Il rischio di rallentare le riforme – Lo Zibaldone n. 404

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(Luigi La Spina, La Stampa) Per Renzi è l’unica buona notizia di questo inizio d’estate è il calo della disoccupazione, soprattutto quella giovanile, che gli consente di rivendicare gli effetti del tanto contestato Jobs act, nella speranza che i prossimi mesi confermino i risultati positivi di quel provvedimento. Il premier ha proprio bisogno di conforti, perché dovrà fronteggiare una stagione davvero torrida, politicamente parlando. Da un lato, un partito diviso da un’opposizione interna tenace e insidiosa, dall’altro, un cammino parlamentare, specie al Senato, molto periglioso per le prossime sue riforme, dalla scuola a quella costituzionale, dalle unioni civili alla pubblica amministrazione, alla Rai. Il presidente del Consiglio, nonostante la propagandistica soddisfazione esibita dopo il voto regionale, ha avuto la conferma di una regola della politica che non risparmia nessun governante, nemmeno il più dotato di una forte fiducia in se stesso come il nostro: a breve termine, chi governa, perde.

A parte la concessione dei famosi 80 euro ai lavoratori dipendenti, gradita, ma certamente insufficiente a risolvere le loro difficoltà in un periodo di così pesante crisi economica, il tentativo renziano di aggiornare la cultura politica della nostra sinistra e di diversificare i suoi interlocutori privilegiati nella società italiana ha avuto effetti di sconcerto, di irritazione e, persino, di rivolta in molti settori del vecchio ceto di riferimento. Dai sindacati, mortificati dal suo fastidio per i riti della cosiddetta concertazione, da coloro, nel mondo del lavoro, che hanno percepito l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto come un intollerabile attentato ai diritti degli occupati in nome di vaghe promesse ai disoccupati, agli insegnanti, nocciolo duro dell’elettorato di sinistra, preoccupati per il potere affidato ai presidi sulla valutazione della loro attività.

Il travaso di consensi, da destra, che Renzi sperava compensasse la disaffezione, chiamiamola così eufemisticamente, dei tradizionali sostenitori del Pd non è avvenuto perché, sui temi della sicurezza, della riduzione delle tasse, dell’afflusso incontrollato di immigrati, l’efficacia dell’azione governativa è stata avvertita come del tutto insufficiente o, addirittura, nulla. Da ultimo, la sentenza della Corte sulla rivalutazione delle pensioni ha cancellato pure il sogno del cosiddetto tesoretto da distribuire agli italiani. A questo punto, sarà molto forte la tentazione del presidente del Consiglio, nei prossimi mesi, di annacquare le velleità riformistiche nei con-fronti della sinistra più conservatrice, sia per ammorbidire quella opposizione interna del suo partito che, in un Senato dove i numeri sono traballanti, potrebbe impedire il varo di molti provvedimenti del governo, sia per riconquistare, almeno in parte, la fiducia del suo elettorato tradizionale, quello che non si riconosce nei suoi metodi sbrigativi e nelle sue ambizioni modernizzanti.

Nello stesso tempo, Renzi potrebbe essere indotto a dare maggior soddisfazione a un alleato di governo come quello capitanato da Alfano, inquieto per un futuro elettorale assai incerto e sottoposto alle redivive sirene postberlusconiane. Un partito, il Ncd, peraltro essenziale per sostenere un’esile e incerta maggioranza, almeno a palazzo Madama. La direzione di marcia, quindi, sarebbe contraddittoria, a zig-zag, e avrebbe come inevitabile risultato un sostanziale immobilismo governativo. Nonostante le sbandierate intenzioni di proseguire, anzi, di intensificare l’azione riformistica, esibite più che per spaventare gli avversari, per rianimare gli amici dopo l’esito del voto regionale Renzi, così, potrebbe scoprire le virtù della mediazione, del compromesso, della prudenza, aspettando che i sintomi di ripresa della nostra economia facciano sentire finalmente effetti concreti e duraturi nelle tasche degli italiani.

