Il buco nero delle Regioni – Lo Zibaldone n. 403

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(Franco Astengo, Circolo Rosselli) Il “buco nero” delle regioni è rappresentato dal fallimento dell’ipotesi di decentramento dello Stato attraverso le Regioni. La nascita delle Regioni, già prevista nella Costituzione e poi fortemente richiesta dalle sinistre, in particolare nella fase del primo centrosinistra negli anni’60, fu fortemente ritardata dalla Dc per timore che il Partito Comunista dimostrasse, in quel modo, la propria capacità di governo, e fu realizzata soltanto all’inizio degli anni’70 (diversa ovviamente la storia delle Regioni a Statuto Speciale): le prime elezioni per i Consigli Regionali si svolsero, infatti, il 7 Giugno del 1970. Gli elementi portanti della crisi attuale sorsero, principalmente, nel corso della legislatura 1996-2001 con il centrosinistra al governo attraverso l’adozione di due provvedimenti rivelatisi del tutto esiziali: l’elezione diretta del Presidente (da allora denominato da una stampa di basso profilo come Governatore) e il cedimento alle istanze “storiche” della Lega Nord attraverso la modifica (tecnicamente sbagliata e approvata dalla sola maggioranza) del titolo V della Costituzione.

L’elezione diretta del Presidente della Regione e la modifica del titolo V della Costituzione hanno rappresentato gli elementi portanti di un fenomeno di tipo degenerativo che oggi si presenta in tutta la sua gravità: quello della trasformazione dell’Ente Regione dalla funzione legislativa e di coordinamento amministrativo, a soggetto esclusivamente adibito alle nomine e alle spese. L’elezione diretta del Presidente ha, infatti, finalizzato per intero l’attività dell’Ente al progetto di rielezione dell’uscente oppure di un suo delfino favorendo l’elargizione a pioggia delle risorse, distribuendo le nomine per vie neppure partitiche ma di corrente o di “cerchio magico”, causando un cattivo rapporto tra i Presidenti stessi e la Magistratura.

Hanno poi fatto registrare un fallimento clamoroso quei comparti affidati per intero alla gestione regionale: in particolare la sanità e i trasporti. Si è elevato alla massima potenza il deficit, i servizi sono paurosamente calati di qualità, il clientelismo (in particolare nella sanità) è stato elevato vieppiù a sistema. Le Regioni sono assolutamente da ripensare in quanto Enti: anzi da qualche parte stanno principiando a circolare idee di abolizione. Certamente l’Ente Regione rappresenta un vero e proprio “buco nero” nella crisi del sistema politico italiano e andrebbe ripensato totalmente. Questo elemento è stato completamente trascurato nel corso della campagna elettorale svoltasi all’insegna di una propaganda personalistica, nel corso della quale sono emersi anche episodi davvero inquietanti. Non sarà facile, domani, per chi volesse esprimere un voto pronunciarsi con coerenza rispetto ai programmi, alla qualità dell’agire politico, alla moralità pubblica.

De Luca: l’arte dell’insulto

(Mattia Feltri, La Stampa) Vincenzo De Luca, ex sindaco di Salerno e neo-eletto (?) presidente della Regione Campania, è uno dei massimi interpreti moderni dell’arte dell’insulto… In particolare ha dato alla disciplina un taglio personale e innovativo. Sul Web, De Luca incontra il favore del pubblico di destra, di centro e di sinistra. Vi proponiamo una piccola parte della sua produzione.

Grillo
Se incontri uno che vuole prosciugare le paludi pontine dici che è una grande sfida, ma se vuole prosciugare l’oceano Pacifico tu lo saluti e gli dici stammi bene, vai a parlare con Psichiatria democratica.

Grillo/2
Sta con il panzone al sole nella villa di mare di Marina di Bibbona, poi mette gli occhialini Ray Ban a specchio e va a fare i comizi… oehi… che siamo al teatro? Al circo equestre?

Berlusconi
Quelli che gestiscono il teatro dei burattini sul lungomare, come si chiamano… i fratelli Ferraioli… ecco, non potrebbero fare meglio…

Bersani
Non possiamo presentarci come ti presenti tu. Ti faccio un esempio: sto sigaro che tieni in bocca… quando vai per televisione, ma lo vuoi buttare questo sigaro?

