Ieri l’Italia ha pianto i quattro Alpini caduti in Afghanistan. Nel frattempo, il presidente Usa, Barack Obama, telefonava al primo ministro britannico, David Cameron, per esprimergli le sue personali condoglianze per la morte di Linda Norgrove, l’operatrice umanitaria rapita nella provincia di Kunar alla fine di settembre e uccisa qualche giorno fa, anche lei per mano talebana. Lo scambio telefonico Washington-Londra ha concesso la possibilità ai due leader di confrontarsi per l’ennesima volta sulla questione afghana. La scelta di avviare un piano di exit strategy dal Paese già con il 2011 si fa sempre più concreta. Del resto non è una novità, per quanto a Roma l’ipotesi sia giunta a latere dell’attentato di sabato. Al Pentagono invece, come al Ministero della Difesa britannico, se ne sta discutendo ormai da mesi. Il 2010 tende a chiudersi come uno degli anni peggiori per le operazioni Isaf e Nato. Il bollettino di guerra al momento ha raggiunto quota 572 caduti da gennaio a oggi. Nove anni fa, dopo gli attentati a New York e Washington, la comunità internazionale diede il suo ok per l’avvio di un’operazione di peacekeeping in Afghanistan. Questa prevedeva lo sradicamento del fondamentalismo islamico, rappresentato dai talebani del Mullah Omar e da al-Qaeda, la pacificazione del Paese e l’inizio di un processo di democracy building. In estrema sintesi, si può dire che l’Onu e l’Alleanza atlantica prevedevano di realizzare due categorie di obiettivi: da una parte chiudendo un lungo periodo di guerra, iniziata ancora con l’invasione sovietica nel 1979 e che, per vent’anni, aveva falciato la popolazione locale, dall’altra creare un Afghanistan politicamente stabile e amico, che fungesse da cuscinetto in un contesto centro-asiatico ricco di tensioni.
Bisogna ricordare che la International security assistance force (Isaf) è una missione di supporto al governo dell’Afghanistan, operativa sulla base di della risoluzione n. 1386 del 20 dicembre 2001, del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Durante i primi due anni di attività, l’Isaf si è limitata a controllare l’area limitrofa a Kabul. La gestione della sicurezza nel resto del territorio nazionale è stato affidato fin da subito al ricostituito esercito nazionale afghano. Il 13 ottobre 2003, viste le condizioni ingestibili del teatro di guerra, il Consiglio di Sicurezza ha deciso per estendere il mandato Isaf al resto del Paese. Da quel momento, i singoli governi nazionali hanno impegnato i propri contingenti, affiancandoli a quello Usa già presente in Afghanistan con la sua operazione “Enduring freedom”. Nel frattempo è stata chiamata in causa anche la Nato e le è stato affidato il compito di ricostruzione del territorio, sulla base della vecchia suddivisione amministrativo-provinciale. Attualmente in Afghanistan sono presenti 120 mila uomini in uniforme, in rappresentanza di oltre 40 Paesi.
In termini politici, l’Amministrazione Bush mirava a vendicare l’11 settembre 2001. In questo modo avrebbe ottenuto una vittoria sul terrorismo jihadista. Vittoria che Bill Clinton si era lasciato sfuggire negli anni Novanta. Dopo averne sottovalutato le potenzialità, Washington si mosse spavaldamente, sicura di sottomettere l’organizzazione terroristica controllata da Osama bin Laden. Contestualmente, gli Usa sapevano che, entrando a Kabul, avrebbero guadagnato una posizione strategica per quanto riguarda gli interessi geopolitici ed energetici della regione. Nel quadro della geopolitica post guerra fredda, essere in Afghanistan significa poter osservare da una poltrona di prima fila sia gli affari interni iraniani, sia il Pakistan, come pure l’India. Vuol dire inoltre essere vicini alla Russia. Il Paese centro asiatico, infine, se fosse pacificato sarebbe attraversato da una complessa rete di pipeline per la distribuzione delle risorse di idrocarburi, dalle ex repubbliche sovietiche verso gli scali portuali dell’Oceano indiano. Questi obiettivi di ampio respiro vennero studiati al dettaglio dagli analisti del Dipartimento di Stato e delle agenzie di intelligence Usa. Washington si convinse di poter realizzare unilateralmente – ma comunque con una sorta di placet da parte della comunità internazionale – questo progetto tanto ambizioso. Si sentì in diritto di non andare a sfogliare un qualsiasi libro di storia, per capire come muoversi e quali errori fossero già stati commessi dall’Impero britannico nell’Ottocento e dall’Unione sovietica negli anni Ottanta. Nell’autunno del 2001, furono molte le voci pessimistiche che ammonirono la Casa Bianca del pericolo che anche le sue truppe ultra tecnologiche Usa potessero affondare nel ginepraio afghano. George Bush, insieme al suo staff, non volle sentire ragione. Gli Usa avrebbero combattuto una crociata contro il terrorismo e, in una campagna di guerra di breve durata, avrebbero vinto sia sul nemico jihadista, sia sulle Cassandre che, prevalentemente dalla vecchia Europa, cercarono di evitare che il conflitto prendesse la piega che, purtroppo, le è propria tuttora.
