Fumata (bianca) in Iraq

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di ANTONIO PICASSO

Dopo otto mesi, l’Iraq ha un nuovo governo. L’annuncio della formazione del secondo esecutivo presieduto da Nouri al-Maliki è stato seguito da una lunga serie di dichiarazioni ottimistiche e di soddisfazione, provenienti da tutte le rappresentanze politiche del Paese. Dopo una lunga resistenza all’idea di formare un governo di unità nazionale, che comprendesse anche i sunniti, il leader del Dawa (Stato di diritto) si è fatto convincere e ha aperto alla fazione opposta guidata da Iyad Allawi. In termini di incarichi al vertice, lo scenario politico di Baghdad non viene modificato in modo sensibile. Così come al-Maliki resta primo ministro, è quasi certo che la presidenza della repubblica resterà al kurdo Jalal Talabani. Del resto la carta costituzionale, impostata sull’esempio di quella libanese, impone una rigida distribuzione degli incarichi, nel rispetto delle divisioni etnico religiose. Il capo dello Stato si prevede che sia un kurdo, il premier uno sciita, infine la guida dell’Assemblea nazionale dovrebbe spettare a un sunnita.

Fin qui nulla da segnalare.
Tuttavia, il fatto che il capo del governo provinciale del Kurdistan, Massoud Barzani, abbia parlato di una vittoria di tutto l’Iraq stride con il risultato ottenuto da Paese. Le elezioni si erano tenute all’inizio di marzo. Da allora, il parlamento è stato capace di riunirsi solo tre volte. Di queste, le prime due sedute si sono miseramente concluse con un rinvio dei lavori a data da destinarsi. L’iniziale risultato delle urne, che aveva attribuito una netta vittoria per la coalizione sunnita dell’Iraqi National Movement (Inm), era stato messo in discussione dalla commissione elettorale. Questa, pilotata dal governo uscente, si era assunta la responsabilità del riconteggio delle schede. Tuttavia, effettuato il secondo controllo, non ha potuto far altro che confermare lo spoglio precedente. Stando a questo, l’Inm ha ottenuto una maggioranza relativa in parlamento rispetto al Dawa di soli due seggi. Lo scarto è apparso sufficiente per far cantare vittoria da parte di Allawi e per pretendere di entrare nel nuovo esecutivo. L’eventualità, tuttavia, non è stata accolta positivamente da al-Maliki, il quale nell’arco di questi otto mesi ha effettuato una snervante operazione di ostruzionismo contro la formazione del nuovo esecutivo. Questa ha bloccato tutta l’attività politica del Paese e ha permesso un sensibile incremento degli attentati nelle strade di Baghdad e di molte altre città. Questo periodo di tempo è apparso come un devastante spreco di risorse e di opportunità per tutto l’Iraq.

Maliki, convinto di avere l’appoggio del vicino Iran – da sempre sensibile alle sue necessità politiche, data la comune identità culturale – non si è fatto scrupolo di tenere il Paese sotto scacco. Nel frattempo le truppe Usa, come da accordi, si sono ritirate dal Paese. Obama, con un atteggiamento per certi aspetti frettoloso, ha preferito evacuare dal fronte iracheno, senza interessarsi delle ripercussioni che questa decisione – per quanto adottata ormai da tempo – avrebbe avuto in questi mesi tanto delicati. Dal gioco delle irresponsabilità, non sono rimasti estranei i sunniti. Allawi, per quanto fosse in pieno diritto di chiedere il riconoscimento delle preferenze di voto ottenute, solo dopo tanti mesi ha deciso di aprire a un compromesso con al-Maliki. Infine, la fronda kurda ha preferito restare a osservare, cercando di mantenere la propria regione autonoma all’interno di un cordone, per proteggerla dalle ondate di violenza che nel frattempo sono tornate a colpire il Paese. Il vuoto di potere a Baghdad, infatti, ha esacerbato gli animi. Le tribù sunnite, quelle che si erano dichiarate disponibili al dialogo con le istituzioni nazionali, hanno fatto dietro front. Al-Qaeda, a sua volta, di cui si era inneggiata la sconfitta per metro della surge di Petraues, ha saputo ricomporre le vecchie cellule, formarne altre e sfruttare l’occasione degli spazi offerti dalla smobilitazione dei Gi statunitensi.