Casaleggio
Mi fa diverti’ ’sto Casaleggio… uno che dopo i cinquant’anni sta lì tutte le mattine a farsi la permanente è capace di ogni misfatto.

Casaleggio / 2
Sembra un cane a pelo lungo: vada da un barbiere serio, si faccia consigliare da Ingroia che di sicuro ce l’ha…

Vito Crimi (è stato il primo capogruppo del M5S)
Assomiglia in modo impressionante a un procione lavatore

De Magistris
Tale De Magistris… romantico frequentatore della procura di Salerno… Pinocchio sarà lui e sua sorella.

Renzi
Dopo aver perso le primarie ha detto che non gli interessavano poltrone. Poi, altro che poltrone, si è fatto tutto il mobilificio.

La Russa
Non si sa se appartenga all’etnia albanese o kosovara…

Gasparri
Una strana mescolanza di umano e di pinguino.

Cesaro Luigi (FI in Campania)
Un essere che definirlo umano si fa oltraggio alla biologia.

Santoro
Lo ricorderò a Michelino, quando mi chiamava perché era candidato alle Europee e gli serviva una mano… Guarda come mi trattano adesso… Cialtroni… Gentaglia… Personaggetti che sono l’espressione del parassitismo.

Crozza
Che Dio lo benedica, devo dire che la sua è una performance straordinaria.

Su di sé
Devo difendere la mia immagine di carogna.
E’ andata poi così male, al Pd?

(Francesco Grignetti, La Stampa) Ma è andata davvero così male al Pd? Le prime analisi parlavano di fuga in massa degli elettori. Addirittura, secondo l’Istituto Cattaneo, sarebbero ben due milioni i voti persi dal partito di Renzi. Ma secondo il politologo Salvatore Vassallo, che aveva contribuito a creare il database del Cattaneo – pur analizzando gli stessi numeri – le cose sono andate molto diversamente. Occhio alle varie liste civiche, dice Vassallo. <Queste liste ad hoc non ci sono quando si vota per le Europee o per le politiche e quindi possiamo presumere che i relativi elettorati rifluiscano in loro assenza verso la casa madre>. Procedendo per area politica, sommando tutte le liste che a vario titolo hanno sostenuto Vincenzo De Luca o Michele Emiliano), i risultati cambiano: nelle sette Regioni dove si è votato, l’area politica di riferimento del Pd starebbe al 37%. Alle Regionali scorse era al 27,3%, alle Europee era al 42,3%. Commento di Vassallo: <Il Pd non replica il risultato straordinario delle Europee. Il governo qualcosa ha pagato per le scelte di rottura compiute negli ultimi mesi>. Ma la novità da questa lettura più larga, è la ripresa del Pdl. Se si ragiona in termini di area politica e non di singola lista, trascinato dall’exploit leghista (sia delle liste di partito, sia dal lusinghiero risultato della lista Zaia) il centrodestra sta al 35,2%. <È effettivamente in ripresa sul piano elettorale, tanto che se si unisse tornerebbe ad essere uno sfidante credibile>. Resta poi l’ottimo risultato del M5S, che pure è in calo rispetto alle ultime elezioni del 2013 e 2014, ma che finora alle Regionali non aveva brillato e invece si attesta al 15,7%. Preso atto che nelle Regionali gioca il carisma dei candidati, c’è da dire anche che al Sud le liste apparentate superano il Pd: in Campania hanno 471 mila voti contro 443 mila; in Puglia addirittura 453 mila contro 316 mila. E il politologo-sondaggista sembra tranquillizzato. <Il risultato complessivo risulta molto più in linea con le attese misurate dai sondaggi>.

La destra c’è ancora

(Aldo Cazzullo, Corriere) Quindi la destra italiana è tutt’altro che morta. Nell’ora del massimo disorientamento dei suoi leader, con Berlusconi che sbaglia comizio, Alfano che governa con Renzi e in tutte le Regioni si presenta contro di lui, Salvini che fa il pieno di voti su posizioni antieuro e antisistema, la destra supera il 60 per cento in Veneto, conquista la Liguria rossa, potrebbe conquistare Venezia per la prima volta dal 1993, è competitiva in Umbria e, nella stessa Campania, perde nettamente solo là dove è divisa. Sia chiaro: è una maggioranza politica e sociale, che nelle sue varie stagioni ha vinto quasi tutte le elezioni politiche dal ‘48 a oggi, che non poteva essere evaporata o convertita in blocco al renzismo. Ma se nel momento di maggior debolezza – e con una fortissima astensione che tradizionalmente avvantaggia la sinistra – i risultati sono quelli visti domenica, allora il centrodestra è competitivo per il governo del Paese.
Renzi dovrebbe tenerne conto.

