EPITTETO E ARISTIPPO – ZIBALDONE N. 385

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Epitteto e Aristippo

(Massimo Gramellini, La Stampa) L’unica intervista a Sergio Mattarella che sia stata registrata è disponibile su YouTube. Argomento della conversazione, il ruolo della cultura. Il presidente della Repubblica parla per sei minuti senza mai variare il tono della voce né muovere un muscolo del volto. A metà, per alleggerire, racconta ima storiella del quarto secolo avanti Cristo. La sua dialettica è un riuscito mix tra la vivacità espressiva di Forlani e la chiarezza di esposizione di Ciriaco De Mita. <Credo che il bombardamento commercializ-zato di modelli di vita cui oggi siamo sottoposti abbia agevolato e accresciuto, se non la tendenza, il pericolo di un abbassamento dei valori di riferimento>. Intendeva dire, con qualche ragione, che le tv di Berlusconi ci hanno lietamente rimbecillito. Oltre a Epitteto e Aristippo (che non sono due calciatori brasiliani) il capo dello Stato cita l’amato san Francesco. Non è difficile immaginare che le sue prime mosse sul Colle saranno il distacco delle prese dei televisori e l’abbassamento della statura dei corazzieri per risparmiare sulla stoffa delle divise. Dimezzerebbe i costi, gli sprechi e gli aggettivi, imponendo la dieta Bergoglio a tutto il Quirinale. Da cittadino, un Presidente così mi entusiasma. Da giornalista mi getta nella disperazione più cupa.

I nomi che erano in lizza

Meritoriamente il Corriere della Sera ha pubblicato un paginone dove sono riassunti tutti i nomi fatti in queste ultime settimane come papabili. Tali da meritare il commento caustico del solito Riccardo Barenghi (Jena): <Eleggetene uno, e lasciateci in pace!>.

Pietro Grasso / Antonio Martino / Anna Finocchiaro / Gianni Letta / Piero Ostellino / Mario Monti / Pier Luigi Bersani / Dario Fo / Romano Prodi / Antonino Di Matteo / Pier Carlo Padoan / Umberto Eco / Gino Strada / Giuliano Amato / Piero Fassino / Ignazio Visco / Walter Veltroni / Angelo Panebianco / Massimo D’Alema / Giuseppe De Rita / Stefano Rodotà / Milena Gabanelli / Paola Severino / Sergio Mattarella / Ugo De Siervo / Claudio Magris / Emma Bonino / Laura Boldrini Vittorio Feltri / Pier Ferdinando Casini / Pierluigi Castagnetti / Riccardo Muti / Gustavo Zagrebelsky Sergio Chiamparino / Renzo Piano / Sabino Cassese / Mario Draghi / Roberta Pinotti / Franco Bassanini / Paolo Gentiloni / Lorenzo Ornaghi / Fabiola Giannotti / Dario Franceschini / Marta Cartabia / Raffaele Cantone / Graziano Delrio / Elena Cattaneo / Ferdinando Imposimato

