve essere gestito; è possibile gestire anche l’incertezza, ma non certo attraverso quell’artificiale costruzione di certezze fittizie usata nel passato e per la quale non esistono più i presupposti di credibilità. In altre parole, destrutturare non significa abbandonarsi al caos; al contrario, significa creare un nuovo ordine diverso, nel nostro caso, un ordine di rete, per esempio, non un ordine di vertice.

Ad esempio, il concetto di palinsesto nella comunicazione televisiva tende a venire meno. Nell’analisi sociologica ciò che più conta per comprendere le trasformazioni non è tanto la descrizione dei caratteri principali di una società, quanto, piuttosto, l’analisi delle eccezioni, dei fenomeni minoritari e nascenti. Nessuna società si presenta monolitica ed unidirezionale; le società sono tutte frastagliate, manifestano varie linee di tendenza, mandano segnali deboli, dai quali è possibile capire in quale direzione si muoveranno in futuro. Che i giovani, ma non solo i giovani, non siano abitudinari nel consumo di prodotti della comunicazione e, quindi, non abbiano la stretta necessità di disporre di un rigido palinsesto, che fornisca loro certezze intorno a quando, come e perché verrà trasmesso un certo messaggio, è già un segnale, un segnale debole appunto, se si vuole, ma pur sempre un segnale della trasformazione in atto. Del resto, un simile segnale si sta presentando anche in altri settori del mercato; come, infatti, insegnano le rilevazioni marketing, le modalità di confezione dei prodotti, le forme degli stessi ed, addirittura, la loro localizzazione sugli scaffali di vendita tendono a modificarsi, anche con una certa rapidità, nel tempo e lo stesso avviene anche nell’erogazione di servizi.

E’ posibile mettere giustamente l’accento sulla molteplicità dei punti di vista; ossia sottolineare il prospettivismo di qualsiasi affermazione. Questa riflessione si presenta molto importante rispetto al discorso della democraticità del sistema. Se esiste un solo punto di vista, infatti, è evidente che tale punto di vista tenderà a configurarsi come oggettivo, ossia doterà la realtà di oggettività, ma nel modello di sistema del nuovo paradigma postindustriale, tendenzialmente destrutturato e deistituzionalizzato, non può esistere un punto d vista prevalente, principale. Esistono, invece, vari, molti punti di vista diversi, che si pongono tutti sul medesimo piano di credibilità, poiché la realtà si presenta multiforme, articolta. Se, però, la realtà appare multiforme è necessario cercare di configurare anche un suo senso, un suo significato multiforme. La multiformità non può consentire che il suo senso subisca una unificazione, una reductio ad unum, poiché tale reductio è inconciliabile con il modello di società policentrica, che si sta formando. D’altra parte, anche affermare la centralità della res, del prodotto o, se si preferisce dell’impresa, non del cliente, da un lato, appare una affermazione ovvia e, dall’altro lato, priva di vero significato. Appare ovvia, perché è chiaro che senza prodotto non esiste comunicazione /informazione e mercato, quindi l’impresa deve necessariamente sussistere; ma, contemporaneamente, si presenta priva di contenuto se non risponde alla domanda: quale impresa? Di fronte ad un salto di paradigma culturale anche il concetto d’impresa muta, si modifica. Infatti non esiste più un unico tipo di impresa, ma ne esitono numerosi, in dipendenza dalle diverse situazioni socioeconomiche, sociopolitiche e sociostoriche, che si cofigurano nel momento in cui si analizza la situazione sociologica.

Il salto di paradigma coinvolge anche il discorso intorno alla governance, al controllo della comunicazione/informazione. In sé la rete, per sua stessa natura, è quanto di più democratico possa immaginarsi. Il problema della governance non può più essere posto in termini di controllo, ma solo di accesso garantito a tutti, sempre. La qualità stessa, sia essa identificabile con scelte di gusto, con vincoli ideologici, religiosi o politici, oppure anche solo di ordine pubblico o di buon costume, non può costituire alcun limite, poiché si configura come una mera valutazione soggettiva, personale. Non è possibile celare il connotato centrale della rete: essa è libera da qualsiasi vincolo, non tollera né filtri, né blocchi, è refrattaria a qualsiasi tipo di censura. Ovviamente tali caratteri libertari e democratici della rete non piacciono agli Stati totalitari, alle religioni intergraliste e teocratiche, nonché anche a quei Paesi sedicenti democratici, che, purtroppo, tendono ad abbandonare i loro valori originari. La censura è l’unico vero nemico della rete. Infatti, là dove non esistono verticalizzazioni, ma solo orinzontalità e là dove si prenda atto che la qualità è meramente soggettiva e nasce spontaneamente dal confronto, scaturisce un vero e proprio meccanismo democratico in sé, una struttura di comunicazione/informazione democratica in quanto tale. Il salto di paradigma culturale, sostenuto dalla tecnologia, è, dunque, avvenuto.