I mercati non si regolano da soli

(Dario Di vico, Corriere) Il tono del governatore Ignazio Visco, che ha parlato al Festival dell’Economia di Trento, è stato perentorio: l’errore principale che abbiamo commesso è stato pensare che il mercato si potesse autoregolare. Se c’è una causa prima della recessione la si può rintracciare nell’eccesso di deregulation finanziaria. <Essa è nata come reazione ai fallimenti dello Stato degli Anni 70 con l’idea che i mercati avrebbero fatto meglio. Questa reazione ne ha sicuramente sviluppato la forza e ha prodotto molta innovazione finanziaria. Quindi in linea teorica la finanza dovrebbe svolgere un ruolo positivo per la società>. <Ma nei fatti così non è stato, e l’innovazione in questo campo ci ha portato solo comportamenti di corte vedute>. In particolare negli Usa si sono illusi che ci sarebbe stato un aumento continuo dei redditi, che le famiglie potessero davvero comprare case all’infinito. <Invece si sono ritrovati con un eccesso di debito privato e da questo errore ne è discesa tutta la filiera della crisi>.

La crisi finanziaria globale non è stata una sconfitta del sistema di troppo libero mercato, ma anche della scienza economica. Come mai gli economisti non sono stati in grado di prevedere una crisi di simili proporzioni, originata da squilibri e vulnerabilità tanto evidenti? <La verità – ha detto Visco – è che non tutte le decisioni politiche sono misurabili quantitativamente e spesso servono decisioni soggettive>. E invece se andiamo a rileggere cosa dicevano nel 2003 i guru di Chicago come Robert Lucas (<la macroeconomia ha avuto successo e rende impossibili le crisi>) o i guru del Mit come Olivier Blanchard ancora nel 2008 (<la macroeconomia è in buono stato>) abbiamo la dimostrazione palmare degli errori perpetrati e di come vi sia bisogno di un profondo ripensamento. <Uno schema formale è indispensabile per progredire nella comprensione del funzionamento di un’economia ma dobbiamo ricordarci che tutte le previsioni sono al condizionale e che non possediamo sfere di cristallo>. E comunque dobbiamo rinunciare a un po’ di efficienza per un po’ di stabilità in più.

Per far fruttare le lezioni del passato non c’è altro da fare che impegnarsi a costruire il futuro che secondo alcuni si presenta come un lungo ristagno. <Io non lo credo, anche se per gli effetti della tecnologia sull’occupazione, penso che si debba guardare alle questioni distributive non solo dal lato dell’equità ma anche della domanda aggregata>. E purtroppo l’Italia non ha il capitale umano richiesto dalla tecnologia di oggi: le statistiche dell’Ocse sono impietose. <Il paradosso è che abbiamo uno scarso stock di capitale umano e si è persa la percezione di quanto valga laurearsi per le scarse differenze di retribuzione tra diplomati e laureati. E’ strano perché quando un bene scarseggia il suo prezzo dovrebbe salire e invece da noi no. La colpa è di un’asimmetria informativa, le imprese non riescono a misurare la qualità e pagano poco i laureati e i singoli di fronte alla prospettiva di stipendi magri non investono sulla loro qualificazione>. Morale: di errori gravi ne stiamo commettendo anche adesso.