Syriza: da noi non funziona

(Massimiliano Panarari, La Stampa) Alexis Tsipras ha fatto il botto, mentre da noi, al più, scendono in campo le brigate Kalimera. Syriza stravince in Grecia, Podemos è accreditato dai sondaggi del 30% dei consensi e, invece, nel nostro angolo di Mediterraneo, la sinistra radicale proprio non ce la fa, e percentuali come queste se le può sognare. L’Italia è terra matrigna per la sinistra dura e pura per una serie di ragioni, alcune storiche, e altre riguardanti l’incapacità di chi la guida di comprendere – volenti o nolenti – la fine irreversibile del Novecento e delle sue narrazioni ideologiche. Syriza e Podemos, infatti, ormai nulla (o quasi) hanno più a che fare con le parole d’ordine e lo stile della sinistra postcomunista che, da noi, continua di fatto a sopravvivere con un look differente. Mentre, per l’appunto, l’imprinting originario permane, in primis nei modi di pensare “da dirigenti di un partito di massa” (quando l’uno, e l’altra, non ci sono più); per contro, le neosinistre radicali di Atene e Madrid il loro bagno nella postmodernità se lo sono fatto interamente, e fino in fondo, e la coalizione di tendenze, idee e visioni che rappresentano hanno praticamente saldato i conti con i <grandi discorsi in rosso> del fu Secolo breve. E, ovviamente, non basta occhieggiare alla società dello spettacolo con il titolo di una kermesse che fa il verso ai talent show – lo Human Factor della manifestazione di Sel – per dire di padroneggiarne i meccanismi e l’immaginario (che con la sinistra, in tutte le sue forme, non ha nulla a che spartire). Per cercare di capire quello che (non) succede a Roma, bisogna ricorrere innanzitutto alla “struttura”, come la chiamava il vecchio Marx. Syriza trionfa in un Paese nel quale è ricomparsa (a livelli devastanti) la mortalità infantile, una porzione di società si ritrova sprofondata sotto la soglia di povertà e la mannaia della macelleria sociale si è abbattuta senza sconti. Ecco perché le principali (e tradizionali) constituency elettorali del Pasok (le stesse, in buona misura, del Pd, lavoratori dipendenti e del pubblico impiego e svariate categorie di pensionati – hanno scelto stavolta Tsipras. In Italia, invece il neoliberismo è sempre stato un po’ “cacio e pepe”, e il welfare familiare e i risparmi delle generazioni più anziane, se pure ambedue smagriti, continuano a fare da diga abbastanza robusta agli effetti della la crisi. Il rigorismo finanziario imposto sotto il Partenone è distante anni luce dall’austerity dalle parti del Colosseo, e il ceto medio nazionale, sebbene impoverito, ha retto l’urto (e non deve fare la fila per avere pacchi alimentari come quello greco). Si aggiungano poi la genetica vocazione minoritaria di una bella fetta della sinistra italica dura e pura, la propensione al divide et impera ogniqualvolta se ne presenti l’occasione e la considerevole quota di personalismo di vari capi-corrente e notabili. E, per finire, nell’epoca della mediatizzazione spinta della politica e delle democrazie del pubblico, il leader conta, eccome, a dispetto delle inveterate diffidenze delle sinistre estreme. I dimostra, in pieno, la figura di Tsipras (come pure quella di Pablo Iglesias), mentre un Renzi dei radicali continua a latitare.

La riduzione del debito greco

(Martin Wolf, Financial Times) A volte, la cosa giusta da fare è la cosa saggia da fare. È così oggi per la Grecia. Se fatta nel modo giusto, una riduzione del debito andrebbe a beneficio della Grecia e del resto dell’Eurozona. Creerebbe delle difficoltà, ma non tante quante ne creerebbe gettare la Grecia in pasto ai lupi. Tuttavia, raggiungere un accordo di questo tipo potrebbe rivelarsi impossibile: per questo chi pensa che la crisi dell’Eurozona sia finita si sbaglia. Nessuno può essere sorpreso della vittoria di Syriza in Grecia. La ripresa del Paese ellenico è fatta di una disoccupazione al 26% e di una disoccupazione giovanile oltre il 50%. Inoltre, il prodotto interno lordo ha perso il 26% rispetto al suo massimo ante crisi. Di fronte a una catastrofe del genere, non c’è davvero da stupirsi che gli elettori abbiano rigettato il precedente Governo e le politiche che ha portato avanti (un po’ controvoglia) per conto dei creditori. Come ha detto Alexis Tsipras, il nuovo primo ministro, l’Europa è fondata sul principio della democrazia. Il popolo greco ha parlato. Le autorità costituite devono come minimo ascoltare. Eppure tutto quello che si sente in giro lascia intendere che le richieste per un nuovo accordo su debito e austerità saranno respinte senza neanche pensarci su.

Dietro a questa reazione c’è una discreta quantità di stupidaggini moraleggianti. Due in particolare ostacolano le speranze di una risposta ragionevole alle richieste greche. La prima stupidaggine è che i greci hanno preso in prestito i soldi e perciò sono tenuti a ridarli indietro, a qualunque costo. Era più o meno lo stesso ragionamento alla base del carcere per debiti. La verità è un’altra: i creditori hanno la responsabilità morale di prestare soldi con accortezza. Se non vagliano in modo accurato la solvibilità dei loro debitori, si meritano quello che gli succederà. Nel caso della Grecia, le dimensioni dei disavanzi con l’estero, in particolare, erano evidenti. Ed era evidente anche il modo in cui era gestito lo Stato greco. La seconda stupidaggine è sostenere che dal momento in cui è esplosa la crisi il resto dell’Eurozona sarebbe stato straordinariamente generoso con la Grecia. Anche questo è falso. È vero che i prestiti erogati dall’Eurozona e dal Fondo monetario internazionale ammontano alla smisurata somma di 226,7 miliardi di euro (circa il 125 per cento del Pil), più o meno i due terzi del debito pubblico complessivo, pari al 175 per cento del Pil. Ma la quasi totalità di questi soldi non è andata a beneficio dei greci: è stata utilizzata per evitare la svalutazione contabile di prestiti inesigibili a favore del Governo e delle banche del Paese ellenico. Solo l’11% dei prestiti è andato a finanziare direttamente le attività del Governo. Un altro 16% è andato a pagare gli interessi sul debito. La parte restante è stata usata per operazioni di capitale di vario genere: i soldi sono entrati e sono usciti fuori di nuovo.

