La tirannia del gentismo

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di SARO FRENI

Se il liberalismo ha oggi un nemico, questo è il populismo. E’ il nemico più insidioso, più subdolo e sfuggente. Si insinua nelle pieghe del nostro discorso pubblico e lo inquina senza dare troppo nell’occhio. Si presenta sotto le rassicuranti spoglie del buon senso, della saggezza popolare, ma è una truffa ideologica. Contestare questo andazzo è pericoloso: si rischia di fare la figura degli snob.
Non è il buon vecchio qualunquismo. O forse è il qualunquismo rimesso a nuovo, che vive e prospera in un contesto a esso favorevole. La politica odierna si fa in tv, e la tv vuole messaggi semplici. Il semplicismo, però, mal si concilia con la complessità del reale.
E’ un populismo moderno, televisivo. Il populismo ai tempi del talk-show. La televisione, del resto, è intrinsecamente populista. Sartori ne parla in un libro sempre più attuale, Homo videns, e non possiamo non dargli ragione.

Usciamo dalle astrazioni e facciamo un esempio. La Lega. E’ un partito forte, strutturato, pratico.
Prende un sacco di voti, e non glielo si può certo rimproverare. Il suo stile di comunicazione ha fatto breccia nell’elettorato. All’inizio degli anni Novanta, il suo linguaggio senza perifrasi ruppe alcuni tabù e introdusse corpose dosi di schiettezza in una politica paludata e parruccona.
Per certi versi fu un bene. Nei “ragionamendi” degli “intellettuali della Magna Grecia” (Ciriaco De Mita, secondo la beffarda definizione di Gianni Agnelli) c’era più fumo che arrosto, più chiacchiera che filosofia. L’aria fritta dominava incontrastata.
Nessuno, se non qualche nostalgico, vuole riportare all’onor del mondo quell’autocompiacimento sussiegoso, quel parlare criptico e allusivo. Della Prima Repubblica, quello era l’aspetto degenere, da non rimpiangere.
La classe politica di quel tempo aveva un’alta opinione di se stessa. Forse si sopravvalutava.
Riteneva indispensabile la sua funzione di mediazione nei processi economici e sociali. Era invadente e paternalista: aveva in mente una società minorenne da guidare e dirigere, istruire ed educare, evitando che si facesse troppo male camminando da sola.

Sentendosi così importante, la vecchia politica, produceva una élite autoreferenziale e altezzosa.
Tuttavia, bisogna riconoscere che quella classe dirigente aveva uno spessore maggiore dell’attuale.
Era più presentabile e preparata. Coltivava il vizio dell’ideologismo, ma anche la virtù della riflessione.
Il qualunquismo, certo, si era già presentato all’orizzonte: Giannini e il suo movimento, il Fronte dell’Uomo qualunque, avevano mietuto consensi subito dopo la guerra. Nel nome dell’antipolitica, Giannini metteva alla berlina la nuova dittatura, quella dei partiti, che aveva sostituito l’antica: quella del Partito. Il suo motto era: “Non rompeteci i c…”. I suoi nemici: il vento del Nord e l’epurazione.
Ma Giannini, poco avvezzo alla politica, commise alcuni errori tattici, tra cui quello di cercare un’alleanza con Togliatti, in odio alla Dc. I suoi elettori non capirono e lo abbandonarono. La Dc si coprì a destra, prendendo posizioni più risolute contro i socialcomunisti, e il partito del commediografo declinò.
Il termine qualunquismo nacque, dunque, con Giannini. Ma i sentimenti di distacco verso la politica esistevano pure prima, e continuarono ad esistere anche dopo.

Per tutta la Prima Repubblica, la parola qualunquismo fu usata in senso dispregiativo. Era sinonimo di apatia e disinteresse. Questo quando la politica aveva una reputazione, e non palpitare per essa era considerato disdicevole. Il qualunquismo era un atteggiamento screditato, di cui non sfar sfoggio. Gli elettori genericamente qualunquisti canalizzavano i loro voti verso i partiti di governo, turandosi il naso. Qualcuno votava Msi, per protesta.
I partiti, a cominciare dalla Dc, mediavano questi malumori, offrendo un approdo politicamente accettabile e smussandone le asprezze protestatarie.
Dopo Tangentopoli, il mugugno antipolitico trovò nuova linfa e, soprattutto, una nuova legittimazione. Non fu più un sentimento socialmente esecrabile. In quel momento, sotto accusa era la politica, e i qualunquisti mascherati si prendevano una tardiva rivincita. Ora si poteva finalmente dire che la politica è un magna magna, che tutti sono uguali perché tutti rubano allo stesso modo.
I politici del nuovo corso, per espiare la colpa di far parte – in un modo o nell’altro – del teatrino, dovevano almeno parlare come parla il popolo: pane al pane e vino al vino. Il politico non doveva più far parte di un’élite irraggiungibile, ma piuttosto essere uno di noi.

Nella foga, però, si passò da un eccesso all’altro. Dal sacerdote di un rito esoterico e misterioso, il politico ha iniziato a presentarsi come un compagno di bevute all’osteria. E la politica si è trasferita dal sinedrio al bar sport.
Non è soltanto una questione di stile, di sintassi e di congiuntivi. La povertà del linguaggio rivela la limitatezza del pensiero. Così, hanno preso piede discorsi banalotti, elementari, intessuti di slogan e animati da una ideologia minimalista fatta di luoghi comuni e buon senso spicciolo.
Una volta non avrebbero trovato udienza, adesso informano il pensiero dominante.
Protagonista di questa ideologia è la Gente, entità vaga e indefinita quasi più del Popolo. Tutte le astrazioni collettive sono arbitrarie ma la Gente, se possibile, le batte tutte. La Gente, saggia e onesta, è custode di tutte le virtù, al contrario dei politici di professione o degli intellettuali perditempo.
Come detto, i politici della Lega ricorrono spesso alla retorica della gente e si accreditano come i più autorevoli interpreti dei suoi umori. Si presentano come i vendicatori dell’uomo medio contro le malefatte di tutte le élites. Chiunque si diletti a guardare i dibattiti politici in tv sa bene che, ad un certo punto, il politico leghista tira fuori il suo asso nella manica. In genere è: “Alla gente non interessano queste discussioni”. Ma può anche trattarsi dell’altrettanto formidabile: “Noi stiamo tra la gente”. Gli interlocutori, in genere, vanno al tappeto.

Ma vanno al tappeto perché vogliono gareggiare anch’essi sul terreno del gentismo, che è un campo infido. Non riescono ad esibire nessuno scatto d’orgoglio, temendo di passare per elitari. Un politico che comprenda il senso del suo ruolo, invece, dovrebbe rivendicare la missione delle élites.
Dovrebbe dire che tra i compiti di una classe dirigente c’è anche quello di spiegare le cose difficili e di realizzare quelle impopolari.
Invece nessuno si ribella a questo cliché, a questa demagogia da due lire fatta di ruffianeria esemplicismo.
O meglio: qualcuno c’è. Iniziamo a contarci?

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