L’ultimo bacio – Lo Zibaldone di Lorenzo Borla n. 417

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(Massimo Gramellini, La Stampa) La foto, che si trova in Rete, ritrae un bacio tra due profughi, accampati sotto una tendina alla stazione di Budapest. Proviamo a immaginare come sarà stata accolta qui da noi questa foto. Salvini: <O dormono o si accoppiano. Lavurà mai, eh? Quei due se la spassano, tanto il profughetto che metteranno al mondo lo manterremo noi. Che si bacino pure, ma a casa loro!>. Grillo: <E’ un fotomontaggio ordito dalla Cia per commuoverci. Il foulard della donna in primo piano è stato comprato in una boutique di New York. Fuori lo scontrino!>. Renzi: #Ultimo bacio. L’amore vince, alla faccia dei gufi. Sto volando a Budapest a spese vostre per farmi un selfie>. La minoranza Pd: <La tendina di Budapest è già un simbolo: vi terremo il nostro congresso>. I romanticoni senza fine, né fini elettorali, ammireranno invece la capacità della vita di ricominciare a ogni istante. Ogni bacio è sempre il penultimo.

Le bugie sul Senato

(Michele Ainis, Corriere) Che cos’è una bugia? È solo la verità in maschera, diceva lord Byron. Difatti al Carnevale delle riforme la verità si maschera, s’occulta, si traveste. La verità genera falsi d’autore e quei falsi diventano poi luoghi comuni, accettati da entrambi i contendenti. L’ultima balla è anche l’unica credibile: se v’impuntate sull’elettività dei senatori potremmo sbarazzarci del Senato, dichiara la ministra Boschi. Perché no? Dopotutto il monocameralismo funziona in 39 Stati al mondo. E dopotutto meglio nessun Senato che un Senato figlio di nessuno. Ma per ragionare a mente fredda dovremmo intanto liberarci dalle bugie che ci raccontano. Ne girano almeno sette, come i peccati capitali.

Primo: revisioni costituzionali. In Italia si tentano riforme costituzionali da trent’anni, senza cavare mai un ragno dal buco; questa è l’ultima spiaggia. Falso: dal 1989 in poi sono state approvate 13 leggi di revisione costituzionale, che hanno corretto 30 articoli della nostra Carta e ne hanno abrogati 5. Se il sistema, nonostante le medicine, non guarisce, significa che la cura era sbagliata. Dunque le cattive riforme procurano più danni del vuoto di riforme. Secondo: vade retro gubernatio. La Costituzione è materia parlamentare, non governativa. Sicché l’esecutivo deve togliersi di mezzo, abbandonando la pretesa di dirigere l’orchestra. È l’argomento sollevato dalle opposizioni, così come l’argomento precedente risuona in bocca alla maggioranza. Ma è falso pure questo. O meglio: sarà esatto nel paradiso dei principi, non nell’inferno della storia. Nel 2001 la riforma del Titolo V venne accudita dal governo Amato. Nel 2005 la Devolution era stata scritta di suo pugno dal ministro Bossi. Nel 2012 l’obbligo del pareggio di bilancio fu imposto dal governo Monti. Ma già nel 1988 il gabinetto De Mita si era presentato agli italiani come “governo costituente”.

Terzo: la riforma è indispensabile per accelerare l’iter legis. Giacché in Italia il processo legislativo ha tempi biblici, che dipendono dal ping pong fra Camera e Senato. I dati, tuttavia, dimostrano il contrario. Il tempo medio d’approvazione dei disegni di legge governativi era 271 giorni nella XIII legislatura (Amato, 1999-2001); in questa legislatura è sceso a 109 giorni. Mentre nel quinquennio precedente (2008-2013) il Parlamento ha licenziato la bellezza di 391 leggi. No, non è una legge in più che può salvarci l’anima. Semmai una legge in meno, e anche una fiducia in meno. È la doppia fiducia, non il doppio voto sulle leggi, che ha reso traballanti i nostri esecutivi.