Per tutti i due secoli passati si è cercato di costruire artificialmente dei sistemi democratici attraverso interventi legislativi idonei a garantire il funzionamento di istituzioni statali rappresentative di una non meglio identificata volontà popolare. Tali leggi e tali istituzioni sono state quasi sempre imposte con la forza ed hanno sempre obbligato entro angusti canali burocratico-procedurali i comportamenti definiti leciti, imponendoli, a loro volta, sempre con la forza. In quelle fasi di sviluppo industriale la centralità sociale del diritto si presentava come indiscutibile, ma nella fase di sviluppo postindustriale anche la funzione del diritto ed il diritto stesso, come lo si conosce oggi, tende ad essere sempre meno centrale ed a cedere il passo ad altri strumenti di comunicazione/informazione e di coesione sociale. Del resto, già Talcott Parsons affidava al diritto una mera funzione di lubrificante, di facilitatore, di servomeccanismo omeostatico non di integratore sociale primario dei rapporti e, più di recente, Vincenzo Ferrari evidenzia la natura comunicazionale del diritto e, quindi, indirettamente, anche il destino di trasformazione, che lo accomuna al salto di paradigma, di cui si sta discorrendo 7.

Tornando ora al cuore del tema trattato, la democrazia oggi potrebbe nascere proprio dalla nuova stuttura a rete della comunicazione/informazione; una comunicazione/informazione polverizzata, mutevole, incerta, senza soggetti centrali emergenti. In questo scenario anche il discorso intorno alla concentrazione della proprietà e della consegente governance delle fonti d’informazione si ridimensiona, se proprio non viene meno, in quanto l’imprenditore, da una parte, ed il cliente, dall’altra parte, perdono di centralità a tutto favore dei problemi di accesso alla rete e di rapporto biunivoco tra i due poli della comunicazione. La rete supera le polarità attivo/passivo, giornalista/lettore, intrattenitore/spettatore e valorizza la comunicazione bi o multidirezionale in quanto tale, in quanto azione, comportamento comunicativo. L’impresa mediatica, dunque, tende a non sostanzializzare più il proprio prodotto nella comunicazione/informazione, nella notizia, ma nella stessa relazione con l’utente e, soprattutto, nell’indotto, per lo più pubblicitario, che tale relazione produce. Non casualmente, infatti, guadagna sempre più spazio, e giustamente, la stampa distribuita gratuitamente: non è l’imprenditore, che fornisce il servizio informazione al lettore, ma è il lettore a fornire all’imprenditore la sua disponibilità di tempo a leggere od ad ascoltare quanto è stato prodotto.

Il nuovo paradigma culturale non consente di continuare a pensare secondo il vecchio schema. Ed è proprio la tensione esistente tra nuovo e vecchio paradigma, tra un antico modello rigido, istituzionalizzato, monocentrico, che combatte per non soccombere, scomparire, ed il nuovo modello destrutturato, deistituzionalizzato, policentrico, che cerca di farsi strada per emergere, a produrre l’attuale situazone di incomprensione, di incertezza ed anche di paura. E’ mia convinzione personale che sarà quest’ultimo modello a risultare vincitore della contesa e, conseguentemente, a rendere destrutturate e deistituzionalizzate le società postmoderne. Tuttavia, poiché il determinismo storico è questione indimostrata ed indimostrabile, non posso escludere che vi possa essere un ritorno di fiamma del vecchio paradigma, con il consegente esito sociale di democrazie poco democatiche od, addirittura, di autoritarismo e di totalitarismo

