Non è la migliore, delle leggi possibili – Zibaldone n. 399

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(LB) I miliardi di parole che sono state spese, dentro e fuori il Parlamento, sulla legge elettorale testé approvata, sono da ricondursi probabilmente alla naturale loquacità dei popoli mediterranei e, nel caso italiano, all’iperlegalismo, iperformalismo, iper giuridicismo (siamo o no la patria del diritto?) ma anche all’ipopragmatismo, tipico nostro nell’affrontare i garbugli. La memoria però è breve: ci siamo dimenticati che già gli stessi tormenti li abbiamo attraversati quando si è deciso di adottare il Mattarellum, poi rimasto in vigore fino al 2005 con buona pace di tutti. E poi cambiato da Berlusconi non per avere un sistema migliore, ma più favorevole a se stesso. <Le disquisizioni interminabili sulla legge elettorale Mattarellum divennero la fissazione di giuristi, costituzionalisti e politologi che invasero l’agenda politica con colpi micidiali di variabili alla spagnola, alla francese, all’australiana, con e senza scorporo, con o senza premio. L’interesse dei cittadini rasentava lo zero, ma nel piccolo universo della politica e dei suoi commentatori, discettare di legge elettorale sembrava un esercizio obbligatorio> (Pier Luigi Battista, “Corriere”). Il punto è – come ha scritto Felice Besostri – che le possibili varianti costituzionali a una legge elettorale sono solo di quattro tipi: proporzionale senza sbarramento e con soglia di sbarramento, maggioritario secco (“first past the post”) come in Inghilterra, e maggioritario con ballottaggio (come in Francia). Il resto, dice Besostri, sono leggi truffa. Evidentemente noi italiani siamo troppo sofisticati per accontentarci di una delle quattro ipotesi. Abbiamo bisogno di metterci del nostro. Non dimentichiamo però la genesi di questa legge: Renzi aveva bisogno dei voti di Berlusconi al Senato e quindi ha accettato dei compromessi. Con il risultato (un esempio per tutti), che il giullare Brunetta ha votato a favore di questa legge, e poi, identica alla Camera, ha votato contro. Ma non disperiamo: fra qualche settimana, se non fra pochi giorni, non ne parlerà più nessuno. Per cui vi infliggo ancora qualche articolo sul tema, e poi basta.

(Federico Geremicca, La Stampa) Il succo di quel che è accaduto nell’aula di Montecitorio sulla legge elettorale è che Matteo Renzi – giungendo a ventilare perfino la caduta del governo e le elezioni anticipate – ha vinto, incassando la sua trentasettesima fiducia; e che le minoranze interne – confuse e divise – hanno subito una pesante sconfitta. Che si tratti di una vittoria di Pirro o di una disfatta definitiva, lo diranno le prossime settimane. Ma in tutta evidenza c’è un grosso problema politico nel rapporto tra il premier ed una parte non insignificante del suo partito. C’è un’evidente sproporzione, infatti, tra gli argomenti e soprattutto i toni messi in campo nel lungo confronto, e gli atti conseguenti che avrebbero dovuto (dovrebbero) far seguito a un voluminoso vociare.

In questi mesi, dell’Italicum si è scritto e detto di tutto: sgombrando il terreno da faziosità e propagandismi, si può forse concludere – banalmente – che quella approvata non è la migliore delle leggi possibili, ma è senz’altro preferibile all’orrendo e cancellato Porcellum (ed è migliore del Consultellum che non permetterebbe di governare). E che, soprattutto, la legge in questione non pare un mezzo sufficiente a trasformare la pur affaticata democrazia italiana in un regime dittatoriale. Eppure, è proprio questa l’accusa più pesante lanciata contro Renzi, nella sua doppia veste di capo del governo e segretario del Partito democratico. Fin che si tratta di Renato Brunetta, a invitare il Parlamento alla resistenza contro il “fascismo renziano”, c’è poco da dire: Brunetta è un giocoliere delle parole e delle idee, e non va preso sul serio. Ma il discorso si fa diverso quando a sposare le stesse tesi – con toni solo più allusivi – sono leader di primissimo piano del Partito democratico.

<Una violenza al Parlamento>, ha accusato Roberto Speranza, capogruppo dimissionario alla Camera. <E’ la logica inaccettabile del “qui comando io”> ha fatto sapere Enrico Letta. <Non è più il mio partito, qui è in gioco la democrazia> ha avvertito Pier Luigi Bersani. Lungi dall’entrare nel merito delle accuse mosse – perfette per stigmatizzare il comportamento di un avversario politico – quel che qui si mette in questione è altro: e cioè, se e quando a tali analisi corrisponderanno scelte e comportamenti conseguenti e coerenti. Non è da ieri, infatti, che le minoranze interne al Pd contestano – con intensità variabile – qualunque provvedimento proposto dal governo: dal Jobs act alla riforma del bicameralismo, le accuse piovute sul premier sono andate dal “populista” (buona per tutte le occasioni…) al “servo dei padroni”. Ripetiamo: non è qui in discussione la fondatezza di tali contestazioni, ma piuttosto l’insostenibilità di un comportamento (un po’ dentro e un po’ fuori) che rischia di minare, prima di tutto, la credibilità e la coerenza di chi lo pratica.

