IL CAPITALISMO SI EVOLVE – ZIBALDONE N. 386

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(Slavoj Zizek, Corriere) Se c’è una persona a cui faranno un monumento nei prossimi cent’anni, quella sarà il leader di Singapore Lee Quan Yew (sempre rieletto con il 90% delle preferenze) che ha inventato e realizzato il cosiddetto “capitalismo dal volto asiatico”. Il virus di questo capitalismo autoritario si sta diffondendo, lento ma inesorabile, in tutto il mondo. Deng Xiaoping, prima di avviare le sue riforme, era stato a Singapore e lo aveva espressamente elogiato come modello di riferimento per la Cina. Questo cambiamento ha un significato storico e mondiale: fino ad oggi, il capitalismo sembra essere inestricabilmente associato alla democrazia. Certo, a volte si è fatto ricorso alla dittatura diretta, ma dopo uno o due decenni la democrazia si è imposta nuovamente (basta ricordare i casi della Corea del Sud e del Cile).

Ora, comunque, si è rotto il legame tra democrazia e capitalismo. A livello economico il capitalismo ha trionfato in tutto il mondo – i Paesi del Terzo mondo che l’hanno sostenuto, oggi registrano tassi di crescita spettacolari. Il capitalismo globale non ha problemi ad adattarsi a una pluralità di religioni, culture e tradizioni locali. Quindi, l’ironia crudele è che in nome dell’anti-colonialismo si critica l’Occidente proprio nel momento storico in cui il capitalismo globale non ha più bisogno dei valori culturali occidentali per funzionare perfettamente, ed è a suo agio con la “modernità alternativa”. Il capitalismo globale non implica necessariamente l’edonismo e l’individualismo permissivo. L’India, ad esempio, ha imboccato la strada della celere modernizzazione capitalista: ma non c’è stata rimozione delle tradizionali strutture sociali, come l’anteposizione dei legami comunitari al successo personale o il rispetto per gli anziani. Questo non dimostra in alcun modo che simili realtà non siano totalmente moderne. E si sbagliano di grosso i teorici post-coloniali che vedono nella persistenza delle tradizioni premoderne una forma di resistenza al capitalismo globale e al suo processo violento di modernizzazione che distrugge i legami tradizionali. La fedeltà ai quei valori è, paradossalmente, la vera prerogativa che permette a Paesi come Cina, Singapore e India di seguire la strada del processo capitalista in modo persino più radicale che nei Paesi liberali occidentali.

Il riferimento ai valori tradizionali offre una giustificazione etica a chi condivide la logica spietata della competizione di mercato. È molto più semplice far riferimento a valori tradizionali per poter giustificare l’indifferenza agli altri. <Lo faccio per aiutare i miei genitori, per guadagnare i soldi necessari a miei figli e cugini per poter studiare…>: simili motivazioni sono molto più accettabili rispetto a <Lo faccio per me>. Spesso, comunque, l’accordo è solo retorico. L’illibertà mascherata da libertà si manifesta in una miriade di forme: quando siamo privati dell’assistenza sanitaria, ci dicono che ci offrono la libertà di scelta (del fornitore di assistenza sanitaria); quando non possiamo più contare su un impiego a lungo termine e siamo costretti a cercare un nuovo lavoro precario ogni due anni, ci dicono che ci offrono l’opportunità di reinventarci e scoprire nuove e inaspettate risorse creative, latenti nella nostra personalità; quando dobbiamo pagare l’istruzione dei nostri figli, ci dicono che <investiamo su di noi>, come un capitalista che deve scegliere liberamente come investire le risorse possedute (o prese in prestito): in formazione, salute, viaggi… Bombardati costantemente da libere scelte imposte, costretti a prendere decisioni per cui generalmente non siamo neanche abbastanza qualificati (o informati), viviamo la nostra libertà per quello che è realmente: un peso che ci sottrae la vera scelta di cambiare.