Quarto: l’elettività dei senatori. Serve per assicurare un contrappeso al sovrappeso della Camera, dice la minoranza del Pd. Falso. Come ha osservato Cesare Pinelli, l’elezione diretta determina l’una o l’altra conseguenza: un’assemblea con gli stessi equilibri politici della Camera, ovvero con equilibri opposti. Nel primo caso il Senato è inutile; nel secondo è dannoso. Del resto l’elezione popolare non c’è in Francia, né in Germania, né in varie altre contrade. Non c’è nemmeno in Inghilterra, tanto che il governo (nel 2012) aveva pensato d’introdurla. Ma i Lord inglesi si sono ribellati all’elettività, come i senatori italiani si ribellano alla non elettività.

Quinto: dipenderà da Grasso, il signore degli emendamenti. Se apre il vaso di Pandora dell’articolo 2, se rimette in discussione i criteri di composizione del Senato, la riforma s’impantana. Ma non può farlo, perché in Commissione la Finocchiaro li ha già dichiarati inammissibili. Giusto? No, sbagliato. In primo luogo c’è almeno un precedente: nel marzo 2005 quattro emendamenti (firmati da Bassanini, Zanda e altri) vennero recuperati in Aula dal presidente Pera. In secondo luogo non è Grasso che vota, lui mette ai voti. E la maggioranza o c’è o non c’è: se manca sull’articolo 2, mancherà pure sugli altri articoli in esame. In terzo luogo la pallina dovrà comunque rimbalzare sulla Camera, dato che il governo stesso punta a correggere diversi aspetti del testo fin qui confezionato. C’è ancora tempo per il giudizio universale.

Sesto: con la riforma otterremo un Senato a costo zero, perché i senatori-consiglieri regionali non intascheranno alcuna indennità. Davvero? Mica verranno a Roma in bicicletta: treni e alberghi ci toccherà comunque rimborsarli. Ma dopotutto basta un’occhiata al bilancio del Senato. Nel 2014 Palazzo Madama ha speso oltre mezzo miliardo, di cui 79 milioni per i senatori, quasi il doppio (145 milioni) per il personale. L’unico Senato gratis abita nei Paesi dove non c’è il Senato.

Settimo: o la riforma o il voto. È l’arma nucleare minacciata dal governo per spegnere il sacro furore dei dissidenti, però trascura un elemento di non poco conto. Voteremmo, infatti, con il Consultellum, un proporzionale puro; e il primo a rimetterci sarebbe proprio Renzi. È vero casomai l’opposto: dopo la riforma, voto anticipato. Come detta la logica delle istituzioni, perché non si può tenere in moto un’automobile cambiandone il motore. E come suggerisce, guarda caso, una doppia coincidenza: l’Italicum, la nuova legge elettorale, entrerà in vigore nel luglio 2016; e un paio di mesi dopo il governo intende celebrare il referendum sulla riforma costituzionale. Sarà per questo che in Parlamento vogliono tirarla per le lunghe. Il tempo porta consiglio, ma il tempo dei parlamentari porta pensione.

L’economia che uccide

(Mario Deaglio, La Stampa) Uniti sono infatti il perno del sistema capitalistico globale contro il quale papa Bergoglio ha usato termini durissimi; sono passati appena tre mesi dalla pubblicazione dell’enciclica Laudato si’ che è stata definita un <manifesto anticapitalista>; e fin dall’inizio del suo pontificato, Francesco ha ripetuto, senza mezzi termini che <questa economia uccide>. Grande distanza, ma anche qualche concordanza importante: il Congresso degli Stati Uniti ha appena approvato la riapertura delle relazioni diplomatiche con Cuba, concludendo così un’opera di riavvicinamento in cui un’intesa di fondo tra Vaticano e Stati Uniti è stata fondamentale. Ma questa economia, che Francesco chiama pesantemente in causa, sta uccidendo davvero? A una prima analisi si direbbe proprio di no, anzi è vero il contrario, come mostrato da una valanga di dati recentissimi. La mortalità infantile è stata dimezzata in 25 anni, il che significa oggi un “guadagno” di oltre sei milioni di vite all’anno. La speranza di vita alla nascita è cresciuta ovunque, ma in misura maggiore nei Paesi poveri, l’analfabetismo si è fortemente ridotto e l’istruzione media e superiore segnala forti aumenti in tutto il mondo. La percentuale della popolazione mondiale in condizioni di “povertà estrema” è scesa dal 18 al 14 per cento, in valore assoluto circa 1,2 miliardi di persone.

