Due preferenze per il cittadino elettore

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LIVIO GHERSI

Negli organi d’informazione ritorna in modo ricorrente l’argomento delle possibili modifiche della legge elettorale vigente per l’elezione del Parlamento (legge 21 dicembre 2005, n. 270). E’ difficile comprendere quali orientamenti stiano realmente prevalendo. Si riscontrano molto nervosismo, esasperato tatticismo, i soliti “partiti presi” pro o contro il sistema maggioritario, pro o contro il sistema proporzionale.

La discussione è opaca. Considerato il livello degli attuali decisori politici, è opportuno non lasciarsi invischiare nelle loro beghe. La riforma elettorale, tuttavia, è questione troppo importante per ignorarla. Se ne può parlare in teoria, tanto per confutare qualche luogo comune utilizzato dai decisori politici.
Rientra nella logica democratica che gli elettori possano scegliere liberamente i propri rappresentanti in Parlamento, così come i propri rappresentanti nelle altre assemblee rappresentative, ai diversi livelli. E’ invece sicuramente antidemocratico che le Segreterie nazionali dei partiti predetermino i futuri eletti, perché i seggi spettanti, in base ai risultati delle elezioni, vengono attribuiti ai candidati secondo l’ordine in cui questi sono stati inseriti nelle liste circoscrizionali.

Il classico modo di scegliere è quello di esprimere preferenze. E’ falso che queste inquinino la vita politica, alimentando il bisogno di denaro per far fronte alle spese elettorali. In circoscrizioni elettorali non troppo ampie non ci sarebbe bisogno di spese elettorali fuori controllo. Dopo l’unificazione statuale, per lungo tempo in Italia la legge elettorale fu basata sui collegi uninominali. Si era scontenti e si parlava, non a torto, di Italia dei “notabili”. Tra i tanti sommovimenti prodotti dal primo conflitto mondiale, ci fu anche l’avvento del sistema elettorale proporzionale. Presidente del Consiglio dei Ministri era Francesco Saverio Nitti, quando fu approvata la legge 15 agosto 1919, n. 1401. Tale legge elettorale prevedeva collegi elettorali relativamente piccoli (spesso coincidenti con la dimensione provinciale), in cui, tendenzialmente, si eleggevano dieci deputati.

Chiedere il ripristino delle preferenze è, per alcuni, politicamente scorretto. Posto che non c’è più il tempo materiale per procedere alla delimitazione territoriale di nuovi collegi uninominali, è comunque l’unica via realisticamente percorribile affinché le modifiche approvate si applichino già alle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento (agli inizi del 2013).

Questo articolo intende difendere una causa che, a prima vista, apparirà ancora più politicamente scorretta. Qualora il sistema elettorale resti di impianto proporzionale, si potrebbe fare un buon passo avanti introducendo la facoltà di esprimere due preferenze (due soltanto), superando l’attuale regola della preferenza unica (adottata, ad esempio, nelle elezioni regionali ed in quelle comunali).
Ogni essere umano può sbagliare, pur agendo in buona fede e con le migliori intenzioni. Com’è noto, il 9 giugno 1991 si svolse un Referendum abrogativo per eliminare, dalla legge elettorale per l’elezione della Camera dei Deputati, la possibilità di esprimere preferenze per più candidati. Tra i promotori va ricordato Mario Segni; al tempo considerato un punto di riferimento dai tanti cittadini desiderosi di un sostanziale rinnovamento del sistema politico italiano. Un significativo sostegno alla proposta abrogativa fu dato da Achille Occhetto, ultimo Segretario del Partito comunista italiano (PCI) e primo Segretario dell’allora neonato Partito democratico della Sinistra (PDS). Continuo a pensare che Occhetto fosse umanamente preferibile a tanti altri dirigenti politici; forse per questo è stato fatto fuori. Suoi compagni, i quali furono inflessibili nel rinfacciargli i suoi errori, hanno poi mutato criteri di valutazione ed ancora calcano le scene, nonostante l’infinita sequela di errori che, a loro volta, hanno commesso. Del Comitato promotore di quel Referendum, molto trasversale, faceva parte anche il liberale Antonio Baslini.

A determinare il trionfo del “SI” all’abrogazione fu, però, Bettino Craxi. Al tempo Segretario del Partito socialista italiano (PSI). Non si preoccupò di motivare perché, a suo avviso, la tesi sostenuta dai referendari fosse troppo semplicistica, o sbagliata nel merito. Si limitò a consigliare agli Italiani di andare al mare, invece di votare. Sentendosi furbo, pensò di far fallire il Referendum puntando sul mancato raggiungimento del quorum minimo di votanti. Craxi era antipatico, arrogante, considerato più potente di quanto in effetti fosse (se fosse stato davvero tanto potente, non avrebbe fatto la fine che fece). Il suo appello all’astensione determinò una vera e propria mobilitazione di quanti erano anticraxiani viscerali, o contrari all’alleanza di potere fra DC e PSI, o insofferenti verso la partitocrazia, o tutte queste cose insieme.
Oltre ventinove milioni e seicentomila elettori (il 62,50 % degli aventi diritto) parteciparono al Referendum ed il “SI” prevalse con la percentuale del 95,57 %.