Sarebbe stato più onesto soccorrere direttamente i creditori, ma era troppo imbarazzante. Come i greci fanno notare, l’abbuono del debito è una pratica normale. La Germania, che nel XX secolo è andata più volte in default sia per quanto riguarda il debito interno sia per quanto riguarda quello con l’estero, ne ha beneficiato più volte. Quello che non può essere pagato non sarà pagato. L’idea che i greci debbano accumulare grosse eccedenze di bilancio per una generazione per restituire il denaro che i Governi creditori hanno usato per salvare i creditori privati dalla loro sconsideratezza è un’assurdità. Che cosa bisogna fare allora? Si può scegliere tra la cosa giusta, la cosa comoda e la cosa pericolosa. Sostiene il direttore del dipartimento europeo del Fondo monetario internazionale che <l’Europa dovrebbe offrire un sostanzioso alleggerimento del debito, dimezzando il debito della Grecia e dimezzando il saldo di bilancio richiesto, in cambio di riforme>. Una cosa del genere, aggiunge, sarebbe coerente con l’obbiettivo di un debito notevolmente al di sotto del 110 per cento del Pil, concordato dai ministri dell’Eurozona nel 2012. Ma queste riduzioni non dovrebbero essere effettuate in modo incondizionato. L’approccio migliore è quello delineato dall’iniziativa sui “Paesi poveri pesantemente indebitati” avviata nel 1996 dal Fmi e dalla Banca mondiale. Secondo i criteri fissati da questo programma, l’alleggerimento del debito viene accordato solo dopo che il Paese debitore ha soddisfatto criteri di riforma ben precisi.

Un programma del genere sarebbe di grande beneficio per la Grecia, che ha bisogno di una modernizzazione politica ed economica. L’approccio politicamente più comodo è continuare a <estendere e pretendere>. Sicuramente ci sono modi per rimandare ulteriormente il giorno della resa dei conti. Ci sono anche modi per ridurre il valore attualizzato degli interessi e dei rimborsi senza ridurre il valore nominale. Tutto questo consentirebbe all’Eurozona di evitare di confrontarsi con le tesi di chi sosterrebbe l’opportunità morale di un alleggerimento del debito per altri Paesi colpiti dalla crisi, in particolare l’Irlanda. Ma un approccio del genere non è in grado di produrre quel risultato onesto e trasparente di cui c’è drammaticamente bisogno.

Contro l’austerità

(Thomas Piketty, Repubblica) Il trionfo elettorale di Syriza in Grecia potrebbe capovolgere la situazione dell’Europa e farla finita con l’austerità che mette a rischio la sopravvivenza del nostro continente e dei suoi giovani. Tanto più che le elezioni previste per la fine del 2015 in Spagna potrebbero produrre un risultato simile, con l’ascesa di Podemos. Ma perché questa rivoluzione democratica venuta dal Sud possa riuscire a modificare davvero il corso delle cose, bisognerebbe che i partiti di centrosinistra attualmente al potere in Francia e in Italia adottino un atteggiamento costruttivo e riconoscano la loro parte di responsabilità nella situazione attuale. Purtroppo, oggi il rischio è che i governi di Francia e Italia si accontentino di trattare il caso greco come un caso specifico, accettando una leggera ristrutturazione del debito del Paese ellenico senza rimettere in discussione alla radice l’organizzazione della zona euro. Perché? Perché hanno passato un mucchio di tempo a spiegare ai loro cittadini che il trattato di bilancio del 2012 funzionava, e oggi sono reticenti a ritrattare quanto detto. E quindi vi spiegheranno che è complicato cambiare i trattati, anche se nel 2012 gli bastarono sei mesi per riscriverli, e anche se è evidente che nulla impedisce di prendere misure di emergenza in attesa che entrino in vigore nuove regole. Ma farebbero meglio a riconoscere gli errori finché sono in tempo, piuttosto che aspettare nuovi scossoni politici, stavolta dall’estrema destra. Se la Francia e l’Italia oggi tendessero la mano alla Grecia e alla Spagna per proporre un’autentica rifondazione democratica della zona euro, la Germania non potrebbe fare a meno di accettare un compromesso.