Investimento in conoscenza

(Enrico Marro, Corriere) In Italia investire in conoscenza non rende: almeno nel breve periodo. E una delle affermazioni più care al governatore della Banca d’Italia, che da molti armi ha individuato in questo uno dei punti di debolezza del nostro Paese. La crisi economica ha complicato le cose anche su questo fronte. Secondo la relazione di Ignazio Visco <il peggioramento delle condizioni finanziarie delle famiglie e l’aumento delle rette di iscrizione hanno scoraggiato le immatricolazioni> all’università. Studiare costa, anche nel pubblico. E quando, come in questa crisi, le differenze tra ricchi e poveri aumentano, sono questi ultimi a rimetterci anche sulla formazione. Ma pure chi può permettersi, facendo sacrifici, di mandare i figli all’università, spesso deve scegliere: meglio investire sulla laurea, magari in un’università di prestigio, oppure comprare un appartamento col mutuo? Di solito si compie la seconda scelta. Per un vizio culturale (la casa prima di tutto) ma anche perché non si percepisce con evidenza l’interesse ad investire sulla laurea e sul master. È vero, le statistiche dimostrano che i laureati trovano lavoro prima dei diplomati e che hanno pure una retribuzione un po’ più alta. Ma il gioco vale la candela? Da un punto strettamente economico il dubbio è comprensibile. D laureato, a meno che non abbia già un’attività di famiglia dove inserirsi, spesso deve accontentarsi di un lavoro dove basterebbe un diplomato. E comunque deve passare per la solita trafila: tirocinio, assunzione a termine e alla fine uno stipendio che, appunto, difficilmente gli consentirà di comprarsi casa senza l’aiuto di mamma e papà. I più bravi o i più disperati vanno all’estero dove c’è mediamente più meritocrazia e gli stipendi sono più alti. In Italia, purtroppo, la curva retributiva del lavoro dipendente è ancora quella del secolo scorso: la busta paga sale con l’età per raggiungere il massimo prima della pensione, quando in realtà le esigenze di spesa sono diminuite e si finisce appunto per dare ma mano a figli e nipoti che altrimenti da soli non ce la farebbero mai.

I trucchi del capitale

(Mario Deaglio, La Stampa) Fra gli arresti di “Mafia capitale” e le sanzioni – per complessivi 12,5 miliardi di dollari – comminate da un tribunale canadese a tre multinazionali del tabacco (per aver occultato gli effetti nocivi del fumo), corre un sottile filo rosso. Unisce altri arresti recenti in Italia, quelli per manipolazione delle partite in Lega Pro e in Serie B, i 5,6 miliardi di multa patteggiati da sei grandi banche internazionali per aver manipolato le quotazioni dei mercati mondiali dei cambi, l’inchiesta sulle tangenti Fifa per i campionati mondiali di calcio e tanto altro ancora. Questo filo sottile che avvolge sia affari di quartiere sia affari del pianeta, si chiama disonestà: dobbiamo riconoscere che una disonestà diffusa e persistente caratterizza l’attuale fase del capitalismo globale. Visti in questa luce, gli avvenimenti italiani appaiono come varianti di un fenomeno molto più generale. Il che, naturalmente, non ne sminuisce la portata, anzi, la aumenta perché in Italia la disonestà diffusa ha contribuito potentemente a determinare una crisi più grave che in altri Paesi. Le conversazioni in romanesco sboccato tra gli indagati della cupola mafiosa romana fanno il paio con gli scambi di posta elettronica, in gergo finanziario inglese, che compaiono in molte inchieste internazionali.

La disonestà è divenuta normale. Il tasso Libor, cardine delle contrattazioni finanziarie internazionali, il prezzo dell’oro e quello del petrolio sono tutti stati manipolati per anni, così come la spesa pubblica italiana è stata per anni gonfiata da pratiche come quelle che stanno venendo alla luce a Roma e altrove. In molti Paesi le autorità inquirenti accettano il patteggiamento, ossia il pagamento di multe gigantesche, lasciando al loro posto i vertici delle istituzioni che hanno operato in maniera scorretta, e che considerano queste multe poco più che normali incidenti di percorso. In realtà non si tratta di incidenti di percorso, ma di un modo disastroso di percorrere la strada della crescita, una crescita che dovrebbe portare a un benessere diffuso sul pianeta e che è stata invece distorta e, nel caso italiano, soffocata. Secondo le forme più accentuate di liberismo, il mercato “si pulisce da solo” e richiede poche regole trasparenti, il minore intervento possibile di regolatori esterni, per dare risultati della massima efficienza. L’evidenza empirica dice che, al contrario, le cose non stanno così: se non esiste una moralità pubblica condivisa tra i partecipanti al mercato, come invece succedeva abbastanza frequentemente nel capitalismo europeo classico, il mercato stesso tende a deteriorarsi, a divenire rapidamente instabile, ad accentuare le diseguaglianze, a dare risultati perversi.