Naturalmente si sarebbe potuto fare di più, ma di lì a “uccidere” ce ne corre. Esiste però un altro, assai più oscuro, lato della questione. Il reddito medio è cresciuto quasi ovunque ma le disuguaglianze sono aumentate di pari passo: un miliardo e mezzo di persone, specie in Cina e negli altri Paesi dell’Asia Orientale e Sud Orientale hanno sensibilmente migliorato le loro prospettive di vita, ma una parte della classe media, specie nei Paesi avanzati, a cominciare dagli stessi Stati Uniti, è scivolata verso i limiti della povertà mentre i vantaggi della crescita sono concentrati tra i redditi elevati, una categoria in cui almeno il 10% per cento di ricchi è diventato “super-ricco”. A essere uccise, o forse solo ridotte, in questo caso sono le speranze, trasformatesi in illusioni, le normalità della vita, gli obiettivi personali di innumerevoli esseri umani. L’intero pianeta sembra incattivito, squassato da tensioni e conflitti, in gran parte interni, quasi sempre crudeli, spesso cruenti.

Nel corso del suo viaggio, Francesco si fermerà a New York. Si recherà alle Nazioni Unite, il che è più che giusto, addirittura doveroso, ma non a Wall Street, il che rappresenta un’occasione mancata. E questo perché Wall Street, come tutte le altre Borse mondiali, è scossa in questi giorni dal caso Volkswagen, la storia di un’autentica frode tecnico commerciale che rischia c creare danni incalcolabili alla casa automobilistica tedesca e all’economia tedesca in generale. Se si guarda più a fon do si scopre che l’intero orizzonte del “grande capitalismo” è percorso da frodi d proporzioni gigantesche, i principali mercati del denaro sono stati manipolati, a livelle mondiale, da operatori alla ri-cerca di maggiori profitti, molto spesso anche di fortissimi arricchimenti personali. Le società coinvolte stanno cominciando a pagare multe eccezionali, nell’ordine di de-cine di miliardi di dollari, tanto che il loro introito sta diventando una componente importante della finanza pubblica in numerosi Paesi avanzati.

Il problema è che, con il pagamento della multa, tutto sembra tornare come prima. La dirigenza delle imprese multate raramente viene rinnovata e continua nei medesimi comportamenti: la multa, come l’offerta dei peccatori che, nella Chiesa di altri tempi, poteva talvolta “comprare l’indulgenza”, estingue il peccato, ossia evita spesso l’azione penale. Nella Chiesa la reazione a questo stato di cose portò alla nascita del Protestantesimo; nella finanza di oggi i discorsi sulla moralità del mercato, da lungo tempo abbandonati, dovrebbero essere ripresi e c’è sicuramente bisogno di maggiore trasparenza delle imprese, maggiore supervisione sul loro operato. Se non farà di ogni erba un fascio, se prenderà atto di questa situazione differenziata, Francesco in questo può aiutare il mondo. E possiamo sicuramente augurargli che in un viaggio successivo, di qui a qualche anno, si rechi in visita anche a una Wall Street uscita davvero dalla crisi, in un’economia mondiale rinnovata.

Le Borse e l’economia reale

(Enrico Ascari, Youinvest.it) <A ogni crollo delle Borse… bisognerebbe domandarsi quanto le Borse avevano guadagnato prima, giorno dopo giorno. La differenza è che il “meno” è traumatico, veloce e viene urlato nei titoli dei giornali: bruciati migliaia di miliardi. Il “più”, invece, era stato progressivo e silenzioso. Sempre migliaia di miliardi, però annunciati da nessuna fanfara> (Michele Serra, Repubblica). Ad ogni capitombolo di qualche mercato in giro per il mondo, si “bruciano” decine o centinaia di miliardi di “capitalizzazione”. L’ultimo affondo di qualche giorno fa avrebbe incenerito 5000 miliardi di dollari, poco più del Pil giapponese, metà di quello cinese. Miracolosamente risorto dalle ceneri, come l’araba fenice, nelle 48 ore successive. In verità i mercati sono gli improbabili interpreti della teoria della relatività (nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma). Almeno fino al momento in cui guadagni o perdite si cristallizzano, con la chiusura delle posizioni in essere. Basta non vendere, soprattutto nel momento sbagliato, per evitare le peggiori “bruciature”.