Prospettive

(Claudio Bellavita, Circolo Rosselli) Con l’Euro siamo stati nelle incapaci mani di Prodi, Veltroni e Berlusconi, senza euro saremmo stati nelle mani di Soros o chi per lui. La finanza si è globalizzata, come dice Warren Buffett, c’è stata la lotta di classe e il capitale ha vinto. Il lavoro, anche nell’ambito della ristretta zona euro, non è mai riuscito neanche a fare una riunione congiunta dei sindacati. E con questa imponente e minacciosa formazione dobbiamo affrontare un lungo periodo di trasformazioni radicali della produzione, della logistica e dei servizi, con una drammatica riduzione dei posti di lavoro. Ma difenderemo fino all’ultimo i posti di lavoro dei postini che non han più lettere da recapitare, perché nessuno le scrive, e d’altra parte non riescono a recapitare i pacchi in meno di due giorni come fa Amazon…

Le condizioni per la crescita

(Giorgio Calderaro, Circolo Rosselli) Da qualche tempo si continua a recitare il mantra della necessità della crescita per l’Italia, e oggi si scopre che lo stesso problema vale anche per l’Europa. Dunque dobbiamo tutti crescere, cioè aumentare il fatturato dei prodotti e servizi; ma nessuno ha risposto alla domanda <vendendo che cosa e a chi?>. Luca Ricolfi, in L’Enigma della crescita analizza diversi dati econometrici dei 34 Paesi dell’Ocse tra il 1995 e il 2007, alla ricerca di una correlazione tra questi e il tasso di crescita. Così facendo, identifica, dati alla mano, quali fattori influenzano maggiormente (in positivo o in negativo) il tasso di crescita, e quali lo influenzano meno. Nel periodo in questione e per i paesi indagati, tanto più alta è la qualità della formazione, tanto più alta è l’efficienza di istituzioni e infrastrutture, tanto più basso è il carico fiscale sulle imprese, tanto maggiore è stato il tasso di crescita.

Si vorrebbe allora capire con quanta incisività si stia operando in Italia per alzare la qualità della formazione, aumentare l’efficienza di istituzioni e infrastrutture e abbassare il carico fiscale sulle imprese, per innescare la crescita. Forse bisogna ricordare un fatto non scontato, ovvero che posti di lavoro oggi non li crea più il settore pubblico, se non nella modesta misura del ricambio, bensì solo il settore privato. Dunque, per crescere ci vuole più lavoro, per avere più lavoro ci vogliono più imprese, per avere più imprese occorre incentivarne l’insediamento e semplificarne l’attività, per avere imprese che assumano occorre aiutarle a trovare personale adeguatamente preparato. La domanda è: stiamo operando in tal senso? Sarebbe altrettanto interessante esaminare i comportamenti più utili da tenere con le aziende in fallimento, distinguendo tra quelle che chiudono perché non hanno più mercato e quelle che chiudono i per problemi finanziari: con fallimento ci perdono tutti, creditori e lavoratori ma anche lo Stato che deve erogare sussidi. Forse sarebbe meglio, nei casi in cui il mercato c’è, lasciare all’azienda due/tre anni sabbatici, magari trasferendola a nuovi manager e/o ai lavoratori stessi: magari i creditori ci perdono lo stesso, ma il lavoro è salvo e lo Stato, anziché perderci, incassa l’Irpef.

Vedo poi molto critico il percorso che dovrebbe portare le nostre istituzioni ad una maggiore efficienza: lo constatiamo ogni giorno. L’aver sostituito il buon senso con l’iper regolamentazione ha creato nel tempo una vastissima e onnipotente burocrazia con potere di “normare”: non cito casi, basta leggere i giornali. Però chi è in grado di semplificare le regole per ridurre i costi di applicazione e di controllo? Forse lo stesso insieme di persone che si vanta di aver creato proprio quelle indispensabili regole che ci soffocano? Inoltre è da tener presente che regole più semplici e meno costose richiedono costi di controllo minori e quindi minor personale addetto: ma che fine faranno le persone in esubero?