La premessa del mercato liberista è l’esistenza di un campo da gioco pianeggiante, senza posizioni di vantaggio, con regole uniformi, informazioni note a tutti, trasparenza sulle operazioni che vi si compiono. I campi da gioco dell’attuale economia globale sono invece sempre meno pianeggianti: non fanno emergere i più bravi ed efficienti, bensì gli amici degli amici, che si tratti di commesse pubbliche romane oppure di operazioni finanziarie internazionali di prima grandezza. Non si ricerca alcuna forma di benessere comune, ma il perpetuarsi di posizioni di vantaggio individuali o di gruppo, di diritti acquisiti che automaticamente penalizzano chi questi diritti non li ha e, senza un cambiamento delle regole, non potrà mai averli. Finché dura questa situazione, il superamento della crisi mondiale è tutt’altro che garantito. L’Italia, esempio di prim’ordine della disonestà globale, sta finalmente rimbalzando dall’inferno congiunturale in cui era precipitata, ha fatto progressi lusinghieri, ma è ancora lontana da una crescita sufficiente.

Si parla molto di riforme. In una società di mercato, la vera riforma è quella dei mercati, intesi, in senso lato: deve andare nel senso dell’uguaglianza di opportunità, oggi invece sempre più carente. Una regolazione dei mercati dall’esterno, con nuove modalità della spesa pubblica e delle transazioni finanziarie private, è fondamentale ma non sembra un elemento essenziale dei programmi di alcun governo dei Paesi avanzati. A livello internazionale, e in particolare europeo, c’è un’azione contro i «paradisi fiscali» (verso i quali erano diretti in parte anche i soldi della mafia romana). L’Europa resta però impantanata nel debito greco, diventata ingestibile precisamente per l’assenza di trasparenza; così come l’Italia si trova impantanata nella vicenda del Centro Accoglienza di Mineo. Il grande episodio europeo e il (non tanto) piccolo episodio siciliano segnalano la medesima carenza di fondo alla quale, per ora, non si pone rimedio.

Lo Stato vittima e complice

(Alberto Mingardi, La Stampa) Mafia Capitale sta tutta in un’intercettazione di Salvatore Buzzi. <La mucca tu la devi mungere, però gli devi dar da mangiare>. Metafora leggermente imperfetta: a mangiare, più che la mucca (lo Stato), sono i pastori (la classe politica e amministrativa). Ma ci siamo capiti. Parlando ai Giovani Industriali, il presidente dell’autorità anti-corruzione Raffaele Cantone ha detto che <la classe imprenditoriale italiana si nasconde dietro la corruzione per creare un sistema anti concorrenziale>. Per fortuna la classe imprenditoriale italiana è anche e soprattutto altro: una galassia di aziende (piccole, medie, grandi) che giorno dopo giorno lottano per guadagnarsi la fiducia dei consumatori. E tuttavia, non c’è dubbio che se a qualcuno viene garantita una rendita di posizione, farà quanto possibile per mungerla fino in fondo. La concorrenza è faticosa, dura, perennemente incerta. Dedicarsi alla mucca è tanto più facile.

Torniamo a un’altra intercettazione di Salvatore Buzzi, formidabile teorico del sistema, uscita sui giornali qualche mese fa. <Con gli immigrati si guadagna più che con la droga>. Sottinteso: la droga è un mercato concorrenziale. Esistono multinazionali della droga così come artigiani dello spaccio. I clienti sono fedeli fino a un certo punto. Prezzi più bassi o prodotti nuovi possono convincerli a cambiare fornitore. Che fatica. Il mondo di mezzo funziona in un’altra maniera, una maniera che conosciamo sin troppo bene. E’ un mondo più semplice. La classe politica ha a disposizione risorse (che ha prelevato dai nostri redditi con le tasse) per svolgere tutta una serie di funzioni. Le può svolgere attraverso organizzazioni sottoposte direttamente al suo controllo: la burocrazia, nelle sue diverse articolazioni. O le può svolgere facendo ricorso ai privati. Questo accade non perché la pubblica amministrazione abbia sperimentato negli ultimi anni una svolta liberista. Almeno in Italia, lo Stato non ha esternalizzato per sudditanza psicologica nei confronti del privato.