Tramontato il patto del Nazareno, il Pd può provare a fare da solo, purché sia unito. L’uno contro tutti, all’evidenza, non ha pagato. La presenza di un nemico è consustanziale a Renzi, fa parte della sua natura competitiva e della strategia che l’ha portato a Palazzo Chigi. Ma scagliarsi nello stesso tempo contro la minoranza interna, i sindacati, i burocrati, la Rai, le banche, la corporazione degli insegnanti, quella dei dipendenti pubblici e via battagliando è servito solo a scontentare settori tradizionalmente vicini alla sinistra, non a prendere voti a destra. Per conquistare i moderati e i delusi non basta andare da Del Debbio o da Barbara D’Urso: occorre affrontare i nodi su cui il Paese aspetta risposte. Il taglio delle tasse. L’immigrazione. La sicurezza e la certezza della pena.

Sono temi che appartengono al bagaglio tradizionale del centrodestra. Il fatto che in passato Berlusconi non sia riuscito a coltivarli non esime Renzi dal provarci: al governo ora c’è lui. Ed essere al governo, nell’Europa continentale ancora percorsa dalla crisi, non è un vantaggio. Eppure, se si dovesse votare presto, il premier resterebbe il favorito: un conto è sostenere candidati più subìti che scelti, un altro è impegnarsi in prima persona. Anche perché l’opposizione ha un problema da risolvere. Per arrivare al ballottaggio previsto dalla nuova legge elettorale, Forza Italia e Lega devono presentarsi nella stessa lista. E devono esprimere un leader comune. Oggi Salvini è il candidato più forte per battere Grillo al primo turno. Ma rischia di essere il candidato più debole al secondo turno, quando si deve conquistare il centro. O a destra matureranno altre personalità; oppure Salvini dovrà dimostrare di avere una cultura di governo compatibile con l’appartenenza all’Unione Europea. L’aliquota unica al 15% è uno slogan accattivante per quanto impossibile. La fuoriuscita dall’euro e la deportazione dei rom mobilitano l’elettorato più radicale; ma poi le elezioni, quelle vere, le vincono i miti, come Toti e Zaia.

I non votanti

(Alberto Mingardi, La Stampa) Alle elezioni regionali si è presentata al seggio metà degli aventi diritto. Che è più o meno la stessa percentuale che vota per il Presidente degli Stati Uniti. Non sembra che la democrazia americana funzioni tanto peggio della nostra. Per buona parte della prima repubblica, l’affluenza alle urne in Italia ha superato il 90%. I nostri nonni e i nostri genitori votavano religiosamente. Ma il fatto che al seggio vadano in tanti non garantisce di per sé scelte particolarmente lungimiranti. Altrimenti avremmo ereditato un Paese un poco più in ordine. Sono diversi i motivi per cui un elettore può decidere di astenersi. I giornali si concentrano sempre su uno di essi: la disaffezione nei confronti della politica. Tuttavia non è l’unico. La cosa strana non è che qualcuno non vada a votare: è, al contrario, che qualcun altro ci vada. Dal punto di vista individuale, il voto è uno sforzo non remunerato. Il “nostro singolo voto” fa la differenza solo in rarissime occasioni: per esempio, se viviamo in un paesello di poche anime e si sono candidati a sindaco due signori ugualmente popolari. In un’elezione nazionale, al massimo ci guadagniamo la soddisfazione di nuotare con la corrente, o il diritto a lamentarci per i cinque anni successivi.