Dopo nove anni di conflitto, è difficile pensare che l’operazione di peacekeeping potrà concludersi con un successo. Allo stato dell’arte, anche se gli eserciti stranieri riuscissero a ritirarsi entro il prossimo biennio e se, per assurdo, il governo di Kabul fosse in grado di amministrare autonomamente il Paese, il bilancio del conflitto sarebbe comunque negativo. Nove anni, più i prossimi due fanno undici. Troppi per un impegno militare mirato alla pacificazione di una nazione.
Al di là di questo incontestabile dato negativo, gli osservatori internazionali stanno cercando di capire cosa sia andato storto e come si potrebbe rimediare in questa guerra drammatica dalla quale sembra che la Nato non sappia come uscire. Un altro fattore è certo. L’Occidente non potrà smobilitare senza che prima non abbia ottenuto almeno una parte di risultati concreti.
Le cause del fallimento sono da classificare prevalentemente come metodologiche. Abbiamo detto che gli Usa partirono con il piede sbagliato, sottovalutando le sconfitte subite in passato da Londra e Mosca. In realtà non attribuirono il valido peso alle capacità di combattimento delle forze talebane e delle tribù locali. Per la verità il semplice fatto che in Afghanistan lo sport nazionale, il buzkashi, consiste in una competizione a cavallo per spartirsi la carcassa di un montone – senza che ci siano né squadre né regole – avrebbe dovuto suggerire molto agli strateghi del Pentagono. È difficile sradicare dall’Asia centrale la cultura della guerra e il valore che viene attribuito a ogni individuo in qualità di potenziale guerriero. Questo è il contesto sociale in cui stiamo combattendo e delle cui caratteristiche avrebbero dovuto rendersi conto gli Usa prima di iniziare le operazioni militari.
In nove anni, peraltro, l’identità del nemico è mutata più volte. I gruppi talebani che si tendeva a identificare con al-Qaeda si sono smembrati. Alcuni hanno deciso di venire a patti con il governo di Kabul. Altri lo stanno facendo ora. Almeno così dice il presidente afghano, Hamid Karzai. Le frange più intransigenti, che fanno capo al mullah Omar e delle quali il clan degli Haqqani rappresenta la punta di diamante, sembrano non nutrire alcun interesse a negoziare con noi. Possiamo biasimarli? No, i talebani – purtroppo per l’Occidente – stanno vincendo. È nella natura della guerra non volere la pace se si è nelle condizioni di maggiore forza. D’altro canto il fondamentalismo islamico che ispira gli studenti talebani sta perseguendo una lotta che è solo parallela con il jihadismo promosso da al-Qaeda. È improprio infatti pensare che se ce ne andassimo dall’Afghanistan, le prime vittime degli attentati terroristici sarebbero le città di tutta Europa. Il mullah Omar e bin Laden si appoggiano vicendevolmente. Ma questo non significa che ambiscano allo stesso ideale. Sono fratelli in armi, che condividono la trincea e hanno un comune nemico. Tuttavia, la galassia talebana appare sempre più concentrata sull’intenzione di conquistare nuovamente Kabul. Mentre al-Qaeda è proiettata a realizzare un piano di portata globale. Non è un caso che le sue cellule più attive siano rintracciabili nel nord Africa e non nell’Asia centrale. Il nemico che stiamo combattendo è ulteriormente frammentato, se osserviamo che l’Afghanistan è anche il cuore del narcotraffico, oltre che di nuclei di criminalità organizzata, i quali approfittano dell’instabilità del Paese combattere le proprie guerre private.