I mercati sono anche il regno del relativismo. Quando si parla di economia o finanza il terreno diventa scivoloso. Siamo lontanissimi dalle scienze esatte e perfino – almeno per quanto riguarda la giostra dei prezzi finanziari – da universi valutabili con il calcolo delle probabilità. Camminiamo nelle sabbie mobili dell’ignoto (il futuro) e della manipolazione statistica (il passato). Gli esperti di mercato sono specialisti in materia. Producono migliaia di statistiche quotidiane che lanciano sui media, analizzando i fenomeni più improbabili e irrilevanti, amplificandoli a dismisura. Il tutto per condizionare un pubblico che è sempre più lontano dall’intervento diretto sui mercati ma alimenta con il proprio risparmio gli intermediari che gestiscono i soldi degli altri. I veri utilizzatori finali delle tanto incensate politiche non convenzionali delle Banche centrali. Anche per questo i mercati finanziari non vanno presi troppo sul serio.

Un paio di giorni ad alta tensione, a cavallo del week end del 23 agosto sono bastati per scatenare le reazioni pavloviane di squadroni di economisti e presunti esperti prontamente chiamati a raccolta dai media per pontificare sul dramma finanziario di giornata. Con toni inevitabilmente catastrofici. Improvvisamente l’economia cinese, le cui complesse dinamiche rimangono peraltro oscure e incomprensibili anche agli insiders, è diventata lo spauracchio globale. Due giorni di vendite sui mercati sono stati considerati la prova provata della <peggiore crisi degli ultimi 30 anni>. Una vera e propria allucinazione collettiva, alimentata ad arte dai media, ma figlia di una lettura ingenua del rapporto tra le dinamiche finanziarie e reali e di una scarsa comprensione delle modalità di funzionamento della finanza “postmoderna” (quella seguente alla grande crisi finanziaria del 2008). Il tutto favorito dall’ingiustificata enfasi sulla presunta centralità dei mercati finanziari, diventati l’idolo di cui si implora la benevolenza, di cui non va scatenato il furore distruttivo. Un mito alimentato dal comportamento delle Banche centrali e da molti esperti interessati. Insomma, la finanza intesa come Viagra del ciclo economico, stimolo per eccitare gli spiriti animali degli imprenditori o il livello di confidenza dei consumatori. Tutte mezze verità, singolarmente difficili da smentire o provare, che si elevano al ruolo di colossale panzana se raccolte in immaginifica narrazione.

Sempre di più, viceversa, i commentatori più seri considerano l’ipertrofia e l’autoreferenzialità del sistema finanziario una delle concause della debolezza dell’economia reale. C’è un colossale abbaglio che va demistificato: quello che i mercati finanziari siano in grado di anticipare le dinamiche dell’economia reale, ovvero ne riflettano pedissequamente le tendenze. Viceversa, soprattutto nel breve andare, ci dicono poche cose e per giunta confuse. Solo con il passare del tempo e con il senno del poi, a volte, è empiricamente verificabile una con-vergenza tra finanza ed economia. Ma non sempre è così: di fronte a una spettacolare crescita negli anni ’90 la borsa cinese di allora (certo ancora meno trasparente di quella odierna) per almeno un decennio è rimasta al palo. Per contro in meno di un anno, fino allo scorso marzo, le bische a cielo aperto di Shenzen e Shanghai hanno visto più che raddoppiare il valore delle società quotate di fronte al rallentamento economico fin troppo evidente. Rimane valida la battuta dell’economista Paul Samuelson sulla capacità della Borsa di prevedere ben nove delle ultime cinque recessioni.

Ma con la globalizzazione c’un motivo aggiuntivo che rende sempre più evanescente la relazione le borse e l’andamento economico di singoli Paesi o aree geografie! La dinamica degli utili delle multinazionali che governa l’economia e dominano la capitalizzazione degli indici azionari è sempre più divergente da quella delle economie nazionali e dei redditi delle famiglie, ovunque esse vivano. In definitiva le divagazioni estive dei mercati azionari americani/europei hanno avuto poco a che fare con le recenti dinamiche economiche della Cina e men che meno vanno considerate un indicatore delle prospettive future del grande paese asiatico e dell’economia mondiale. Sono probabilmente una reazione tecnica e violenta, fin troppo tardiva ma in definitiva fisiologica, a dinamiche economici note da tempo e troppo a lungo rimosse. Sono “affari interni” dell’ecosistema finanziario, sempre più manipolato dai banchieri centrali. D’altronde sono sempre più frequenti episodi degli ultimi anni, determinati probabilmente dall’attività di operatori che forniscono liquidità ai merca elettronici con modelli di trading computerizzato basati su algori mi che sfruttano le minime differenze di prezzo in tempi misurabili in nanosecondi.