Tutto dipenderà anche dall’atteggiamento dei socialisti spagnoli, attualmente all’opposizione. Meno falcidiati e screditati dei loro omologhi greci, devono tuttavia accettare il fatto che faranno molta fatica a vincere le prossime elezioni senza allearsi con Podemos, che stando agli ultimi sondaggi potrebbe perfino arrivare al primo posto. E non dobbiamo pensare, soprattutto, che il nuovo piano annunciato dalla Bce basterà a risolvere i problemi. Un sistema di moneta unica con 18 debiti pubblici e 18 tassi di interesse diversi è fondamentalmente instabile. La Bce cerca di giocare il suo ruolo, ma per rilanciare l’inflazione e la crescita in Europa c’è bisogno di un rilancio della spesa pubblica. Senza di esso, il pericolo è che i nuovi miliardi di euro stampati dalla Bce finiscano per creare bolle speculative su certe attività, invece di far ripartire l’inflazione dei prezzi al consumo. Oggi la priorità dell’Europa dovrebbe essere investire su innovazione e formazione. Per fare questo c’è bisogno di un’unione politica e di bilancio della zona euro più stringente, con decisioni prese a maggioranza all’interno di un Parlamento autenticamente democratico. Non si può chiedere tutto a una Banca centrale.

Pro austerità

(Andrea Mingardi, La Stampa) La politica italiana è litigiosa e polarizzata, ma su alcune cose destra e sinistra hanno più in comune di quanto lascino ad intendere. Per esempio, è convinzione generale che l’austerità ha fallito. Le differenze sono questione di sfumature: chi sta all’opposizione vuole uscire dall’euro, chi governa agisce per una maggiore flessibilità delle regole europee. Cambiano i mezzi, il fine è lo stesso: far ripartire il cuore dell’economia italiana, tornando a pompare denaro pubblico. Che cosa sia l’austerità, non è proprio chiarissimo. Solo alcuni anni fa si parlava di consolidamento fiscale, per riferirsi a quell’insieme di politiche che dovrebbero riportare il bilancio pubblico verso il pareggio. Il consolidamento fiscale può avvenire dal lato delle entrate, e cioè con un aumento della pressione fiscale, o da quello delle uscite, e dunque con una riduzione della spesa pubblica. Nella narrazione oggi prevalente, l’austerità “fallimentare” è proprio quella che coincide con la riduzione della spesa. Diminuire le spese pubbliche significherebbe mettere in discussione il nostro modello sociale, cosa a cui nessun politico è disponibile, perché teme una perdita di consenso.

L’esempio della Grecia è quello citato più spesso: l’austerità pilotata dalla Troika ha fatto il pieno di voti a Syriza e a Alexis Tsipras. Guardiamo però ai Paesi cosiddetti Piigs: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna. In Italia il consolidamento fiscale è passato per la riforma delle pensioni, per un inasprimento della pressione tributaria, soprattutto sugli immobili, e per una spending review che prima di arrivare alla fase operativa è sparita dalle pagine e dall’agenda politica. Negli altri Paesi, vi è stato un mix di interventi, sia sul fronte della spesa che su quello delle entrate, orchestrato in Portogallo, Irlanda e Grecia appunto dalla cosiddetta Troika. Le soluzioni sperimentate sono state sicuramente imperfette, ma hanno provato ad intaccare il corpaccione della spesa con maggior determinazione che dalle nostre parti.