Una volta eletti, i nostri governanti perlopiù si occuperanno di questioni destinate a rimanerci del tutto estranee, se non oscure. I più informati fra noi conoscono i numeri della disoccupazione, del debito pubblico, del Pil. Il tifoso di politica impazzisce per il retroscena da spogliatoio, ragiona sull’allenatore ideale, ma resta sulle generali, applaude la nuova legge appena votata e poi si dimentica che bisogna attendere i regolamenti attuativi, si congratula col governo e perde di vista il Parlamento, triangolo delle Bermude dove spesse volte le norme meglio pensate fanno naufragio. L’astensionista convinto potrebbe anche essere uno che sa di non sapere. Pensa che abbia poco senso illudersi di “scegliere la persona”, quando non sai se hai bisogno di un cardiochirurgo o di un veterinario. E’ convinto che l’esercizio del potere sia una faccenda misteriosa. E, soprattutto, remota, lontana dalla sua vita. Se fossimo un filino più onesti con noi stessi, dovremmo ammettere che sappiamo pochissimo di chi votiamo, del suo passato, delle funzioni che andrà svolgere. E’ della nostra squadra del cuore e tanto ci basta.

E’ umano. Se non siamo in lizza per una nomina o in gara per un appalto: ha senso “studiare” a fondo un candidato, i suoi trascorsi, le sue idee per come le ha tradotte in pratica? Richiederebbe molto tempo: sottratto inevitabilmente agli affetti e al lavoro. A fronte di un beneficio assai modesto: la bella figura che facciamo allo specchio, quando sappiamo di avere dato un voto pienamente consapevole e informato. E’ una sensazione piacevole: per questo alcuni di noi mentono a se stessi, si considerano informatissimi a prescindere, biasimano chi non si occupa della cosa pubblica. Rampognare i non votanti non è mai servito a riportarli alle urne. In compenso, per sviluppare l’autostima fa miracoli.

Gli ostacoli all’economia

(Stefano Lepri, La Stampa) Alcuni pensano che ora il compito principale di Matteo Renzi sia di rimettere insieme il suo partito. Altri lo incitano a proseguire la riforma della politica, per togliere spazio al Movimento 5 stelle. Altri gli suggeriscono di far di più per l’economia, perché il grosso degli elettori ancora non ha percepito alcun effetto di questo inizio di ripresa. Nel concreto del nostro Paese i tre compiti sono diversi soprattutto nella rappresentazione che se ne dà. In parte si sovrappongono, in parte interferiscono l’uno con l’altro, cosicché ciascuno è più difficile da realizzare di quanto sarebbe se fosse isolato. Non basta ad andare avanti l’abilità politica fuori del comune che finora il presidente del Consiglio ha dimostrato.

Quanto all’economia il maggior ostacolo sta – su questo convergono sia l’analisi della Banca d’Italia sia quella di molti osservatori esteri – nelle inefficienze dello Stato, intese in senso lato. Si possono enumerare impacci della burocrazia, lentezze della giustizia civile, servizi al pubblico e alle imprese inefficienti, leggi oscure e di incerta interpretazione, e via dicendo. Inoltre, si riusciranno a evitare nuove tasse nel 2016 e si troverà forse un qualche spazio per ridurle, solo se l’opera di revisione della spesa pubblica riuscirà a incidere in profondità. Ai tagli si opporranno gruppi di interesse potenti, pronti a sostenere che questa o quell’altra erogazione sia indispensabile al buon andamento di un settore o di un’area del Paese.

La politica così come è oggi è intrecciata a tutto questo. La deludente qualità dei candidati alle elezioni amministrative di domenica scorsa, alla quale una buona quota di elettori ha reagito o con l’astensione, o con un voto di protesta, ha moltissimo a che vedere con la cattiva qualità della spesa pubblica degli enti locali. Troppo spesso vanno avanti i più spregiudicati nel farne uso. Gli scandali a Roma e altrove mostrano che è arduo distinguere con criteri generali tra le spese buone e quelle cattive, oppure tra tipi di spesa tradizionalmente cari all’una o all’altra parte politica. Quasi ovunque è presente una incrostazione clientelare capace di sfruttare a proprio vantaggio anche aiuti ai bisognosi o agevolazioni al sistema produttivo in linea di principio sensate. Così la spending review e la ripulitura della politica sono in sostanza parti di un unico erculeo lavoro. A sua volta l’inefficienza dell’amministrazione e di tutto l’apparato normativo dello Stato è funzionale a perpetuare una rete di poteri e di piccoli poteri conflittuali tra loro, ormai solo capaci di bloccarsi l’un l’altro a danno dei cittadini: burocrati, associazioni di categoria, sindacati.