Semmai è vero il contrario. La classe politica ha stabilito di essere il miglior fornitore possibile di tutta una serie di servizi. Ha dovuto coinvolgere i privati semplicemente per stare al passo delle sue promesse. Questi privati stabiliscono col settore pubblico un rapporto perverso. Non vendono prodotti che il consumatore può portarsi a casa o lasciare sugli scaffali. La vita o la morte delle loro imprese è appesa alle decisioni discrezionali di pochissime persone, che peraltro spendono denaro non loro. La loro priorità diventa allora convincere quelle persone a spendere a loro vantaggio i quattrini del contribuente. Di soluzioni semplici non ne esistono. Non è immaginabile che lo Stato faccia, in house, tutti i servizi che è andato monopolizzando con gli anni. E nemmeno si può pensare che bastino più controlli e più controllori. E’ difficile sostenere che l’Italia sia un Paese in cui mancano le norme per sanzionare certi comportamenti. Ciò che si potrebbe fare è di automatizzare quanto più possibile i processi: se un’autorizzazione me la dà un essere umano in carne ed ossa, gli posso allungare una bustarella. Mentre invece i computer pare siano impermeabili a queste lusinghe. Riducendo gli spazi di discrezionalità dei decisori, le regole somigliano di più ai computer: non ammettono eccezioni.

Bisognerebbe soprattutto far dimagrire la mucca: che dia latte solo quando assolutamente necessario. L’accoglienza agli immigrati è probabilmente una funzione pubblica insopprimibile. Si può però provare a ridurre l’intermediazione. Anziché dare i soldi a chi poi dà da mangiare agli immigrati, tanto varrebbe darli all’immigrato che poi provveda a nutrirsi come vuole. Piuttosto che affittare le case per i richiedenti asilo, si potrebbe dar loro un voucher per scegliersi il padrone di casa che preferiscono. Tante altre funzioni pubbliche non è affatto detto debbano essere tali. Il mondo dimezzo si è abituato a rifornirsi alla mangiatoia in cinquant’anni di para-Stato. Per fargli passare l’abitudine, bisogna restringere il perimetro pubblico: lo spazio in cui quel sistema anticoncorrenziale di cui parla Cantone mette radici, si sviluppa, prospera.

Profitti senza lavoro nell’era digitale

(Roberto Sommella, Corriere) Per uscire dallo sboom economico europeo occorre interrogarsi sugli effetti che la Terza rivoluzione industriale, quella che ha prodotto la Rete nel Vecchio continente. L’economia digitale, oltre a mutare i rapporti di forza tra lavoro e capitale, ha infatti trasformato anche lo stesso principio di ricchezza, divenuto intangibile e meno controllabile, consistendo in larga parte in flussi informativi cui si collegano quelli finanziari. È in corso una dematerializzazione non solo dei beni, quali i derivati finanziari, i servizi a famiglie e imprese o i dati di chi naviga su Internet, ma degli stessi proventi che giungono dall’utilizzo del web. Durante l’eurocrisi, a fronte di un’economia reale che a livello mondiale è cresciuta nel 2012 del 3,2% rispetto all’anno precedente, quella internettiana ha presentato un incremento del 5,2%, giungendo a coprire quasi il 6% del Pil mondiale. In Europa il tasso medio di crescita del Pil è stato dello 0,6% ma il peso dell’economia digitale è giunto al 6,8% della ricchezza comunitaria. E in Italia non è andata diversamente: sempre nello stesso arco di tempo, nel nostro Paese l’economia reale è calata del 2,4%, mentre il web market ha coperto il 4,9% del Pil nazionale con un valore di quasi 69 miliardi di euro. Secondo i dati Ocse, fino al 13% del valore generato dalle aziende potrebbe essere attribuito alle virtù taumaturgiche della rete, mentre il settore ha assorbito il 50% di tutte le operazioni di venture capital già nel 2011.