I mercati della contemporaneità non hanno nulla a che vedere con quelli di qualche decennio fa. Anche la finanza, parafrasando Zygmunt Bauman è diventata “liquida” e rimane un mistero perché oggetto di continua evoluzione, di perenne trasformazione e metamorfosi. Dopò il crack di Lehman Brothers il dominio dell’ecosistema finanziario è passato dalle banche ai grandi gestori di patrimoni per conto terzi. Sono quelli che amministrano i nostri soldi ma soprattutto quelli dei milionari occidentali, sempre più ricchi, e orientali, sempre più numerosi. Si tratta un’industria che controlla 74.000 miliardi di dollari di attività, con profitti che hanno superato i 102 miliardi di dollari e che derivano dalle commissioni pagate dai clienti in percentuale dei patrimoni in gestione. Se i mercati salgono i profitti lievitano a prescindere dalle effettive capacità e i rischi di mercato sono comunque a carico dei clienti finali. II potere di condizionamento su Washington e Londra di questo complesso di interessi è tanto rilevante quanto opaco. Sono operatori, che dispongono di infinite risorse da spendere in attività di promozione e di lobby hanno un legittimo interesse affinché i mercati, almeno quelli principali a partire da Wall Street, continuino a salire, possibilmente con moderazione e il più possibile in sintonia tra di loro. Ovviamente non sono in grado di anticipare le tendenze del ciclo economico o determinare i trend di mercato ma possono condizionarli, limitarli o accelerarli.

Non è un caso che l’andamento delle quotazioni sia sempre più stagionale, probabilmente influenzato dalle politiche di massimizzazione e protezione dei profitti annuali di questi colossi finanziari. E che i grafici dei mercati azionari di Wall Street e Londra ormai somiglino sempre più a una linea orizzontale crescente con interruzioni brevissime e sempre più rare. Non è nell’interesse di questi intermediari che si possa consolidare un mercato “orso” tradizionale, come quelli dei bei tempi andati, che duri almeno sei mesi e porti ad un calo di almeno il venti per cento. È proprio vero che i mercati, come le stagioni, non sono più quelli di una volta. Tutto ciò non significa che il rallentamento dell’economia cinese, da tempo visibile e da ultimo ratificato con la prima, ma non ultima, svalutazione dello yuan, sia irrilevante e, in prospettiva, piuttosto preoccupante per il futuro dell’economia globale. D’altra parte, se i mercati finanziari spesso non sono un barometro affidabile, non sono neppure ciechi: da tempo il continuo calo delle materie prime e la continua erosione del valore delle valute emergenti segnalano il rafforzamento di una congiuntura deflazionistica globale, confermata dai recenti dati sul calo del commercio internazionale. Il punto è che eccessi di improvvisa apparente follia non rappresentano la stella polare per individuare le giuste rotte nei meandri dell’economia e della finanza. Piuttosto, per il risparmiatore accorto, il più delle volte rappresentano buone occasioni di investimento.

L’Italia di domani

(Emanuele Felice, La Stampa) Matteo Renzi ha iniziato la sua scalata al potere presentandosi con il brand della rottamazione e come colui che, promuovendo una classe dirigente nuova, e riformando profondamente le regole dello Stato, può far ripartire l’Italia. Nel breve termine, non è poco. Ma sui tempi medio lunghi non basta. Manca infatti, alla narrazione renziana, un aspetto fondamentale: l’orizzonte. Ripartire sì, ma per andare dove? Come immagina il premier l’Italia di domani? Difficile a dirsi, i segnali che arrivano sono contraddittori. Vi sono almeno tre grandi temi – tutti di forte impatto – attorno ai quali i caratteri dell’azione di governo rimangono incerti.