Sarebbe interessante, parlando di efficienza delle istituzioni, anche inserire il dibattito sui “diritti acquisiti”. Oggi che non siamo più liberi di batter moneta a piacimento, ci rendiamo conto che alcuni diritti acquisiti legati a fatti oggettivi non possano che essere ribaditi intangibili (es., la pensione di chi ha versato i contributi), mentre altri diritti che costino denaro alla collettività e che discendano da norme arbitrarie possano essere ridiscussi (es., i vitalizi). Forse, all’interno di questo tema, possono rientrare le concessioni (e quant’altro): laddove il concessionario, titolare di un diritto illimitato e poco oneroso, possa lucrare liberamente grazie a libertà di prezzi e di sub-concessione. Sarebbe interessante esaminare se la legge di stabilità attuale va incontro o no e in che misura alle linee d’intervento delineate e se si pensa che sia efficace ai fini della crescita. Sarebbe interessante capire se esiste una configurazione economica che in situazione di Pil strisciante consenta di abbattere il debito pubblico, o se forse è necessaria la consapevolezza che se vogliamo destinare un po’ di risorse al finanziamento della crescita allora il nostro debito non calerà per molto tempo. Concludendo queste considerazioni, volendo far aumentare il nostro Pil per poter avere più lavoro, le infrastrutture debbono funzionare, le imprese debbono essere facilitate, la burocrazia deve essere ipersemplificata e messa al servizio di imprese e cittadini (e non il contrario). Le norme debbono essere stabili o modificarsi a vantaggio del fruitore, la formazione deve poter coniugare gli aspetti culturali, che ci caratterizzano nel mondo, con quelli operativi, che servono alle imprese.

Il declino del centrodestra

(Pierluigi Battista, Corriere) Il centrodestra ha cominciato a morire nel novembre del 2011, con l’estromissione traumatica, in un momento tragico per il Paese, di Berlusconi dal governo. Il Pdl era già spaccato in fazioni, il leader sembrava sul viale del tramonto. Purtroppo la “non vittoria” di Bersani nelle elezioni del 2013 ha dato la sensazione che il centrodestra potesse risorgere. Ma intanto il Pd si rinnovava, con le primarie imponeva il suo dibattito nell’agenda politica, nel mondo dell’informazione e dell’immagine. E con la vittoria di Renzi, si dimostrava capace di parlare a un mondo non più rinchiuso nei recinti della sinistra. E il centrodestra? Con il leader condannato ai servizi sociali, e un Pd in ascesa, il centrodestra berlusconiano si è aggrappato al “Patto del Nazareno” come ultima spiaggia per contare qualcosa e addirittura tentare di attribuirsi la regia delle riforme istituzionali. Ma un patto prevede, se non la perfetta parità, almeno una passabile equivalenza dei due contraenti. Le vicende di questi giorni, con il metodo renziano del prendere o lasciare, hanno dimostrato che tra i due contraenti del patto uno detta le condizioni, l’altro può solo rincorrere i ritmi e le forme del primo. Il contraente giovane, pieno di futuro, carico di energia, spavaldamente certo di giocarsi la grande partita della vita impone al contraente stanco, sfiduciato, nel pieno del declino, con un partito sempre più fragile, silente, stordito. E ora? Ora tra un Ncd che ha misurato in questi giorni tutta la sua precaria irrilevanza, con Forza Italia dilaniata da scontri mortali, una Lega salviniana sempre più tonica ma basata sulle sirene dell’antieuro e della guerra santa contro l’immigrazione, o nel centrodestra ci si rende conto che bisogna cambiare tutto, oppure il tramonto sarà inevitabile e doloroso. Cambiare tutto significa rimettere in discussione la leadership, il modo di essere, l’identità culturale. Significa un salutare bagno democratico. Rimettersi a parlare con il mondo e non starsene rinchiusi nella fortezza sempre più asfittica di un cerchio magico ripiegato in se stesso a contemplare le rovine. Altrimenti il bipolarismo italiano si trasformerà in mono- partito, e una democrazia ha bisogno di almeno due competitori per essere sana e vitale. Perciò la dissoluzione del centrodestra riguarda l’intera politica italiana. Non una questione interna alla galassia tardo-berlusconiana, ma un problema dell’intero sistema. Se vogliamo ancora il bipolarismo.

Mali di pancia

(Antonio Polito, Corriere) Meno male che Mattarella ha parlato. Innanzitutto perché sono sette anni che non parlava; e questo già la dice lunga su un sistema politico che ha dovuto cercarsi l’arbitro più lontano possibile dal suo chiacchiericcio quotidiano. E poi perché, parlando il garante dell’unità nazionale, forse taceranno per un giorno tutti gli altri che hanno già ricominciato a darsele di santa ragione. I due gruppi più rumorosi sono composti da quelli che negano di aver venduto tappeti e da quelli che rifiutano di essere usati come tappeti. Nel primo gruppo spicca Verdini, il quale respinge le accuse di “fallimento” che gli piovono addosso dal cerchio magico di Berlusconi ricordando che nel Patto con Renzi c’era, altroché se c’era, la scelta comune del nuovo presidente. Testimonianza autentica, visto che viene da uno degli apostoli del Nazareno; ma ormai utile solo per gli storici poiché, come lui stesso ha ammesso, in politica chi ha i numeri fa quello che vuole, e Renzi ha fatto di Berlusconi ciò che voleva.

