Aprile mese delle richiusure: Draghi e Speranza vendono la proroga del lockdown come riapertura delle scuole

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Bisogna ammetterlo, Mario Draghi e il suo staff si stanno dimostrando abilissimi nel preparare le conferenze stampa, nello spin doctoring. Lo schema resta quello del Conte 2, ma complice una stampa accondiscendente, riescono a nasconderlo bene, senza scadere nelle trovate fuori luogo del duo Giuseppi-Casalino. La sostanza, però, non cambia, anzi peggiora.

Mentre scriviamo non conosciamo ancora prime pagine e titoli dei servizi di oggi, ma a giudicare da quanto abbiamo letto ieri pomeriggio, il presidente del Consiglio è riuscito nell’intento di occultare la cattiva notizia (zone rosse e arancioni prolungate fino a tutto aprile) con una buona notizia (riaprono dopo Pasqua materne, elementari e prima media anche nelle zone rosse). Buona notizia che però, come vedremo, da una parte non è un passo avanti rispetto alla situazione di inizio marzo, e dall’altra era una decisione praticamente dovuta per una pronuncia del Tar del Lazio. Ma ci arriveremo.

In pratica, c’era da comunicare la proroga fino al 30 aprile delle attuali restrizioni, che erano in scadenza il 6 aprile (quindi ben 24 giorni in più). Il Paese resterà chiuso, con Regioni in arancione rafforzato o rosso, le cui differenze sono minime. Di fatto, abolizione della zona gialla e sospensione del sistema a zone colorate, su cui si era puntato per dare certezze a cittadini e imprese. Tornerà la zona gialla per l’estate, come qualcuno ipotizza? Nel caso, vorrà dire che la trascorreremo più chiusi dell’estate dello scorso anno.

Ebbene, a inizio conferenza stampa, Draghi ha giocato il ruolo del “poliziotto buono” che era di Giuseppi, annunciando la decisione di riaprire le scuole (fino alla prima media) anche nelle zone rosse, lasciando ai “poliziotti cattivi” designati, il ministro Speranza e la “cabina di regia” – ma parecchie domande più avanti – porgere l’amaro calice, appunto la proroga delle chiusure.

E questo dopo che solo pochi giorni fa lo stesso Draghi aveva parlato alle Camere di riaperture dopo Pasqua, diffondendo un ottimismo che aveva portato il leader della Lega Salvini a definire aprile il mese delle riaperture. Praticamente nelle stesse ore, la solita “cabina di regia” decideva che invece sarebbe stato il mese delle richiusure, mantenendo l’attuale schema di restrizioni fino al 30.

Quindi, anche a livello comunicativo, siamo in pieno schema bastone e carota (fasulla) Conte-Casalino… Hanno eliminato la zona gialla, saremo arancioni o rossi per tutto aprile, però con lo zuccherino della riapertura di materne, elementari e persino prima media. E se lo sono giocato bene, Draghi e Speranza, lasciando intendere un trade-off inattaccabile: non potendo riaprire tutto, tra le scuole e le altre attività abbiamo scelto le prime (“ci consentiamo di spendere questo piccolissimo tesoretto sulla scuola”). Una scelta a prima vista ragionevole, chi potrebbe mai obiettare?

Peccato che si tratti di un falso trade-off, di una illusione ottica. Materne ed elementari erano rimaste sempre aperte prima di marzo, non c’è una riapertura in più, nessun reale passo avanti. Quella fatta passare per una ragionevole concessione, per una nuova “conquista”, è in realtà la situazione in cui ci trovavamo prima della ulteriore stretta voluta proprio dal Governo Draghi (e immotivata, dato che nella popolazione scolastica non si sono mai registrate situazioni di contagio superiori alla media).

E guarda caso, l’annuncio della riapertura delle scuole fino alla prima media arrivava pochi minuti prima – che tempismo! – di una pronuncia del Tar del Lazio in cui si ordina alla Presidenza del Consiglio dei ministri di riesaminare entro il 2 aprile il Dpcm del 2 marzo scorso nella parte in cui prevede l’automatica chiusura di tutte le scuole di ogni ordine e grado nelle zone rosse, alla luce della cospicua documentazione prodotta in giudizio da numerosi genitori di studenti ricorrenti, rappresentati da Valerio Onida e Barbara Randazzo.

La Presidenza del Consiglio dei ministri, scrivono i giudici, deve rivedere “con un provvedimento specificamente motivato” il Dpcm del 2 marzo scorso nella parte in cui prevede la sospensione automatica della didattica in presenza delle scuole di ogni ordine e grado nei territori compresi nelle cosiddette “aree rosse”. Il Dpcm impugnato, si legge nelle ordinanze, richiama verbali del Cts da cui “non emergono indicazioni specifiche ostative alla riapertura delle scuole”. Lo stesso Cts “non sembra aver valutato la possibilità, nelle ‘zone rosse’, di disporre la sospensione delle attività didattiche solo per aree territoriali circoscritte, in ragione del possibile andamento diversificato dell’epidemia nella regione”; né “si evince in che modo e in quale sede” i dati forniti dall’Istituto superiore di sanità e dalla Fondazione Bruno Kessler siano stati analizzati ed interpretati. In sostanza, conclude il Tar, “le previsioni del Dpcm del 2 marzo non appaiono supportate da una adeguata istruttoria” e “in tal senso si apprezzano profili di fondatezza dei motivi aggiunti depositati da parte ricorrente”. Rilievi simili a quelli di altri Tar che hanno sospeso o annullato ordinanze regionali di chiusura delle scuole.