Il primo è l’equità. Modernizzare e far ripartire il Paese è un’idea buona per tutte le bandiere, ma un premier di centrosinistra – o anche uno liberaldemocratico che abbia un rapporto critico con i sindacati tradizionali – deve dare l’impressione di voler rimettersi in cammino senza lasciare indietro i più deboli: nel modo più inclusivo possibile. Alcuni provvedimenti, come gli ottanta euro, vanno in questa direzione (e non a caso hanno segnato per Renzi il suo massimo consenso). Altri, come il Jobs Act, sono stati ingiustamente stigmatizzati da una parte della sinistra e dai sindacati, ma – nei fatti, non in teoria – comportano un miglioramento per i neoassunti. Su altri, come quelli per il Mezzogiorno, il giudizio è ancora sospeso, in attesa dell’annunciato programma. Ma qualche provvedimento va sicuramente nella direzione opposta. È il caso dell’abolizione indiscriminata delle tasse sulla casa: attuato così come viene proposto, senza alcuna gradazione, un provvedimento del genere fornirebbe un’arma formidabile a chi cerca di dipingere Renzi come un nuovo Berlusconi. Oltretutto andrebbe pure a detrimento della crescita – non a caso è sconsigliato da tutti gli esperti, a cominciare da quelli europei.

Il secondo tema è la lotta al malaffare: straordinariamente attuale nell’Italia di oggi, fondamentale sia per la crescita sia per l’equità. Il nostro Paese ha ancora, drammaticamente, Bisogno di una rifondazione etica – e di nuove regole che la favoriscano. E, per le vicende specifiche della storia d’Italia, chi se non un giovane premier di centrosinistra, in fondo erede del partito di Berlinguer e nella sostanza pulito, se ne dovrebbe fare carico? Su questo però Renzi appare esitante. Sembra incapace di dirigere con mano ferma il partito di cui è segretario, specie nelle sue diverse metastasi territoriali. Le novità molto positive che pure è riuscito a portare a casa, come gli accordi internazionali per la nominatività dei conti esteri (su trattative avviate dai precedenti governi) per qualche ignota ragione non le valorizza. Eppure il suo rivale lo sfida proprio su questo: se c’è una lezione indubbiamente positiva che viene dal M5Stelle, è che in Italia è possibile far politica, e aspirare a vincere le elezioni, in maniera onesta – e persino con pochi soldi. Per decenni ci avevano fatto credere il contrario. Su questo Renzi e il Pd hanno molto da imparare.

Il terzo tema è quello dei diritti civili. Sbaglia chi li sottovaluta, specie a sinistra. Come per la corruzione, ma forse in maniera ancora più palese, qui l’Italia è diventata il fanalino di coda di tutto l’Occidente: sul piano legale è da accomunarsi ai paesi di religione musulmana o cristiano-ortodossa, ben lontana da quelli di tradizione cristiano-riformata ma anche da tutti gli altri Paesi cattolici avanzati (e persino da molti paesi cattolici assai meno prosperi di noi, come quelli del Sud America). Nessun premier progressista può ormai proporsi come tale, e ancor meno come modernizzatore (con buona pace dei suoi alleati centristi), se non pone fine e in fretta a questo stato di cose. Una legge di tipo tedesco sulle unioni civili non elimina la discriminazione, a differenza del matrimonio egualitario, ma se non altro consentirebbe all’Italia di uscire dal suo stato di eccezionalità, di recente sanzionato anche dalla Corte europea dei diritti umani: di fatto oggi rappresenta il minimo, indispensabile. Un qualsiasi cedimento su questa condizione minima sarebbe in stridente contraddizione con la mission innovatrice che Renzi rivendica. Chi pensa che le ambiguità nell’azione di governo siano dovute all’eterogeneità della maggioranza potrà qui avere, già fra qualche giorno, eloquente prova delle effettive capacità del premier: Renzi ha ampi margini in Parlamento, anche per trovare maggioranze trasversali; magari ricordando che in passato, sempre sui diritti civili, proprio le maggioranze trasversali hanno consentito insperati (e vitali) passi avanti alla società italiana.

Non esiste la mano invisibile

(Giuliana Ferraino, Corriere) Fin dai tempi di Adam Smith, l’insegnamento centrale dell’economia è stato che il libero mercato, attraverso una mano invisibile, ci fornisce benessere materiale. Nel loro libro The Economics of Manipulation and Deception, due premi Nobel, Robert Shiller e George Akerlof, contestano questo concetto e sostengono che i mercati spesso ci danneggiano. Finché c’è qualcuno che può trarre un profitto, i venditori sfrutteranno sistematicamente le nostre debolezze psicologiche e la nostra ignoranza con la manipolazione e l’inganno. La svolta è nettae: più che tendere al bene più grande, i mercati sono per natura pieni di trucchi e trappole e vanno a caccia (phish) di potenziali vittime di raggiri (phools). Per dimostrare gli inganni del marketing, Shiller ha confrontato, assaggiandoli, il cibo per gatti e il paté di roast beef in scatoletta, come diceva l’etichetta: <Avevano lo stesso sapore> ha raccontato al Wall Street Journal.