Ma lo scontro in cui è coinvolto l’ex falco berlusconiano diventato colomba renziana non va sopravvalutato, poiché ha risvolti più interni che esterni. Comunque finisca, che l’ex Cavaliere torni in sella o continui a fare il fante, ormai non conta molto ai fini delle sospirate riforme istituzionali. Il più, infatti, è fatto. E per la minoranza Pd non sarebbe decoroso rimetterle in discussione dando una mano alla vendetta berlusconiana. D’altra parte al capezzale del Nazareno è subito accorsa il ministro Boschi, vera e propria crocerossina delle riforme, a ricordare e ribadire che la norma per la depenalizzazione dei reati fiscali, nota ormai come decreto tre per cento, si farà. Anche se, visto che il tutto era stato rinviato al 20 febbraio, e non fosse altro che per una ragione di stile, forse era meglio aspettare un attimo di parlarne con il nuovo capo dello Stato, cui spetterà firmarla trattandosi di un Decreto del Presidente della Repubblica.

Più interessante è la tempesta che si è scatenata nel partito di Alfano ad opera di coloro che non vogliono essere trattati come tappeti, anzi, come tappetini (per usare l’espressione del ministro Lupi). La crisi interna di quel gruppo non è solo frutto di rabbia passeggera per il trattamento ricevuto, ma richiama per così dire una questione ontologica mai risolta da Alfano e i suoi. E cioè come può un partito che si chiama Nuovo centrodestra stare in un governo organico di centrosinistra proponendosi di andare alle prossime elezioni con il centrodestra. Nello sfavillio di maggioranze che Renzi ha messo in mostra in questi mesi (una per il governo, una per le riforme, una per il Quirinale), si tende infatti a dimenticare che al Senato ne ha ogni giorno una risicatissima appesa proprio a quel “partitino” delle cui convulsioni il premier dichiara di non volersi curare. Se per caso Ncd non reggesse alla prova da sforzo cui è stata sottoposto nel fine settimana, qualche conseguenza politica potrebbe infatti prodursi. E per quanto sembri improbabile che gli alfaniani al governo siano disposti ad aprire una crisi, i non alfaniani non al governo potrebbero tagliare la corda prima di finirci impiccati.

