Gazprom e il gas come nuovo strumento di politica estera russa

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di ANTONIO PICASSO

La strategia russa di ricorrere al gas naturale come suo strumento di potenza è ormai confermata. Nemmeno questa querelle energetica aperta dal Cremlino contro la Bielorussia si minimizzare a un mancato accordo sul prezzo delle bollette. Al contrario si tratta di una manovra politica studiata a tavolino ormai più di cinque anni fa.

Ieri il Presidente russo, Dimitri Medvedev, ha accettato la proposta della Gazprom di tagliare le forniture di gas metano alla vicina Bielorussia per un iniziale quantitativo del 15%. Non è escluso però che, nelle prossime settimane, i rubinetti vengano chiusi per tre quarti della loro portata attuale. Di fronte a questa minaccia il Governo di Minsk ha replicato la sua intenzione di iniziare a saldare il debito. L’obiettivo di Mosca è, così facendo, cominciare ad assorbire il credito che vanta con la Repubblica a lei satellite. Secondo i calcoli di Gazprom si arriva a 200 milioni di dollari circa. D’altra parte, Minsk è in piena recessione economica e il regime autoritario di Alexandr Lukashenko non permette al Paese un rilancio produttivo. È facile quindi per la Russia prendere questo piccolo alleato per la gola, ribadendo la sua influenza nei confronti di tutte le ex Repubbliche sovietiche che, dopo il 1991, si sono dichiarate indipendenti.

Un’indipendenza sulla carta, però, come si è visto più volte con l’Ucraina, nel Caucaso e soprattutto in Asia centrale. La debolezza politica ed economica espone questi giovani Paesi agli appetiti dell’Orso del Cremlino, il quale ne approfitta e ribadisce all’Occidente che la “Nuova Russia” dev’essere tutt’altro che sottovalutata. C’è un metodo in questo percorso, nella cui ripetitività stagionale l’Unione europea si fa prendere puntualmente contropiede. Un circolo vizioso dal quale Bruxelles non riesce a svincolarsi.

Per Gazprom giugno è il mese di bilancio della stagione invernale appena conclusa. Tirate le somme, il suo Amministratore delegato, Alexei Miller, si reca al Cremlino per ottenere il vaglio di Medvedev e del Primo ministro, Vladimir Putin. Sulla base dei prezzi di mercato del gas naturale – attualmente intorno al 2,8 dollari al metro cubo – Mosca stabilisce unilateralmente gli importi di produzione, acquisto e vendita della materia prima. È una strategia di mercato che viene poi introdotta con l’arrivo dell’autunno successivo. Ogni volta si ripete la stessa scena: Gazprom decide il valore del gas estratto dai suoi giacimenti in Siberia, di quello comprato in Kazakhstan, Turkmenistan e Uzbekistan, infine impone la cifra maggiorata ai suoi primi e diretti acquirenti, Bielorussia e Ucraina. In un secondo momento apre i negoziati con l’Ue. Non appena i rispettivi governi di Kiev e Minsk ammettono di non poter affrontare simili spese, si apre una serie di trattative fittizie, che Mosca ha già vinto in partenza. La Gazprom infatti preferisce non negoziare sul prezzo, bensì sulla quantità fornita. L’accordo del 21 aprile scorso fra Medvedev e il suo omologo ucraino, Viktor Janukovic, ha previsto una riduzione del 30% delle forniture di metano dalla Russia all’Ucraina. Mosca ha inoltre ottenuto una proroga di 25 anni per l’usufrutto della base navale militare di Sebastopoli, nel Mar Nero. Questa era stata il quartier generale della Flotta meridionale della Marina sovietica e prima ancora per quella gli zar. Dopo il 1991, tutta la Crimea è passata sotto la giurisdizione di Kiev, ma alle sue banchine sono rimasti attraccati i sottomarini e le navi russe.

Dalla contrattazione in corso con Minsk, anch’essa favorevole solo per la Russia, il guadagno per quest’ultima è economico, ma altrettanto strategico. Finché Lukashenko resterà al potere, Mosca sa che la Bielorussia non sarà territorio di conquista per l’Occidente. La totale mancanza di democrazia e Stato di diritto escludono Minsk dal novero degli interlocutori della Nato e dell’Unione europea. Il Presidente Lukashenko non può far altro che mettersi sotto le ali protettive del Cremlino e sottostare alle sue decisioni. Da un lato quindi la Gazprom gli impone una quota di gas ridotto di quantità e a prezzi maggiorati. Dall’altro il territorio bielorusso assume il ruolo di un’appendice strategico-difensiva proiettata nel cuore dell’Europa centrale.

La strategia porta a un duplice guadagno. Per la Gazprom si tratta di un recupero di gas naturale, invenduto alla Bielorussia e quindi reindirizzabile su altri mercati, prevalentemente quello europeo. In questo modo la compagnia riesce a rispondere positivamente alle richieste di idrocarburi che le giungono da Occidente, per le quali le sue riserve in Siberia si stanno dimostrando insufficienti.

Eurogas, l’istituto statistico di Bruxelles responsabile del settore, ha calcolato che, nel 2009, la domanda di gas naturale dell’Ue è stata di 480 miliardi di metri cubi, a fronte di una disponibilità di Gazprom non superiore ai 510 miliardi. Stando così, siamo a un equilibrio di mercato che esclude per la compagnia di Stato russa la possibilità di dotarsi di una riserva in caso di emergenza. “È altamente probabile che in un futuro non molto lontano, la Russia non sarà in grado di rispondere positivamente alla richiesta di idrocarburi che le perviene dalle macchine industriali europee”, la dichiarazione è stata rilasciata a Vienna ancora all’inizio dello scorso anno da Alexandr Golovin, Ministro plenipotenziario del corpo diplomatico del Cremlino. A fronte di questo, è automatico che Gazprom preferisca vendere ai Paesi ricchi e non alla disastrata Bielorussia, andando a recuperare altri giacimenti fuori dai confini nazionali, vale a dire in Caucaso e Asia centrale. Anche qui i regimi sono quasi tutti assoggettati a Mosca. Questo è il secondo elemento di vantaggio per Medvedev. L’influenza politica che il Cremlino sta pazientemente ricostruendo intorno alla Santa Madre Russia ha come “ariete di sfondamento” la sua compagnia di idrocarburi.

A questo punto non si capisce per quale motivo Bruxelles possa sentirsi non coinvolta nel risiko moscovita che ieri ha annichilito la Bielorussia. È vero, le minacce del Cremlino restano limitate ai suoi satelliti, perché solo nei loro confronti Medvedev e Putin possono permettersi di comportarsi con prepotenza. Tuttavia l’espansionismo russo è sempre stato di carattere difensivo e volto a risolvere la sua paura di accerchiamento. È una psicosi che covava già nella Russia zarista, che si è mantenuta con l’Urss e resta tuttora in vita. Oggi i timori nutriti a Mosca hanno origine nella crescente influenza della Cina a est e nella volontà della Nato di intervenire come soggetto monolitico nelle varie criticità della comunità internazionale. Non è un caso che la Russia non abbia mai nascosto il proprio disappunto in merito al fatto che sia l’Alleanza atlantica a gestire la crisi afghana, su mandato dell’Onu. Di conseguenza, per fronteggiare gli avversari occidentali – Nato vuol dire Stati Uniti ed Europa – e quelli asiatici (Cina, ma anche India), Mosca non può che sottomettere i suoi satelliti con l’interminabile ricatto del gas. Di questo l’Ue deve esserne cosciente.

pubblicato su Liberal il 22 giugno 2010

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