Insomma, questo ricorso punta dritto al cuore dell’intera gestione dell’emergenza Covid e il Tar del Lazio sembra riconoscerne la fondatezza. Nella fattispecie si parla di scuola, ma il rilievo vale per ogni attività di cui è stata imposta la chiusura. Atti amministrativi, o anche legislativi, che limitano diritti e libertà fondamentali senza il supporto di evidenze scientifiche e solide correlazioni causa-effetto sono viziati da mancanza di ragionevolezza e proporzionalità, due requisiti che dovrebbero sempre essere soddisfatti, come segnaliamo da mesi su Atlantico Quotidiano. Invece, i governi, l’attuale come il precedente, citano genericamente “i dati” dei contagi – e a volte dati che indicano persino un miglioramento – ma non portano nulla di specifico in grado di provare la ragionevolezza e la proporzionalità delle restrizioni rispetto alla situazione. Per un motivo assai banale: non hanno in mano alcuno studio che dimostri quali attività siano fonte di contagio, sembrano decidere “a sensazione”, o in ogni caso non l’hanno prodotto.

A conferenza stampa ancora in corso, le agenzie rilanciavano le dichiarazioni perentorie di Matteo Salvini: “È impensabile tenere chiusa l’Italia anche per tutto il mese di aprile”. Dal 7 aprile, almeno nelle regioni e nelle città in cui la situazione è sotto controllo, si riaprano le attività. “Qualunque proposta in Consiglio dei ministri e in Parlamento avrà l’ok della Lega solo se prevederà un graduale e sicuro ritorno alla vita”. Riportata a Draghi dai giornalisti presenti, il premier ha liquidato il leader della Lega con un mezzo sorriso: “Le chiusure sono pensabili o impensabili solo sulla base dei dati che vediamo… Certo, riaprire è desiderabile”.

Se sul ministro Speranza non avevamo particolari aspettative, il grado di approssimazione dimostrato dal presidente del Consiglio nel motivare, o meglio nel non motivare, la proroga delle restrizioni è del tutto simile a quello del suo predecessore, il che è allarmante, perché fa supporre che sia disinteressato o mal informato riguardo gli aspetti epidemiologici e “tecnici” che sono alla base delle decisioni. Carta bianca agli “esperti”, insomma, mentre il potere politico dovrebbe operare un bilanciamento tra i diversi diritti e interessi in gioco. Non esiste solo la salute, esistono anche il lavoro e l’istruzione. E la tutela della salute, come dimostrano l’aumento dei disturbi nei ragazzi o l’impennata delle vittime per altre patologie trascurate, non si esaurisce nel limitare il contagio da Covid – ammesso e non concesso che chiusure non supportate da evidenze lo limitino davvero.

Draghi e Speranza hanno anche rivendicato, non contraddetti, che “le decisioni prese nell’ultima cabina di regia hanno portato a una diminuzione nel tasso di crescita dei contagi”. Affermazione falsa, dato che come facilmente verificabile, la curva si stava già appiattendo in quegli stessi giorni in cui la stretta veniva decisa.

Sul fronte dei sostegni economici, il premier ha annunciato che “si deciderà entro metà aprile” sul nuovo scostamento di bilancio, il primo del Governo Draghi. E sarà un momento della verità per capire se almeno su questo ci sarà un cambio di passo (e in quale senso di marcia).

Durante la conferenza stampa sono stati sollevati anche i temi discussi al Consiglio europeo e anche su questi il presidente Draghi è apparso sgusciante, ambiguo. Prima è tornato ad attaccare duramente AstraZeneca, pur senza nominarla: “Si ha l’impressione che alcune società, per non fare nomi, si siano vendute le cose due o tre volte”. Ma se è così – e può darsi – facciano causa, invece di bloccare unilateralmente le dosi destinate ad altri clienti a cui (ben prima che all’Ue) sono state vendute. Poi, di fronte all’ipotesi di “aspettare gli avvocati”, ha risposto che “la cosa migliore è trovare un accordo”.

Il flip-flopping del premier si è ripetuto sul blocco delle esportazioni di dosi prodotte nell’Ue. Prima ha sostenuto con convinzione la stretta decisa da Bruxelles, apprezzando l’allargamento delle ipotesi di blocco. Al mancato rispetto dei contratti da parte dell’azienda farmaceutica sono stati aggiunti i criteri della “reciprocità” e della “proporzionalità” – quest’ultima una pretesa davvero bizzarra dell’Ue, per cui il blocco dell’export può riguardare “un Paese che ha già un alto livello di vaccinati”, come se essere stati più veloci dell’Ue fosse una colpa o una offesa da riparare. Ma poi, Draghi ha ammesso che non se ne esce con i blocchi, “ne usciamo con la produzione di vaccini”, auspicando un’intesa con Londra.

 

Di Federico Punzi Mutuato da ATLANTICO QUOTIDIANO QUI

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