Intervista a Giuliano Amato

(Aldo Cazzullo, Corriere) <Per cominciare davvero, l’Europa deve mettersi di fretta a investire nei suoi cittadini. Non possiamo pretendere dai nostri leader che abbiano il coraggio catartico necessario per l’integrazione; possiamo pretendere che lavorino sulla generazione Erasmus, che esiste, che può essere allargata, che può avere dall’Europa una formazione anche specialistica in modo da trovare lavoro; che sia creato un fondo europeo per l’occupazione; che le professioni diventino europee. Non si tratta di lavorare sulle istituzioni, ma di lavorare sui cittadini>. Qui la riflessione di Amato incrocia il discorso di insediamento del presidente: <Sergio Mattarella ha detto due cose secondo me fondamentali. La prima è che la democrazia non è mai ima conquista definitiva. Proprio l’altro ieri ho fatto a Grosseto ima lezione sul ‘900 agli studenti di scuola media. Ai ragazzi ho illustrato quel secolo nato su aspettative di progresso senza fine, il cinema la locomotiva l’elettricità, nel corso del quale, proprio in ragione del cambiamento che stava prendendo corpo, si è avuto uno scontro di faglie e quindi, come ha scritto Claudio Magris, “grovigli di emancipazione e regressione” che ci hanno dato il bene e il male, la democrazia e il nazismo, i diritti e i lager, la scienza che ci guarisce e la scienza che inventa l’ordigno nucleare, il capitalismo che crea i diritti sociali e poi si disintegra negli anni 30. Ne caviamo che noi abbiamo trovato delle soluzioni nel XX secolo, ma queste soluzioni non sono mai per sempre. Siamo di nuovo alle prese con una crisi esplosiva del capitalismo, abbiamo Ebola, abbiamo le ostilità che nascono tra noi e chi emigra da noi. Qui viene la seconda cosa fondamentale detta da Sergio: rimettere al centro il futuro, non con generiche esortazioni ma mobilitando le energie. È giustissimo questo. Da mesi insisto sul fatto che il bandolo della matassa italiana è nella qualità oggi troppo spesso scadente della forma-zione, in particolare di quella universitaria. Oggi l’innovazione, la lampadina, non si accende nella testa del cugino Archimede, si accende nella testa di chi ha accumulato sufficiente conoscenza per andare più in là; ma senza l’accumulo, la lampadina resta spenta. Troppi dei nostri studenti desiderosi di imparare finiscono in università ridotte a esamifici, dove discipline che dovrebbero essere insegnate per un anno hanno a disposizioni semestri che diventano bimestri>. Amato fa riferimento a un libro di Stiglitz non ancora tradotto in Italia, Creating a Learning Society, creare una società che impara: <Avendo dentro una conoscenza che oggi troppo spesso ci manca, saremmo in grado di cambiare la nostra agenda, di accorgerci del mondo in cui viviamo; un mondo nel quale dovremo nutrire tre miliardi di esseri umani in più, e l’agricoltura sostenibile sarà una straordinaria risorsa del futuro e anche nostra. Dovremo accorgerci che l’onda crescente degli anziani non è necessariamente un costo, non perché gli anziani sono una risorsa retorica ma perché buona parte delle nostre pensioni | possono diventare i redditi degli altri; pensi alle case per anziani affidati a giovani motivati e preparati. E poi noi oggi dobbiamo ricostruire l’Italia. Mi piangeva il cuore nel vedere il sindaco di Trino Vercellese che faceva vedere al tg la casa di campagna di Cavour. Questo povero sindaco l’ha comprata ma non ha i soldi per salvarla, e col cuore straziato mostrava il disfacimento dei muri, il caminetto ormai irriconoscibile. La casa dell’uomo che ha costruito l’Italia sta cadendo in mille pezzi. Ma i nostri giovani, riproiettandoli sul Paese e proiettandoli sul resto del mondo, possono fare moltissime cose. Mia nipote ha studiato antropologia sanitaria, che le permette di lavorare qui o in Africa o in Asia; e ovunque lo faccia troverebbe se stessa e il suo lavoro. In termini industriali, noi che siamo così bravi con le energie rinnovabili possiamo trovare noi stessi e il nostro lavoro in quei tre quarti dell’Africa che attendono di avere la luce elettrica>. Il punto, secondo Amato, è <cambiare l’agenda, smetterla di arrotolarci nei nostri guai. Lo storico francese Lucien Febvre, pure così realista, chiude la sua opera con una bella poesia di Charles Peguy: “La piccola speranza avanza tra le due sorelle maggiori e su di lei nessuno volge lo sguardo. La piccola, quella che va ancora a scuola, ama credere che siano le due grandi a portarsi dietro la piccola per mano. Ciechi che sono a non veder invece che è lei al centro a spingere le due sorelle maggiori”. A me è piaciuta tantissimo l’idea di questa speranza, che è piccola, ma in realtà è lei che guida i più grandi e li porta avanti. Se non ci fosse lei, i grandi starebbero fermi>.

Retroscena storico
Chi erano i 101?

(Fabio Martini, La Stampa) L’elezione del nuovo presidente della Repubblica è una buona occasione per ricordare le modalità con cui il Partito Democratico si cacciò nel disastro politico più imbarazzante della sua storia – il fallimento della candidatura di Romano Prodi alla presidenza della Repubblica, nel 2013 – sono ancora oggi tema di ricostruzioni molto diverse, quasi sempre strumentali, e di accuse reciproche all’interno del partito. Dopo che Stefano Fassina aveva nei giorni scorsi evocato sbrigativamente una responsabilità di Matteo Renzi nel guidare il voto contrario a Prodi, ieri su La Stampa Fabio Martini mette in fila con maggior ordine, dati e testimonianze, una successione di eventi più chiara e verificata che sembra raccontare che il concorso di scelte sia stato assai più esteso, che il presunto consenso per alzata di mano nella riunione in cui si decise la candidatura sia stato assai più limitato, e che le colpe vadano forse attribuite a chi promosse una candidatura così rischiosa e a chi tacque durante quella riunione.