Da quel risultato scaturì la regola della preferenza unica. Tale regola, quasi fosse un principio dell’ordinamento giuridico, si applicò a tutte le leggi elettorali che, ai vari livelli di rappresentanza, prevedessero la facoltà dell’elettore di esprimere preferenze per candidati, oltre che il voto per la lista prescelta. Qui si coglie una prima esagerazione: un referendum abrogativo si riferisce ad una legge esattamente individuata e ha lo scopo di eliminare alcune disposizioni in essa contenute. Non ha una valenza di ordine generale; almeno non come necessità giuridica. Semmai come valutazione di opportunità politica.

Ancora più destituita di fondamento è la tesi che nel giugno del 1991 la questione della preferenza unica sia stata decisa una volta per tutte. L’unica regola stabilita dalle leggi che disciplinano l’istituto del referendum abrogativo è che, quando una proposta referendaria non venga accolta, non si può riproporla «prima che siano trascorsi cinque anni» (articolo 38 della legge 25 maggio 1970, n. 352). Non ci sono altri limiti temporali.
Dopo ventuno anni, non sta scritto da nessuna parte che l’opinione pubblica, prima, ed il Corpo elettorale, dopo, debbano continuare a riconoscersi nell’orientamento risultato prevalente nel 1991. L’esperienza deve pur insegnare qualcosa.

La mia personale conclusione è che nel 1991 ho preso una cantonata, seguendo quanti mi promettevano che la luna fosse a portata di mano. Nel tempo, mi sono convinto che sia ragionevole passare dalla regola della preferenza unica, che esaspera la competizione all’interno di una stessa lista, alla facoltà di esprimere fino a due preferenze, che consentirebbe un lavoro di squadra finalizzato a competere con le altre liste.
Tra una preferenza e due preferenze c’è una differenza sostanziale.
La maggior parte delle persone che accettano di far parte di una lista di candidati sono dei “portatori d’acqua”. Danno un contributo alla causa. Si candidano soltanto per raccogliere voti per la lista. Sanno in partenza di avere poche, o nessuna, probabilità di essere eletti.

Il criterio della preferenza unica è stupido perché mette tutti i candidati di una stessa lista l’uno contro l’altro. Per non esporsi a brutte figure pubbliche bisogna far votare se stessi e rincorrere ogni voto. Se ci fosse la possibilità di esprimere due preferenze (invece di una), i tanti “portatori d’acqua” sarebbero i primi ad impegnarsi per far emergere il più adatto, o i più adatti, a ricoprire la carica istituzionale elettiva. Anche nell’agire politico, infatti, vengono in considerazione dei talenti. Alcuni sono più portati all’ascolto ed alla mediazione. Altri hanno una preparazione specifica, ad esempio in politica economica e finanziaria, o in un determinato ramo del diritto. Altri ancora hanno un’oratoria trascinante e sono naturalmente dei leader. Una legge elettorale è buona se consente di scegliere i rappresentanti migliori (i più preparati, i più dotati, donne o uomini che siano).

Nel 1991 si sosteneva che attraverso le preferenze era possibile controllare il voto: è ovvio che questo argomento cade quando non vengono in considerazioni possibili combinazioni di sequenze numeriche. Come si potrebbe esercitare un controllo nelle singole sezioni quando i voti di preferenza da esprimere fossero soltanto due? Tanto più che l’elettore è tenuto a scrivere per esteso il cognome di ogni candidato prescelto.

Due preferenze farebbero molto bene alla conduzione democratica dei partiti. La realtà dimostra come, in tutti i partiti, si determini naturalmente una dialettica di posizioni. Ciò è fisiologico: è un portato della libera discussione. Oggi questa dialettica viene soffocata. Al momento, nei partiti, i congressi si vincono e si perdono a tavolino; vince chi controlla più iscritti (più tessere) ed ha il potere di far annullare un certo numero di nuove iscrizioni fatte dal gruppo competitore. I nuovi dirigenti sono cooptati dai vecchi dirigenti. Fanno carriera esibendo come titoli di merito il conformismo e la fedeltà. La regola delle due preferenze darebbe visibilità pubblica alle diverse posizioni esistenti in un partito. Gli affini si alleerebbero tra loro e chiederebbero consenso per la loro linea politica. Così, in ultima analisi, sarebbero gli elettori, con il loro voto, a far prevalere gli esponenti più rappresentativi di una tendenza piuttosto che di un’altra. E gli equilibri interni di partito dovrebbero adeguarsi al risultato elettorale.

Infine, due preferenze potrebbero favorire l’elezione di più donne. Non nel senso di prevedere la “preferenza di genere” che, intesa come obbligo, è contraria allo spirito del nostro assetto costituzionale attuale. L’elettore deve poter scegliere la persona di cui si fida e che stima, donna o uomo che sia. Potrebbe liberamente votare per due candidate donne, per due candidati uomini, per un uomo e per una donna. Per le donne, però, così si aprirebbero comunque maggiori opportunità.

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