Sulle Olimpiadi

(Claudio Bellavita, Circolo Rosselli) Ho qualche dubbio sulle Olimpiadi del 2024. Mi chiedo anzitutto perché un evento di queste proporzioni dovrebbe mai essere fatto a Roma, dove la faciloneria amministrativa coniugata alla voracità dei palazzinari, e anche se non ci fossero (ma ci saranno di sicuro) infiltrazioni mafiose, determinerebbe un collasso urbanistico epocale, che già nel modesto e quasi virtuoso 1960 è stato sfiorato. Di tutte le manifestazioni internazionali le Olimpiadi sono oggi le più dispendiose, e a Roma possiamo essere certo che l’Italia del XXI secolo, forte delle collaudate esperienze del Mose e dell’Expo e delle e delle non bene esplorate dei mondiali di nuoto, appunto a Roma, batterà il livello di sprechi e corruzione stabilito finora da Atene. Se proprio, contro ogni buon senso, vogliamo fare in Italia una seconda olimpiade (ma perché i più ricchi d’Europa, gli svizzeri, non ne hanno mai fatta una?) chiediamo al nostro Ministero economia finanze qual è la regione con minore evasione fiscale, e facciamola lì. Forse potrebbe essere il Friuli, la regione con la sanità più efficiente, l’unico caso in Italia in cui un grande terremoto non ha generato sprechi e ruberie ma è stata la molla di un grande sviluppo economico e civile. Si potrebbe anzi candidare l’area per le prime olimpiadi europee, dividendo le gare con Austria, Slovenia e magari anche Croazia. Ma più in generale, speriamo che qualcuno, uscendo dalla bolsa retorica d’occasione, e pensando invece ai tristi casi della Fifa, comincerà a chiedersi come mai le grandi organizzazioni internazionali di sport, assistenza (e religione), sotto la nobiltà degli scopi sono centri di potere e di corruttela contro la quale nessun singolo Stato ha il coraggio (e in certi casi la possibilità) di intervenire a fondo. E comincerà a chiedersi come sono cooptati, da chi e perché i centri di comando di Cio, Fifa, Formula uno, Motociclismo, e persino Croce rossa Internazionale: un bell’obiettivo per il giornalismo d’inchiesta.

La regina di Bagdad

(Mirella Serri, La Stampa) E’ apparsa una bella biografia, nella miglior tradizione inglese di questo genere letterario, su Gertrude Bell, una Lawrence d’Arabia in gonnella vissuta a cavallo di ‘800 e ‘900. L’autrice è Georgina Horwell, il titolo è La regina del deserto, da cui stato realizzato un film di Werner Herzog, Queen of thè Desert, con Nicole Kidman, James Franco e Robert Pattinson che apparirà presto nelle sale italiane. Figlia di un magnate dell’acciaio inglese, filantropo e innamorato della cultura (nel giro delle amicizie di famiglia era lo scrittore Henry James), Gertrude Bell fu capace di tagliare insoliti traguardi. Fin dai tempi di Oxford si era abituata a essere malvista in quanto eccezionale rappresentante del gentil sesso: conseguì una laurea in storia moderna con il massimo dei voti, quando la presenza femminile era eccezionale. Il suo trionfo fu segnalato dal Times. Non rientrava però in alcuno schema: a Baghdad fondò le prime scuole per le donne musulmane, detestava le nullafacenti mogli degli ufficiali britannici e a Londra si schierò contro le suffragette e contro il voto al suo stesso sesso (forse anche questa sua discutibile scelta ha fatto sì che in Europa i suoi meriti di grande madre dell’Iraq e di straordinaria tessitrice di rapporti politici siano stati fino a oggi trascurati).