È una storia infinita. Ogni giorno si arricchisce di un nuovo colpevole. Ma la vera storia dei centouno grandi elettori del centrosinistra che “tradirono” Romano Prodi il 19 aprile del 2013 è molto diversa dalla vulgata prevalente: nei 21 mesi da allora trascorsi tanti tasselli si sono via via ricollocati e altri, ancora inediti, sono venuti a comporre un plot davvero spiazzante. Privo di una regia unica e di uomo nero, ma ricco invece di colpevoli rimasti nell’ombra. Una storia esemplare anche in vista della conta ormai imminente. Il primo piano sequenza inquadra Eataly, il megastore di prodotti alimentari di eccellenza inventato da Oscar Farinetti. È la sera del 18 aprile 2013 e il giorno prima si era consumato il flop di Franco Marini, candidato al Quirinale da Bersani e Berlusconi. In quelle ore il Pd sta decidendo di cambiare cavallo e strategia. A quel punto il sindaco di Firenze Matteo Renzi, sempre così restio a farsi vedere a Roma, si scomoda. Convoca i suoi 35 parlamentari al ristorante di Eataly e gli comunica: <Si vota Prodi>. In quelle ore un politico dal naso fine come Gaetano Quagliariello constata: <Prodi è una scelta legittima ma che va inevitabilmente verso la fine della legislatura>. Renzi scommette su un Capo dello Stato indipendente, capace di sciogliere le Camere. Uscendo da Eataly a chi gli chiede se si senta il vincitore della giornata, il sindaco replica: <No. Vince l’Italia se domani sarà eletto un presidente di grande rilievo internazionale>. Dunque, fortissimamente Prodi. Candidato e profilo recentemente persi di vista, ma è pur vero che la sparata di qualche giorno fa da parte di Stefano Fassina risulta priva di fondamento.

Ma quella notte accadono altre due cose decisive: Bersani, dopo aver fatto ritirare Marini, sta precipitosamente convergendo anche lui su Prodi. Confida oggi Marini: <La rapidità con la quale Bersani ha lanciato Prodi, senza preparare troppo la candidatura, si spiega in un modo solo: provò a giocare d’anticipo perché temeva una candidatura di D’Alema a quel punto vincente>. Una ricostruzione postuma che si incastra perfettamente con l’altro colpo di scena di quella notte: D’Alema fa sapere di essere pronto a sfidare Prodi. Scontro lacerante ma vero tra i duellanti di un ventennio. Nel cuore della notte vengono preparate le schede per la mattina successiva. E qui va in scena il secondo piano sequenza. Diciannove aprile, ore 8, cinema Capranica. Bersani propone ai grandi elettori del Pd la candidatura di Romano Prodi e a quel punto accade l’imponderabile: all’annuncio del nome del professore, le prime due file, ma solo quelle, si alzano in un applauso entusiastico. Bersani e Zanda “cedono” all’acclamazione senza voto. Racconterà più tardi Massimo D’Alema a Marco Damilano: <In sala c’è stato l’errore grave di chi doveva parlare e non lo ha fatto>. E cioè Anna Finocchiaro. Non si è era capito invece chi fossero i parlamentari della claque anti-voto segreto ma oggi uno di loro confida: <Renzi ci fece sapere che era meglio “lanciare” subito Prodi, evitando il pericolo D’Alema>.

A quel punto, sono le 9 del mattino, il professore è in pista. Visto che dal Pd nessuno si preoccupa di coinvolgere Monti, Rodotà, Grillo, è Prodi stesso, in Mali per una missione Onu, a farsene carico. Telefona a Massimo D’Alema, che è sincero e gli dice: <La situazione, dopo l’esito del voto su Marini, è molto confusa e tesa>. Prodi annota mentalmente: D’Alema non mi farà votare dai suoi. Poi chiama il suo vecchio amico Mario Monti, che gli rinnova tutta la sua amicizia ma gli dice: <Romano la tua candidatura è divisiva…>. E due. In quelle ore convulse chi può ancora fare la differenza è Stefano Rodotà, votato fino a quel momento dai Cinque Stelle. Vanno da lui i capigruppo Crimi e Lombardi per chiedergli se sia pronto a lasciare il campo a Prodi e invece la sorpresa: non si ritira e mette il suo mandato nelle mani del Cinque Stelle. Ha confidato di recente uno dei due ex capigruppo: <Eravamo sicuri che Rodotà si sarebbe ritirato e invece…>. Anche Prodi cerca Rodotà, che fa capire che a chiamarlo deve essere Bersani e comunque l’essenza del passaggio è chiara: davanti ad una soluzione “alta” come quella di Prodi, Rodotà non si ritira. Il professore conclude le sue telefonate e intanto in Parlamento si prepara l’affondamento. Ha scritto Sandra Zampa nel suo libro su quei tre giorni che il senatore Ugo Sposetti (dalemiano doc) <faceva telefonate per sollecitare un no a Prodi, ma che non era l’unico telefonista in servizio>. Anche perché erano tante le tribù offese dagli errori di quelle ore: dalemiani orfani di D’Alema, ex popolari orfani di Marini. Prima che la votazione inizi, Prodi telefona alla moglie Flavia: <Non passerò>.