Accontentarsi quindi nel 2015 di una crescita europea di poco più dell’1% significa in sostanza mettere in conto la saturazione di un intero sistema, perché chi può spendere non incrementa le sue spese e chi non ha questa possibilità è ormai fuori dall’area dei consumi: alla marea dei senza lavoro dovranno quindi pensarci i governi con i loro claudicanti sistemi di welfare piuttosto che le imprese. E due considerazioni dimostrano la distonia che esiste in questa fase tra Europa e Stati Uniti. In primo luogo, nell’Ue si registra un aumento consistente delle persone a rischio povertà o di esclusione sociale. Per Eurostat, il dato medio di questo esercito sulla popolazione complessiva comunitaria è salito dal 24,3 del 2011 al 24,5% del 2013 nell’Ue, con picchi in Portogallo (27,5% contro il 24,9% del 2011), Spagna (27,3% contro 24,7%), Italia (28,4% contro 24,7%), Irlanda (29,5% contro 25,7%), Grecia (35,7% contro 27,6%). Persino nel Regno Unito, che cresce meglio di tanti altri Paesi, le persone che stanno cadendo nel baratro dell’inconsistenza reddituale sono passate dal 22% del totale al 24,8%. Fatta eccezione per Francia, Germania e Austria, dove questo indice è pressoché stabile tra il 18 e il 20%, si fa fatica a capire come i consumi possano aumentare quando un europeo su quattro deve essere sostenuto per portare avanti un’esistenza dignitosa non avendo di fatto capacità reddituale. E si spiega così anche il fatto che la Banca centrale europea dia quasi per scontata un’endemica disoccupazione del 10% nel 2017. Servirebbe uno scatto epocale innovativo di cui non se ne vede l’ombra. E non è detto che basti. Anche dall’altra parte dell’oceano proprio la Terza rivoluzione industriale — dopo quella della fabbrica e dei microprocessori — comincia a lasciare sul campo parecchie vittime.

Secondo due ricercatori dell’Università di Oxford, nel giro di una ventina d’anni il 47% dei posti di lavoro rientrerà nella categoria “ad alto rischio”, cioè sarà potenzialmente automatizzabile. E sono in molti a sostenere che questa computerizzazione dei livelli produttivi in futuro comporterà la sostituzione soprattutto dei lavori meno specializzati e a basso salario, mentre quelli più specializzati e ad alto reddito se la caveranno decisamente meglio. Non deve perciò stupire se l’indice S&P 500 della borsa di New York sia salito in un anno del 20% mentre i salari sono cresciuti solo del 2. Gli effetti della dematerializzazione di molti processi industriali negli Stati Uniti e la nuova era di Internet che rende possibile la marginalità a costo zero — tanto decantata da Jeremy Rifkin — alla fine rischiano di mettere ancora più a repentaglio i poveri aumentando invece la solidità dei più ricchi. Un esempio su tutti può spiegare questo fenomeno. Apple quest’anno potrebbe raggiungere quota 88 miliardi di euro di profitti occupando solo 92.600 persone, mentre negli anni Sessanta General Motors raggiungeva i 7 miliardi di dollari di ricavi dando però un salario a oltre 600.000 dipendenti. Questa è la prova che il capitale si è sostituito sempre più al lavoro e che per produrre ricchezza il denaro ha bisogno di meno individui. Ma sono proprio i consumi individuali a far crescere le economie mature come quella europea, che in più non ha ancora del tutto intercettato la rivoluzione del web e forse mai lo farà.