La sua avventura iniziò quando, dopo una vacanza in Persia, cominciò a compiere pericolose esplorazioni scortata da un paio di soldati turchi e da un fedele inserviente. In circa seicento giorni percorse più di trentamila chilometri e si addentrò in luoghi dove una donna occidentale non aveva mai messo piede, in Siria, Mesopotamia, Turchia. Parlava l’arabo alla perfezione, imparò la fotografia (la School of Historical Study della Newcastle University custodisce settemila suoi scatti), studiò epigrafia e archeologia, desiderosa di scoprire qualche ignorato gioiello del deserto, e lasciò una marea di documenti, di rapporti e di dettagliate memorie. Aveva modalità di viaggio stravaganti: oltre alla tenda per la notte ne aveva un’altra per la vasca da bagno di tela, cavalcava dieci ore al giorno – non montava all’amazzone ma si era fatta confezionare indumenti appositi – e assisa sul cammello con una mano teneva l’ombrello per il sole oppure un libro.

Imparò a bere l’acqua brulicante di vermi, a soffrire la fame, il caldo torrido, il freddo, e iniziò a condividere nelle lunghe sere nel deserto il narghilè pieno di tabacco, marijuana oppure di oppio. Il suo bagaglio non era per nulla spartano, includeva abiti da sera alla moda, camicette di batista e gonne pantalone di lino, camicie di cotone e pellicce, maglioni e sciarpe, stivali di tela e di cuoio. Come mai? Ancor prima dello scoppio della Grande guerra, al ministero degli Esteri ebbero bisogno di informazioni sulla penetrazione tedesca nell’Arabia settentrionale e orientale e sulle postazioni dell’Impero Turco. La Bell, proprio in quanto donna, poteva raccogliere inosservata notizie e riprendere installazioni militari con la scusa delle foto d’arte. Sotto strati di sottovesti di pizzo nascondeva fotocamera e pellicola, binocoli e armi da fuoco per la difesa personale e da donare agli sceicchi. I capi tribù la rispettavano e si confidavano quanto più esibiva sfarzo e ricchezza.

Mise spesso a repentaglio la propria vita: prigioniera di un gruppo di predoni, dopo essere riuscita a fuggire, si trovò a vagare per tre giorni in completa solitudine; in un’altra circostanza fu segregata per settimane a Hail, nell’oasi di Najad. Quando entrò a pieno titolo nell’intelligence britannica, fu lei a consigliare Lawrence su dove e come accendere la rivolta araba. Alla Conferenza del Cairo del 1921, voluta da Winston Churchill, grazie al suo intervento, venne promossa l’istituzione degli Stati di Giordania e Iraq, affidati ai sovrani Abd Allah e Faysal, che lei stessa aveva seguito nell’ascesa al potere. Gertrude morì il 12 luglio 1926, a 58 anni: sul suo comodino venne trovato un tubetto vuoto di sonniferi. “La regina senza corona dell’Iraq”, come era stata ribattezzata a Baghdad, appassionata del mondo arabo, aveva scelto di scomparire senza tornare in patria.

Amazing facts

> If you yelled for 8 years, 7 months and 6 days you would have produced enough sound energy to heat one cup of coffee (hardly seems worth it).
> A pig’s orgasm lasts 30 minutes.
> A flea can jump 350 times its body length. It’s like a human jumping the length of a football field (I still can’t believe that pig).
> Some lions mate over 50 times a day (quantity over quality…).
> Butterflies taste with their feet (something I always wanted to know).
> The strongest muscle in human body is the tongue (hmm…).
> Right-handed people live, on average, nine years longer than left-handed people (if you’re ambidextrous, do you split the difference?).
> Elephants are the only animals that cannot jump (okay, so that would be a good thing).
> An ostrich’s eye is bigger than its brain (I know some people like that).
> Starfish have no brains (I know some people like that, too).
> Polar bears are left-handed (if they switch, they’ll live a lot longer).
> Humans and dolphins are the only species that have sex for pleasure (what about that pig? Do the dolphins know about the pig?)

Citazione

Una domanda a Nadine de Rotschild: lo smartphone va a sinistra del piatto con le forchette, o a destra con i coltelli? (Dalla Rete)

lorenzo.borla@fastwebnet.it

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Giornalista e blogger. Collaboro con il web in rosa di Donnissima. Dirigo Secolo Trentino e Liberalcafé. Laureata in Filosofia presso l'Università degli Studi di Trento. Lavoro in un Progetto di sperimentazione AI.

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