Al groviglio contribuisce assai la questione dell’unità interna del partito di maggioranza relativa. Magari si trattasse soltanto di contenuti politici: ovvero di conciliare, diciamo così, programmi differenti, uno più di sinistra, l’altro meno. Né all’opposto si può ridurla a spartizione di cariche di partito e di governo. Divide il Pd, piuttosto, il giudizio sullo stato presente delle cose in Italia. Per la componente di sinistra è prioritario tutelare i diritti, o i vantaggi, in esso contenuti, dalle insidie del mercato o della globalizzazione; cosicché le riforme rischiano perlopiù di cambiare in peggio. Negli ultimi mesi la lotta interna ha esasperato una contrapposizione facile da alimentare. Siamo un Paese sfiancato dalla crisi, riluttante a una modernità che ha coinciso con il nostro declino. In queste condizioni, è stato finora facile che gli interessi colpiti da qualsiasi innovazione cercassero aiuto da quella parte, o anche da quella. Non aiuta che, all’esterno, i seguaci di Beppe Grillo siano tanto determinati a rinnovare la politica quanto carenti di proposte concrete su come riuscirei, e inoltre pronti ad assecondare ogni protesta. Ancor più necessario sarà evitare errori. Basti guardare alla riforma della scuola: poco suggestiva per difetti e lacune, ha scatenato una inquietante protesta contro la valutazione degli insegnanti che promette male per il futuro. In tutti i campi, occorre una progettazione migliore sulla quale misurare i consensi e i dissensi, senza fermarsi alla cura degli involucri e delle campagne pubblicitarie.

Senza competenze non c’è lavoro

(Enrico Marro, Corriere) Che l’Italia non sia un Paese per giovani lo confermano i numeri del Rapporto Ocse che segnalano il crollo del tasso di occupazione tra 15 e 29 anni (lavora uno su due) e l’impennata degli under 30 che non studiano e non lavorano (sono uno su quattro). Ma il dato che deve far più riflettere è che, secondo l’organizzazione dei Paesi industrializzati, in Italia quasi un giovane su tre svolge un “lavoro di routine”, che non richiede competenze specifiche, e uno su sei ha un lavoro che non comporta un sostanziale apprendimento. Insomma, un enorme spreco di capitale umano. Che fa il paio con l’osservazione di qualche giorno fa dell’Istat che, se in Italia ci fosse un tasso di occupazione uguale alla media europea, ci sarebbero 3,5 milioni di posti di lavoro in più, di cui 2,5 milioni donne. La riforma del mercato del lavoro, il Jobs act, era necessaria, ma non basta. Le leggi <volte a far incontrare domanda e offerta di lavoro giovanile e a limitare il precariato non serviranno — dice l’Ocse — se il sistema educativo non fornirà agli studenti le competenze necessarie> e se, aggiungiamo, il sistema delle imprese non investirà in più innovazione e il collocamento non sarà riformato. Il disallineamento tra le competenze possedute dai giovani e quelle richieste dalle aziende costringe troppo spesso i più preparati ad emigrare. L’ultimo spreco.