Altrettanto importante è il contributo delle forze esterne, interessate, com’è per al-Qaeda, a tenere sotto pressione Washington e suoi alleati occidentali. In questo senso il primo pensiero va al Pakistan, dove alcuni centri di potere si pensa che siano collusi con i talebani oltre frontiera. Del resto, la spirale di violenze in cui è piombato il “Paese dei puri” è la conferma di queste pesanti supposizioni. Da qui è generata la tendenza a parlare di “Af-pak war”. Sulla carta, poi, si è pensato che l’Iran non avesse alcun rapporto con la lotta di questi gruppi di studenti di confessione sunnita. Il regime degli Ayatollah, tuttavia – per quanto resti l’epicentro dello sciismo – si vanta di essere l’acerrimo nemico degli Usa. È naturale che per Teheran il conflitto d’oltrefrontiera sia un’opportunità per tenere sotto scacco l’avversario.
Tutto questo è stato gestito dagli Usa sulla base di una strategia in continuo cambiamento. Isaf e Nato hanno pagato lo scotto di una scarsa conoscenza del territorio e del nemico. Alla fine del 2001, il Segretario alla Difesa Usa, Donald Rumsfeld, era convinto di poter condurre e vincere una blitzkrieg di nuova generazione, impostata sulle avveniristiche capacità tecnologiche e digitali del suo esercito. Con amara ironia va ricordato lo stupore quando al Pentagono seppero che per stanare i talebani sarebbero stato più utili i muli e la fanteria leggera, piuttosto che i carri armati. Dalla guerra su vasta scala si passò quindi alle tattiche anti guerriglia: unità militari di dimensioni ridotte, disseminate in modo capillare su tutto il territorio. L’immediata conseguenza di questa iniziativa fu la sbriciolatura delle forze e l’occasione per i talebani di colpire i singoli fortini oppure le pattuglie in perlustrazione. Lo scorso anno il generale Stanley McChrystal, allora comandante Isaf, chiese a Obama un contributo di 30mila uomini in più da impegnare nel teatro operativo. L’idea del four star general era quella di incrementare così tanto la presenza militare occidentale che i talebani sarebbero stati costretti a soccombere. La Casa Bianca, dopo un lungo tergiversare, diede il suo ok. La surge di McCrystal però non ebbe successo. Per la sua realizzazione sarebbe stato necessario che anche il governo di Kabul desse il suo contributo. Ma Karzai, in sette anni di presidenza, si è rivelato più un ostacolo politico alla Nato che un affidabile partner locale. Il generale Usa è successivamente caduto in disgrazia per una palese incapacità di collaborare con il suo comandante in capo a Washington. Adesso si attende che David Petraues trovi una soluzione. Egli stesso però, nemmeno tre mesi fa, al momento di subentrare alla guida dell’Isaf, ha messo le mani avanti e ha sottolineato che una surge per l’Afghanistan richiederà ancora tanti anni di impegno militare.
Il bilancio del conflitto, di conseguenza, appare ancora più negativo. L’Occidente sta combattendo da nove anni una guerra che era iniziata con un obiettivo. Quest’ultimo si è trasformato nel corso degli eventi. La lotta al terrorismo ha assunti i tratti più modesti di pacificazione del Paese. Per questa è comunque necessario l’appoggio delle istituzioni locali. Il contributo di Kabul, tuttavia, è insufficiente. Siamo all’exit strategy allora? Così sembrerebbe. Speriamo che Obama sia consapevole che ritirarsi nei prossimi anni, senza che un risultato concreto sia stato raggiunto, significa compromettere la capacità di influenza che gli Usa ambiscono ad avere in Asia centrale.
Pubblicato su liberal del 13 ottobre 2010