Nessuno di questi Paesi pare avviato verso un turbinoso sviluppo alla cinese. Però le stime del Fondo monetario internazionale accreditano il Portogallo di una crescita di poco meno dell’1% nel 2014, l’Irlanda di una crescita del 3.6, Grecia e Spagna rispettivamente dello 0,6 e dell’1,3. Per il 2015, le aspettative di crescita sono dell’1,5 (Portogallo), del 3,0 (Irlanda), del 2,8 (Grecia) e dell’1,6 (Spagna). Poco? Può darsi. Ciascuno di questi Paesi aveva problemi e criticità già prima della crisi: non esistono panacee. Quel poco, però, è di più della crescita negativa del nostre Paese nel 2014 e di più dello 0,8 che Il Fondo monetario prevede per il 2015 (la Banca d’Italia prevede invece lo 0,4). Quello sull’austerità è un “dibattito filosofico-culturale”, come ha detto Matteo Renzi al Parlamento europeo Ma, quando affermano che l’austerità ha fallito, i nostri leader politici chissà a quale Paese si riferiscono. Negli stessi Piigs, il fallimento non è affatto evidente. Quanto all’Italia, perché l’austerità potesse fallire, prima avremmo dovuto sperimentarla.

Statali licenziabili?

(Lorenzo Salvia, Corriere) II governo riapre il delicato capitolo dei licenziamenti per i dipendenti pubblici. In commissione Affari costituzionali al Senato, l’esecutivo dovrebbe presentare un emendamento al disegno di legge delega per la riforma della Pubblica amministrazione. Dice l’emendamento, ancora in fase di studio, che si provvederà al riordino del procedimento disciplinare nei confronti dei dipendenti, con l’obiettivo di renderlo <più efficace ed efficiente>. Formula vaga per forza di cose, perché il testo in discussione è un disegno di legge delega, che si limita a fissare i principi da specificare poi con i decreti attuativi emanati direttamente dal governo. I tempi, quindi, non saranno brevi: prima di passare ai decreti bisognerà aspettare l’approvazione della delega che, a sette mesi dal via libera in consiglio dei ministri, è ancora in prima lettura al Senato. Ma con l’emendamento in arrivo, anche dopo il caso dei vigili urbani di Roma, la strada è tracciata. Cosa cambierà? Già oggi il procedimento disciplina re può portare al licenziamento. Ma i casi sono pochissimi, neanche 100 l’anno su 3,2 milioni di lavoratori. Nel futuro decreto il governo dovrebbe intervenire su tempi e passaggi formali che, nonostante i tanti interventi nel corso degli anni, restano lunghi e contorti. Sono invece arrivati in Parlamento per il parere non vincolante i due decreti attuativi del Jobs act, approvati alla vigilia di Natale. Confermate le notizie degli ultimi giorni, in particolare per il nuovo sussidio di disoccupazione che partirà dal primo maggio. Per far quadrare i conti, dopo i rilievi della Ragioneria di Stato, la durata massima del sostegno viene ridotta, a partire dal 2017, a 18 mesi, contro i 24 di quest’anno e dell’anno prossimo; mentre viene anticipato a quest’anno, rispetto al 2016, il taglio dell’assegno a partire dal quarto mese. Le novità più interessanti sono nella relazione tecnica. Per il 2015 si prevede che i sussidio avrà una platea di un milione e 540 mila persone. Mentre il costo di tutti i nuovi ammortizzatori per il 2015 è di 869 milioni di euro. Questo vuol dire che il resto dei fondo previsto dalla legge di Stabilità, circa 1,4 miliardi di euro, andrà alla vecchia cassa integrazione.

Pregiudizi sui pubblici dipendenti

(Lettera a La Stampa) La vicenda dei vigili urbani di Roma ha riportato al centro del dibattito gli impiegati pubblici e i presunti privilegi di questa categoria, per cui l’opinione comune invoca riforme per ridurre le prerogative di questo ceto, considerate causa della bassa efficienza del settore. Tali critiche spesso non hanno alcun fondamento fattuale, ma sono fondate su pregiudizi e luoghi comuni. Esaminiamo sinteticamente le principali critiche che puntualmente tornano in circolo. Prima critica. I pubblici dipendenti italiani sono troppi, andrebbero ridotti. Falso. Secondo dati Ocse aggiornati al 2013, in Italia ci sono 14,8 dipendenti ogni 100 occupati, in Francia 20, nella liberista Gran Bretagna 19,2. Seconda critica. In Italia non si possono licenziare i pubblici dipendenti. In verità, con la riforma Brunetta, è possibile licenziare il pubblico dipendente per varie fattispecie, tra le quali <per insufficiente rendimento lavorativo protrattosi per due anni, previo procedimento disciplinare>. Terza critica. I pubblici dipendenti guadagnano troppo e ci costano troppo. Il costo complessivo della Pa in Italia, 165 miliardi di euro, pari al 10,3% del Pii, è inferiore alla Francia, 13%, e alla Gran Bretagna, 10,6%. La retribuzione media di un Funzionario è di 26.000 euro lordi annui. Quarta critica. I dipendenti italiani aumentano sempre. In Italia, dal 2001, vige il blocco del turn-over che ha determinato, fonte Ragioneria dello Stato, una diminuzione del numero dei dipendenti pari a quasi 350.000 unità. Invece, i problemi della Pa sono la cattiva distribuzione del personale e l’età media elevata, 50 anni circa. Ed anche la qualificazione mediamente più bassa: in Italia solo il 34% dei dipendenti è laureato contro il 54% degli inglesi ed il 44% dei francesi. Cordiali saluti. Ettore Paolino