Quando parliamo di ricchi

(Danilo Taino, Corriere) Sentirsi ricchi, va da sé, è una faccenda individuale, ed è un fenomeno slegato dalla ricchezza materiale che si possiede. Altra cosa è la misura della ricchezza stessa. Un conoscente sostiene che si può dire di essere ricchi sul serio quando si può vivere (bene) con il reddito dato dagli interessi degli interessi sul proprio capitale. Fortunatamente è un dibattito che eccita poco e coinvolge tutt’al più chi ricco già si considera. Ma quale può essere il criterio oggettivo per definire la condizione di ricco? Ora possiamo sapere chi fa parte, almeno nei Paesi considerati a maggiore benessere, di quell’ 1 per cento con il reddito più alto: cioè di quella fetta di popolazione contro la quale si mobilita da qualche anno un movimento che dice di rappresentare il 99%.  Il merito di questa chiarificazione è di Branko Milanovic, un economista ex Banca mondiale oggi alla City University di New York: studioso della distribuzione della ricchezza. Utilizzando dati di una organizzazione lussemburghese no-profit che si chiama Lis, Milanovic ha calcolato che reddito deve avere una persona, dopo avere pagato le tasse, per potere entrare nell’ 1% in 25 Paesi. La posizione dell’Italia in questa classifica è al 21° posto ed equivale a un reddito netto di 74.000 dollari (circa 67.000 euro al cambio corrente). Attenzione, però. Il calcolo è stato fatto tenendo conto del costo della vita in ciascun Paese. Inoltre è realizzato sul singolo individuo: una famiglia di quattro persone deve quadruplicare quella cifra per entrare nell’esclusivo club. Quindi, una famiglia italiana di quattro persone per essere ricca deve avere un reddito netto annuale di 268.000 euro, pari a (diviso 12) più di 20.000 euro al mese. Comunque, per completare il quadro: se siete svizzeri, dovete avere un reddito annuo netto individuale di 171.832 dollari: è la soglia più alta tra i 25 Paesi considerati da Milanovic. L’Australia, seconda, è a 157.517 dollari; gli Stati Uniti, terzi, a 151.534. Per fare confronti più vicini — non solo in senso geografico ma anche come modello redistributivo europeo — la Francia è quarta, a 123.760, la Germania è tredicesima a 95.150, la Grecia al 22° posto, subito dopo di noi, con la soglia a 71.769 dollari. La soglia più bassa, al numero 25 della classifica, sono i 46.371 dollari della Polonia.

Il viaggio verso l’ignoto

(Paolo Giordano, Corriere) L’esplorazione delle energie fino a 13 TeV (13 tera- elettrovolts, uno dei quali equivale a 1.000 miliardi di eV), inaugurata il 3 giugno, presso il Cern di Ginevra è stata definita dal direttore Rolf Heuer a mouth-watering prospect, una prospettiva da far venire l’acquolina in bocca. Il Large Hadron Collider(Lhc) venne concepito trent’anni fa (l’idea risale al 1984) proprio con l’intenzione di raggiungere questa scala di energie, quindi si può ben intuire il senso di trionfo, di commozione e di lieve sgomento che pervade nelle ultime ore le migliaia di persone coinvolte. L’evento non è molto diverso dal lancio in orbita di un nuovo veicolo spaziale, meno scenografico forse, perché qui tutto avviene nelle profondità della terra e in uno spazio minuscolo, invisibile agli occhi, ma non molto diverso. Se una sonda spaziale ci permette di visitare regioni inesplorate dello spazio, infatti, aumentare l’energia delle collisioni in un acceleratore come Lhc ci permette di visitare regioni inesplorate del tempo.

