Come se non fosse successo nulla

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di ANTONIO PICASSO

La crisi fra Israele e Stati Uniti sembra essere rientrata. Ieri mattina il Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, ha negato che la questione degli insediamenti israeliani intorno a Gerusalemme Est sia stata la causa di una frattura diplomatica fra i due governi. Poche ore dopo, il Presidente israeliano, Shimon Peres, dichiarava: “Gli Stati Uniti sono un amico per Israele che nutre un profondo rispetto per le istituzioni di Washington guidate dal Presidente Obama. Viste così le due dichiarazione fanno pensare che il tornado diplomatico di questi ultimi dieci giorni altro non sia stato che una bolla speculativa, volta a rilanciare l’attenzione mediatica sul processo di pace. Una sorta di carotaggio politico inscenato per capire quali siano i punti critici per ciascuna delle parti in causa.

Agli atti però restano la rovinosa visita del vice Presidente Usa, Joe Biden, la scorsa settimana nella regione, durante la quale il Ministro dell’Interno israeliano, Eli Yishai – esponente del partito religioso Shas – ha firmato il decreto per la realizzazione di un altro insediamento fuori Gerusalemme, in una zona rivendicata dai palestinesi. Una scelta, questa, che ha esacerbato gli animi della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato. È probabile però che lo stesso Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu – realista com’è – si sia sentito in imbarazzo per l’avventatezza del suo collega. A tutto questo è seguito un confronto-scontro che, secondo il Washington Post, ci sarebbe stato fra Netanyahu e la Clinton sulle condizioni di pace alle quali gli israeliani dovrebbero sottostare. Tre quarti d’ora di telefonata in cui Hillary Clinton avrebbe sfoderato la sua proverbiale grinta per convincere Israele a mettere uno stop alla sua politica espansionistica.

Nel contesto sempre ieri anche il Ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, ha chiesto a Israele di non ostacolare il processo di pace. Come immediata conseguenza all’inflessibilità degli Usa, si è avuta la dichiarazione del Ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, che ha definito “irragionevoli” le motivazioni avanzate da Washington. Quest’ultima però ha reagito in modo ancora più concreto, cancellando la visita dell’inviato speciale della Casa Bianca, George Mitchell, prevista in questi giorni. Gli Usa in questo modo hanno fatto capire che, se vogliono, possono abbandonare Israele a se stessa, affinché si occupi dei rapporti con il mondo arabo che la circonda senza la protezione dall’esterno della Casa Bianca. Ma queste minacce valgono il tempo che trovano. Dopo lo scambio di provocazioni, dalle dichiarazioni della Clinton e di Peres ieri traspariva la sensazione che tutto fosse rientrato nella normalità. Anzi, sembrava che non fosse accaduto nulla. Il fatto che Washington abbia minimizzato la crisi fa pensare che entrambi i governi vogliano evitare di mostrare una così profonda e reciproca incomprensione di fronte alla Lega Araba e all’Iran, i quali potrebbero approfittare della crisi per rinforzarsi e avanzare condizioni molto più onerose.

D’altra parte, è possibile che ci sia stato anche un reale punto di incontro fra i due governi. Da come sembra, la Casa Bianca è orientata sulla strada del confronto diplomatico con l’Iran, in merito al nucleare. Questa opzione è stata più volte contestata da Israele. Plausibile quindi pensare che Washington preferisca assumere un atteggiamento soft riguardo agli insediamenti dei coloni, al fine di avere la strada libera nei negoziati con Teheran. C’è poi la spaccatura interna all’Autorità Palestinese tra Fatah e Hamas, che gioca tutta in vantaggio di Israele. Per questo gli Usa hanno le mani legate e solo la Lega Araba potrebbe risolvere il problema. Infine non vanno sottovalutati gli scontri di questi ultimi giorni fra la Polizia di Gerusalemme e i manifestanti palestinesi. Washington può aver avuto paura di una terza Intifadah, o di una guerra. Simili calamità porterebbero le lancette dell’orologio del processo di pace indietro di una decina di anni. In tal caso l’Amministrazione Obama – la cui politica mediorientale finora si è rivelata del tutto fallimentare – perderebbe anche la possibilità di mantenere aperto il dialogo con i palestinesi e con il resto del mondo arabo.

Pubblicato su liberal del 18 marzo 2010

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