Le allarmate riflessioni, che provengono da varie parte dell’opinione pubblica ed anche da parte di molti operatori del settore, intorno all’attuale situazione della comunicazione/informazione, mi paiono più ispirate dal timore del nuovo che avanza, piuttosto che da effettivi pericoli: valga a chiarimento il paragone con il bisturi, strumento medico predisposto per curare, ma anche sicuramente idoneo ad uccidere; si tratta di prendere consapevolezza dell’uso che se ne intende fare. Non è l’oggetto, in quanto tale, a determinare la situazione, ma è la situazione che scatuisce dall’uso che viene fatto dell’oggetto. Il timore per un uso distorto di Facebook è senza dubbio fondato. Infatti, se oggi si affida a tale strumento la propria immagine non sarà più possibile, se non, forse, con estrema difficoltà, né controllarne la successiva diffusione ed utilizzo, né toglierla definitivamente dal circuito nel quale è stata inserita. E poiché le immagini rispecchiano momenti diversi della vita, si potrebbe non avere più piacere che proprie vecchie immagini continuino ad essere pubbliche. Ma queste preoccupazioni emergono proprio dall’imperfezione democratica dei sistemi nei quali siamo abituati a vivere, dall’ancora non completamente compiuto salto di paradigma culturale, del quale ho precedentemente parlato. Le dittature pseudodemocratiche, i sistemi pseudo-democratici, le democrazie imperfette, in fieri, che ci circondano, (non intendo parlare solo della Cina, della Corea del Nord, dell’Arabia Saudita o dell’Iran, ma anche di molte democrazie occidentali) ci hanno abituato a non pretendere l’assoluto rispetto della propria immagine, qualunque essa sia; ci hanno abituato a sottometterci ad una communis opinio, imposta dal potere dominante, intorno a ciò che è bene ed a ciò che è male; ci hanno abituato a non prendere seriamente l’affermazione dell’articolo 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, secondo la quale: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti.” In sintesi, vivendo in sistemi sostanzialmente antidemocratici, nei quali il salto di paradigma culturale non si è ancora completamente realizzato, subiamo il pregiudizio ideologico di una omogeneizzazione, che non dovrebbe più esistere. Dovrebbe ormai essere assodato, che la richiesta di taluni dati sensibili non solo è ineducata, ma non dovrebbe neppure trovare spazio nelle prassi pubbliche. Ad esempio, come è ormai chiaro (anche se non del tutto realizzato) che né il colore della pelle, né il genere, né la religione od il credo politico professato debbano incidere in bene od in male sulla propria immagine, così dovrebbe essere altrettanto chiaro che neppure le tendenze sessuali o l’età dovrebbero socialmente rilevare nella valutazione della persona. Eppure, anche in Italia, che pure si fonda costituzionalmente sul lavoro, l’età è un dato che viene richiesto dai datori di lavoro ed è frequentemente un requisito fondamentale per l’assunzione.
Purtroppo molti di noi vivono, dando per scontato che l’antidemocraticità del sistema non possa subire modificazioni, non possa essere toccata, intaccata, superata, per cui hanno continuamente nei propri pensieri un Grande Fratello, di orwelliana memoria, onnipotente ed immutabile. Ma è proprio contro tale Grande Fratello, che dal ‘900 il salto di paradigma culturale muove, con difficoltà ma inesorabilmente, i propri passi nel tentativo di smantellamento del sistema. Già nel secolo passato autori come Michel Foucault erano pienamente consapevoli della gabbia culturale, che imprigiona il pieno e libero sviluppo della democrazia . Questo Autore, infatti, attraverso le sue analisi genealogiche delle parole, delle cose, delle scienze, del sapere e, soprattutto, del potere, si presenta come un antesignano delle problematiche, che attualmente angosciano coloro che sono rimasti legati ad una visione ottocentesca dell’organizzzione sociale ed del potere che la governa8.
Forse con eccessivo ottimismo il volgere del nuovo millennio aveva illuso molti della definitiva fine delle dittature ottocentesche e novecentesche dei sistemi istituzionalizzati, fine che non si è verificata. Tuttavia si intravede all’orizzonte la possibilità di una tale fine e, quindi, non si comprende per quale motivo il disappunto ed il terrore si appuntino proprio su quel salto di paradigma culturale, su quel relativismo, su quel pluralismo, su quel nichilismo, che si presentano come i principali strumenti di questa fine. Si grida, si denunzia la pericolosità di questi strumenti, dimenticando i disastri ed i crimini commessi dal vecchio paradigma e dalle sue istituzioni. Questi nuovi strumenti, forse, non sono la panacea per tutti i mali sociali, ma permettono comunque di percorrere una nuova strada, che con ragionevolezza, anche se con molti limiti, può condurre verso un nuovo modo di vivere nel sociale. Un vero pluralismo deve prendere definitivamente atto della necessità di superare ogni giudizio di tipo qualitativo, giudizi che, non dimentichiamolo, sono sempre frutto del potere dominante. Il vero pluralismo è consapevole che la qualità non appartiene alle élites, ma si trova diffusa nella realtà storica: come sosteneva Georg Wilhelm Fredrich Hegel, ciò che è reale è anche razionale. Questo è il punto centrale su cui si deve riflettere.

Anche se può sembrare una contraddizioni in termini (ma i momenti storici di transizione sono sempre una contraddizione in termini), il problema, che si presenta, consiste nel governare la deregulation. Le istituzioni, pubbliche o private che siano, devono iniziare a limitare effettivamente se stesse, i propri poteri, prima di cercare di limitare gli altri soggetti sociali individuali o collettivi, di imporre censure, filtri morali, religiosi o politici all’interno di Internet e, più in generale, su tutta la società. Si tratta di limitare il governo dello Stato, del mercato, delle imprese, ma non attraverso ulteriori istituzioni pubbliche o leggi statali, bensì grazie ad un controllo sociale diffuso, affidato agli stessi soggetti individuali, che compongono la società: vogliamo chiamarli cittadini, clienti, utenti o, più semplicemente, singoli esseri umani? Poco importa; ciò che conta è che si prenda atto che nel pluralismo tutto parte dall’individuo e torna all’individuo stesso; anche la qualità ed il potere.

In particolare, nel caso specifico della comunicazione/informazione, gli strumenti nei quali si materializza il salto di paradigma culturale di cui si è parlato, quali Internet, certamente sono ancora imperfetti, ma non per questo bisogna averne paura. Sicuramente sono strumenti che possono subire deviazioni, ma per loro natura non possiedono caratteristiche di deviazione, come, invece, avviene per altri strumenti istituzionali, la cui natura gerarchica, verticistica ed unidirezionale li condiziona inesorabilmente, quali, ad esempio, la radio, la televisione od anche le stesse regolamentazioni ex lege prodotte da istituzioni pubbliche o private, per lo più statali, della cui democraticità vi è sempre da dubitare.

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