Il vino di papa Francesco

(Sebastiano Vassalli, Corriere) Non tutti Io sanno e, in fondo, è meglio così perché non ce ne sarebbe per tutti. Ma il Ruché è uno dei grandi vini rossi piemontesi. Addirittura è uno dei tre più grandi, con il Barolo e il Barbaresco; rispetto ai quali, però, ha il vantaggio di essere più immediatamente comunicativo. Meno aristocratico e spocchioso; più cordiale e amichevole. Ruché non è un nome di fantasia: è il nome antico di un vitigno che si coltivava, e per fortuna ancora si coltiva in un piccolo territorio a nord-est di Asti, con centro a Castagnole Monferrato. Uno dei sette Comuni della sua denominazione controllata è Portacomaro, il paese della famiglia di papa Bergoglio; e tanto è bastato perché tre giornalisti ne facessero un romanzo: II vino del Papa. Le vie del romanzo ormai sono infinite; peccato che papa Francesco, parlando dei suoi antenati, finora abbia nominato due soli vini: il Grignolino e il Dolcetto. È molto probabile che non conosca nemmeno il nome o la storia del Ruché, che sconfina nella leggenda. La storia di questo vino e del suo vitigno dice infatti che se ne era persa la coltivazione, e che sono stati riscoperti nella seconda metà del Novecento da un prete di questi luoghi, don Giacomo Cauda (1927-2008) parroco di Castagnole. È lui il personaggio centrale della leggenda, una leggenda che qualcuno dovrebbe portare a Roma insieme a due bottiglie di Ruché, una per il Papa attuale e l’altra per il Papa emerito, raccomandando a entrambi il riserbo (se gli americani e i tedeschi scoprono il Ruché, se lo bevono tutto loro).

A little old lady

(Va precisato che l’espressione “little old lady”, nel mondo anglosassone viene usata per una signora di mezza età ancora piacente… e disponibile)

A robust young farmer stopped by the local mechanic to have his truck fixed. They couldn’t do it while he waited, so he said he didn’t live far, and would just walk home. On the way home he stopped at the hardware store and bought a bucket and a gallon of paint. He then stopped by the feed store and picked up a couple of chickens and a goose. Outside the store he realised he now had a problem – how to carry all his purchases home. While he was scratching his head, he was approached by a little old lady who told him she could not find her way home. She asked <Can you tell me how to get to 1603 Mockingbird Lane?>. The farmer said <Well, as a matter of fact, my farm is very close to there. I would walk you there but I can’t carry this lot>. The lady suggested <Why don’t you put the can of paint in the bucket. Carry the bucket in one hand, put a chicken under each arm and carry the goose in your other hand?>. <Why, thank you very much> he said and proceeded to walk the lady home. On the way he says <Let’s take my short cut and go down this alley, we’ll be there in no time>. The little old lady looked him over cautiously then said, <I am a lonely widow without a husband to protect me… How do I know that when we get in the alley you won’t hold me up against a tree, pull up my skirt, and have your way with me?>. The farmer said <Holy smokes lady! I’m carrying a bucket, a gallon of paint, two chickens, and a goose. How in the world could I possibly hold you up against a tree and do that?>. The little old lady replied, <Set the goose down, cover him with the bucket, put the paint on top of the bucket, and I’ll hold them chickens>.

Citazione

Sono le persone che nessuno immagina possano fare certe cose, quelle che fanno cose che nessuno può immaginare (The Imitation Game)

lorenzo.borla@fastwebnet.it

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