Robot

(Danilo Taino, Corriere) C’è una domanda che da qualche tempo corre tra scienziati, sociologi, economisti. Dopo che, nelle economie avanzate, milioni di posti di lavoro sono andati persi per la concorrenza cinese, saranno i robot i prossimi killer dell’occupazione? La tentazione sarebbe rispondere che saranno i robot cinesi. La International Federation of Robotics ha calcolato che nel 2013 in Cina siano stati venduti 36.560 robot industriali, di gran lunga il maggiore mercato: il Giappone si è fermato a 25.110, il Nord America a 22.414, la Corea del Sud a 21.307, la Germania a 18.297, l’Italia – sesto mercato – a 4.701. La risposta sarebbe però semplicistica: il dibattito sull’effetto che robot e automazione avranno sull’occupazione è tutt’altro che risolto. Uno studio appena pubblicato ha calcolato che in Germania le nuove tecnologie minacciano di sostituire nei prossimi anni 18 milioni di lavoratori su 31 milioni di posti presi in considerazione dallo studio. Non solo nell’industria: tre milioni su 3,5 nei lavori d’ufficio, per esempio; 50 mila su 78 mila nel settore di agricoltura e pesca; 471 mila su quattro milioni nelle professioni accademiche; persino nei lavori che comportano una funzione di leadership, lo studio prevede che 157 mila posti spariranno, su un milione e 380 mila considerati. Succederà proprio così? Altri studi arrivano a considerazioni diametralmente opposte. Un lavoro pubblicato poche settimane fa da George Graetz e Guy Michaels — due professori di Economia europei che hanno raccolto dati su robot e occupazione in 14 settori industriali di 17 Paesi per il periodo 1993-2007 — ha rilevato che i robot industriali accrescono la produttività del lavoro e della fabbrica ma spingono anche la crescita dei salari. <Mentre i robot industriali non hanno effetti significativi sul totale delle ore lavorate — sostengono i due autori — c’è qualche evidenza che riducano l’occupazione dei lavoratori a bassa qualificazione e, in misura minore, anche dei lavoratori a media qualificazione>. Graetz e Michaels calcolano che, al 2007, l’Italia fosse il secondo Paese europeo per numero di robot per milione di ore lavorate: 2,5, contro i quasi 4,5 della Germania. Ma avvertono di non fare dell’automazione la causa della disoccupazione. La difesa c’è: lavori di più alta qualità e lavoratori più qualificati. Discussione importante, che continuerà per anni.

Incredibile India

(Giuseppe Cederna, Corriere) Le temperature raggiunte in India, ben oltre i 45 gradi, che hanno causato la morte di migliaia di persone, sono tipiche del mese di maggio, prima che arrivi il monsone, ma non sono mai state così elevate. Noi ci illudiamo di sapere di cosa stiamo parlando, quando parliamo di India: l’India è sempre qualcos’altro. L’India è sempre da un’altra parte. L’india è sporca, disgustosa, ingiusta, sempre più violenta, eppure mai ci siamo sentiti così in pace con noi stessi e con il mondo come in certe mattine torride nel cortile di una moschea di Delhi o in una baita di pastori davanti alle grandi montagne dell’Himalaya. L’India è follia e saggezza, santità e menzogna. Ora l’India si scioglie. E quel caldo di maggio l’ho solo sfiorato, sembrava impossibile resistere. Un anno fa, senza che ne sapessimo nulla o quasi, a pochi giorni di viaggio da Delhi, sulle strade verso il Nord, la corrente di piena dei fiumi sacri distruggeva villaggi, templi, masse di pellegrini e di animali. Sono arrivato in India alla fine degli anni ‘90 e da allora ci tomo quasi ogni anno. Da allora l’India per me sono i miei amici di Delhi e di un piccolo villaggio alle sorgenti del Gange: Ann, Mukul, Ravi, Manila. Sono loro ogni volta ad aprirmi gli occhi, ad aiutarmi a vedere qualcosa oltre l’illusione della “incredibile India”, a parlarmi dei suoi conflitti. Perché l’India è soprattutto conflitti e battaglie per i diritti civili, per la laicità dello Stato, per la dignità del corpo delle donne, per l’ambiente, contro le grandi dighe e la deforestazione. Sono loro ad aiutarmi ad aprire gli occhi davanti all’ingiustizia della povertà che non ha nulla di romantico e che viene spazzata via dalle strade delle grandi città per rendere più facile il nostro viaggio e le nostre vacanze. E sono sempre loro quelli a cui penso con dolore quando leggo della sofferenza dell’India in questi giorni e dei suoi 2000 morti. Quest’ennesima tragedia è il segnale che nel mondo qualcosa non va ed è ancora una volta l’India a dircelo. E forse dobbiamo ascoltarla.

Emoticons

We all know those cute little computer symbols called “emoticons” where: 🙂 means a smile and 🙁 is a frown. Well, how about, instead of “emoticons”, some “assicoms”? Here goes: (__!__) A fat ass / (_!_) A regular ass / (!) A tight ass / (_?_) A dumb ass / (_*_) An ass hole / (_x_) Kiss my ass / (_X_) Leave my ass alone / (_zzz_) A tired ass / (_E=mc2_) A smart ass

lorenzo.borla@fastwebnet.it

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