Etologia
La fedeltà dei cigni

(Danilo Mainardi, La Stampa) Il Lago dei cigni, balletto classico tra i più famosi sulle musiche di Ciajkovskij, è andato in scena di recente con interpreti tutti maschili, e la cosa ha destato una certo scalpore. Ma ciò ci permette di introdurre il tema del giorno. Parliamo dunque di questi meravigliosi animali che sono i cigni, penetriamo nella biologia e nello stile di vita di una specie, da sempre simbolo di eleganza, modello di fedeltà coniugale. È proprio così? La bellezza del cigno è indubbiamente sublime. Un’aura che gli viene soprattutto da quel collo lungo, ripiegato ed elegante, percorso da una sottile collana di piccole vertebre che lo rendono appunto flessuoso e snodabile. E che gli regalano posture aggraziate come nelle parate nuziali quando, ad esempio, prima di accoppiarsi, i due partners nuotano appaiati, reclinano il collo tuffando il capo, insieme e ripetutamente, in acqua. E che rendono signorile persino il pasto, fatto principalmente di erbe e radici, strappati con forza con becco e mandibole, consumandone anche qualche chilo al giorno. Un’eleganza che di colpo muta in terrifica minaccia quando in ballo c’è la difesa del territorio, del nido e della prole. Il collo proteso, le piume rigonfie ad aumentare la già imponente mole, accompagnano l’aggressività, manifesta soprattutto nei mesi primaverili. Minacce, inseguimenti e anche veri attacchi sono sferrati non solo a conspecifici ma anche a oche, anatre e, non di rado anche a persone che si avvicinano al nido. Sono noti attacchi a canoe e kajak. Colpiscono con la giuntura carpale dell’ala e possono ferire più che lievemente. È il maschio soprattutto a farsi avanti, ma la difesa della prole riguarda la coppia. Perché, è noto, il cigno vive in coppia, la stessa per tutta la vita. È monogamo e tutto di lui lo dice: non c’è alcun dimorfismo sessuale, cioè mancano caratteri distintivi fra i sessi, come di regola accade nelle specie che formano coppie stabili, per la vita. Non servono effetti speciali, come al pavone con la sua ruota, quando hai garantito per la vita il tuo partner al fianco. Il cigno è così: maschio e femmina non si distinguono. Ma merita davvero di essere simbolo di fedeltà coniugale? Le ricerche dicono proprio il contrario. Sono fedifraghi, i cigni. Lo dicono le analisi del Dna fatte da ricercatori che hanno rilevato nelle nidiate numerosi figli illegittimi, frutto di segreti convegni extraconiugali. Come si spiega? Certamente il patto monogamico è conveniente per allevare la prole, ma un pizzico di infedeltà fa bene. La femmina, tradendo, mette al mondo una prole con un’ampia, salutare, variabilità genetica. Il maschio accetta, diciamo così, il tradimento, perché mentre la femmina è impegnata in segreti convegni amorosi, lui si intrattiene con la femmina di un altro, estendendo la diffusione dei propri geni. Sarà bene dunque lasciar perdere i simboli. Dovrebbe farlo anche lo spettatore più critico, senza far caso al sesso di chi danza (come è successo appunto di recente in una versione del Lago dei cigni di Matthew Bourne, con il balletto tutto maschile) ma lasciandosi invece avvincere dalla bellezza dei corpi.

Consolazione degli esclusi

Quando depennarono San Gennaro dal calendario, sui muri di Napoli apparve una scritta: <San Gennà, futtitenne…> (Antonio Martino)

lorenzo.borla@fastwebnet.it

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