Di questo disastro, i primi a farne le spese sono stati i cristiani. La loro comunità è caduta vittima di una persecuzione etnico-religiosa che, nelle ultime settimane, è incrementata in modo considerevole. Ancora ieri, è giunta in contemporanea la condanna sia da parte dell’Onu, sia da parte della Cei. La comunità internazionale ha stigmatizzato le stragi continue a cui sono soggette le chiese irachene. Tuttavia, bisogna riconoscere che, al di là delle dichiarazioni, non si può rilevare alcuna iniziativa concreta per fermare il massacro.

Tuttavia, non si può negare che la nascita del nuovo governo possa inoltrare Baghdad verso una nuova fase. L’auspicio è che questa sia di pacificazione del territorio e normalizzazione politica. La conferma di al-Maliki, per quanto finora non abbia dimostrato grandi doti di una leadership riconosciuta in maniera trasversale, può significare continuità. Elemento, questo, assolutamente prioritario per le istituzioni di Baghdad.

Ad Allawi, peraltro, è stata affidata la presidenza della commissione per la sicurezza nazionale: organo del tutto nuovo, ma ritenuto necessario per l’avvio di un dialogo tra tutte le forze politiche e in armi. In realtà, la scelta di dirottare il leader sunnita verso questo incarico può apparire come un’opzione accettabile, onde evitare nuovi attriti ai vertici del potere. Del resto, con la nascita di un soggetto collegiale responsabile prettamente della sicurezza, al governo viene sottratta la gestione di un importante settore delle sue attività. A questo punto si possono prevedere nuovi problemi per quanto riguarda la gestione delle risorse e la strategia da assumere. Al-Maliki potrebbe rivendicare la sua autonomia decisionale in materia. Allawi invece, con la sua commissione, potrebbe bloccarlo.

Al di là di questi rischi – che comunque non possono essere sottovalutati – c’è da dire che adesso l’Iraq ha il suo nuovo governo. Questo significa che non sussistono più le attenuanti per procrastinare una politica di ricostruzione del Paese. Come richiesto da al-Maliki, le truppe Usa hanno abbandonato il campo nei tempi indicati. Ora anche coloro che, all’interno delle istituzioni parlavano di invasione da parte di Washington, non possono recriminare più nulla. Il capitolo della presenza di un esercito straniero può dirsi sostanzialmente concluso. Certo, resta la Nato con la sua Training Mission, operativa per l’addestramento delle nuove forze armate e della polizia nazionale. Ma di questa non si può parlare di occupazione.

In sostanza, Al-Maliki ha saputo conservare il potere ed evitare eventuali fratture con la Casa Bianca, e nemmeno con l’Iran. Questo vuol dire che la sua credibilità a livello internazionale, sebbene non di alto livello, non è stata scalfita dalle sue spregiudicate tattiche di conservazione del potere durante questi otto mesi. La conclusione merita di essere dedicata alla situazione economica. Le risorse di idrocarburi continuano a essere un’opportunità da sfruttare alla quale nessuna major del petrolio intende rinunciare. Le ultime stime parlano di riserve pari a110 miliardi di barili di petrolio e di 317 trilioni di metri cubi di gas, entrambi estraibili. Le grandi multinazionali di tutto il modo sono pronte a tutto, mettendo magari a repentaglio la vita dei propri tecnici, pur di metter mano ai pozzi di Kirkuk, Mosul e del sud del Paese. Soprattutto in questo momento in cui le sanzioni al regime di Teheran stanno spingendo a una smobilitazione generale dai giacimenti iraniani. Del resto, è stato proprio grazie al petrolio che almeno il Kurdistan ha raggiunto l’agognata stabilità politica e un nuovo benessere economico. La comunità internazionale potrebbe far pesare proprio questa prospettiva al nuovo governo al-Maliki. Continuità in cambio di investimenti a cascata. Così era successo con il clan kurdo dei Barzani. Perché allora non estendere la stessa strategia al resto dell’Iraq?

Pubblicato su liberal del 12 novembre 2010

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