L’analogia è ben chiara a tutti i fisici e discende da una formula alquanto semplice. In sostanza: più si aumenta l’energia delle collisioni, più indietro nel tempo ci si spinge, ricreando artificialmente gli istanti fatidici successivi al Big Bang, come se si guadagnasse ogni volta qualche fotogramma di una pellicola che ha filmato l’evoluzione dell’universo dal principio. Nel caso di Lhc, decenni di lavoro, una quantità abnorme di tempo, di energie intellettuali, fisiche ed economiche ci permettono di guadagnare qualche frazione infinitesimale di secondo. Sembra poco, sembra non valerne quasi la pena, ma non è così. Il tempo non ha tutto lo stesso valore nell’evoluzione dell’universo: per i fisici, ci sono forse più misteri cruciali da risolvere nel primo centesimo di secondo preistorico di quanti ce ne siano nei miliardi di anni seguenti.

La fatica che agli scienziati è richiesta per strappare un’altra piccola porzione di passato aumenta esponenzialmente mano a mano che si procede all’indietro, come se il mistero dell’Inizio ci prendesse in giro, o volesse a tutti i costi restare inconoscibile. Ora, il salto dall’energia della prima presa dati di Lhc – 8 TeV, quanto è bastato per rivelare il bosone di Higgs – all’energia attuale servirà, forse, a chiarire di che cosa sia fatto quel 25% di materia del cosmo che non vediamo, non percepiamo, ma sappiamo essere lì (venticinque percento: non proprio un’inezia). E servirà, forse, a svelare per quale meccanismo, dopo una fase brevissima di sostanziale parità, la materia abbia prevalso sulla sua gemella eterozigota, l’antimateria.

L’aspetto inedito, affascinante, di questo nuovo passo è che stavolta non si va a caccia di qualcosa di troppo definito. Il bosone di Higgs, l’ultimo pezzo nel puzzle della fisica standard delle particelle, era lì dove lo si aspettava; adesso si tratta di misurarne meglio le caratteristiche, ma delle energie più alte si conosce poco o nulla, si hanno a disposizione soltanto ipotesi discretamente vaghe, al punto da riassumerle tutte nell’espressione anodina “Nuova Fisica”. Perlopiù, si cercherà di scovare qualche anomalia nei processi. Dopodiché, ammesso di trovarne, si farà di tutto per interpretare quelle anomalie con i vari modelli predisposti dai fisici teorici. È iniziata quindi una specie di peregrinazione in un luogo estraneo e imprevedibile, proprio il genere di attività che agli scienziati fa venire “l’acquolina in bocca”.

Una precisazione importante: 13 TeV non è di per sé un’energia spaventosa. Diviene tale quando è condensata in un volume di spazio ridotto quanto quello delle collisioni a Lhc, tanto da farci ipotizzare che negli scontri si raggiunga la temperatura più alta presente nell’universo attuale. È possibile che in futuro mancheranno i mezzi e la fiducia per realizzare una macchina capace di superare le prestazioni di Lhc, che le collisioni a 13 TeV restino il massimo mai osato dall’ingegno umano, ma i dati a nostra disposizione smentiscono una supposizione del genere. Finora, l’uomo ha sempre trovato il modo di spingersi ancora un po’ oltre – un po’ più lontano nello spazio, un po’ più indietro nel tempo.

Preferenze

(Marzio Breda, La Stampa) Se non gli dai le preferenze, si arrabbiano. Se gliele dai, non le usano. Strani davvero gli elettori italiani, perché in una delle elezioni in cui è più stretto il rapporto elettore-candidato, hanno scelto di non scegliere. Il tasso di preferenze espresse alle ultime Regionali (tenuto conto anche della doppia preferenza di genere, dove prevista) è crollato. Anche nelle regioni del Sud dove – storicamente – c’è un’impennata di voti personali. Uno studio
dell’Istituto Cattaneo dimostra che in Campania il numero delle preferenze espresse è crollato: nel 2005 gli elettori campani che avevano indicato il nome di un consigliere sulla scheda erano il 76,9%, dieci anni dopo il tasso è sceso al 38,6%. In Liguria è passato dal 46,2% al 29%, in Umbria dal 55,7% al 25,7%. Stesso trend per le altre regioni. Tra i partiti, il tasso più alto è nel Pd, il più basso nel M5S. La distanza dalla politica si misura anche da questo.

lorenzo.borla@fastwebnet.it

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