Per chi non gira troppo intorno alle cose, è infatti inspiegabile che si resti in un partito che non si sente più proprio; e ancor meno comprensibile risulta continuare a sostenere un governo accusato di far violenza al Parlamento. Perché delle due l’una: o si crede davvero in quel che si dice – e ci si comporta di conseguenza – oppure no, e allora si è di fronte a fenomeni di autolesionismo nei confronti della stessa “ditta”. A meno che, naturalmente, il vero obiettivo non sia l’evocata rivincita congressuale: ma il Congresso del Partito democratico è lontano due anni, e nessuno – si spera – è così mentecatto da augurarsi un Vietnam che duri 24 mesi…

Imperfetta ma non pericolosa

(Ugo De Siervo, La Stampa) Malgrado tante critiche perentorie e spesso eccessive, mosse tattiche ed appelli in difesa della nostra democrazia parlamentare, siamo arrivati all’adozione da parte del Parlamento di quella che dovrebbe essere la nuova legge elettorale. Un testo che può sollevare vari dubbi e che avrebbe potuto essere ancora migliorato, ma che certo non può essere considerato come pericoloso o stravolgente: si tratta di una legge che mira esplicitamente a favorire la forza politica maggioritaria, garantendole la maggioranza alla Camera dei deputati, ove consegua almeno il quaranta per cento dei voti al primo turno o altrimenti la maggioranza al ballottaggio fra le due liste più votate

Si i tratta, in buona sostanza, di un sistema misto che cerca di salvare, per la parte non interessata dal premio di maggioranza, il sistema proporzionale, mediante il quale sarebbero comunque rappresentate le altre forze politiche; certo, in questo modo si rende palese il vantaggio dato alla forza maggioritaria, ma risultati del tutto analoghi o anche più incisivi derivano dal funzionamento dei sistemi elettorali maggioritari, che esistono in grandi democrazie analoghe alla nostra (basta pensare al Regno Unito o alla Francia). Negli anni passati sono state innumerevoli le critiche ai sistemi proporzionali, mentre erano diffusissime le proposte di tipo maggioritario.

Analogo scarto fra ciò che si diceva e ciò che ora si sostiene criticando il nuovo testo legislativo, riguarda le preferenze mediante le quali selezionare i candidati all’interno dei vari partiti: avrebbe potuto certamente essere migliorato il punto di equilibrio che è stato configurato fra i capilista ed i candidati da scegliere con le preferenze; ma occorrerebbe ricordarsi anche delle critiche severe che per anni sono state sollevate contro la possibilità che gli elettori esprimessero preferenze. Poi appare davvero sgradevole che ora i candidati dei vari partiti sottratti alle preferenze vengano sprezzantemente definiti “nominati” perfino dagli attuali parlamentari, che sono stati a suo tempo tutti nominati in applicazione della legge che vigeva.

Se occorre quindi essere consapevoli che non esiste una legge elettorale perfetta, tuttavia non può sottovalutarsi che il testo adottato presenta un problema serio, perché prevede che ancora per quattordici mesi il nuovo sistema elettorale non possa essere applicato: in tal modo si è cercato di garantire un coordinamento con il decreto costituzionale che elimina – tra l’altro – l’elezione diretta dei senatori ed anche di rassicurare i partiti ostili ad ogni anticipazione delle elezioni politiche. Ma adesso una norma del genere rende del tutto incerta quale sia la legislazione elettorale applicabile nel nostro Paese fino all’inizio del luglio 2016: dinanzi ad una situazione di assoluta necessità, ove si imponessero elezioni anticipate, con quale legge si dovrebbe votare per la composizione della Camera e del Senato? Applicando l’incompleto ed opinabile sistema elettorale di tipo proporzionale riscritto dalla Corte costituzionale nella sentenza 1/2014 o tentando avventurosamente di eliminare mediante un decreto legge la norma transitoria? Tutto ciò senza pensare all’eventuale paradosso di far rieleggere ancora una volta il Senato, per di più con un sistema proporzionale. Sarebbe stata opportuna una maggiore riflessione su tutte le conseguenze di accelerare tanto l’adozione di questa importante legge.

La vera minaccia alla democrazia
è l’incapacità di decidere

(Michele Salvati, Corriere) Questa fase della vita politica italiana – il “tutti contro Renzi” sul tema della legge elettorale – sembra la meno adatta a riflessioni pacate sulle radici della crisi che stiamo vivendo. Perché l’ostilità e l’insofferenza della minoranza per il segretario sono ancor più intense di quelle manifestate dai partiti di opposizione, cosa che spesso avviene nei conflitti in famiglia. E nessuno, credo, è convinto che queste difficoltà siano dovute a incomponibili conflitti sul merito, come invece la minoranza vorrebbe far credere. Tanti commentatori ci hanno già ricordato, con nomi e date, che una concezione di democrazia maggioritaria come quella adottata dall’attuale proposta di legge elettorale era già discussa e largamente accettata all’interno dei partiti dell’Ulivo, e che l’idea di un Senato senza potere fiduciario e invece con ima funzione di rappresentanza delle autonomie, era un obiettivo sul quale esisteva un ampio accordo. Anche sul rafforzamento del ruolo del presidente del Consiglio, pur temperato da istituzioni di garanzia che il progetto Renzi lascia inalterate nei loro poteri, il consenso nei partiti dell’Ulivo, poi confluiti nel Partito democratico, era molto ampio. E lascio da parte l’incredibile polemica sulle preferenze: contro le preferenze era schierato l’intero ex Pci e una parte non piccola di Margherita.

Facciamo allora un piccolo esperimento intellettuale e poniamoci la seguente domanda ipotetica: se le riforme che ora vuol fare Renzi le avesse proposte Bersani con l’avallo del vecchio gruppo dirigente ex comunista ed ex democristiano – che non è un’ipotesi inverosimile – ci sarebbe forse stato imo scatenamento polemico di questa intensità? Che arriva a riesumare il vecchio slogan di “minaccia alla democrazia” già usato ai tempi di Berlusconi? Quali tabù ha toccato Renzi per suscitare questa reazione? Non può trattarsi solo della comprensibile resistenza di un ceto dirigente sconfitto: in un partito sano la sconfitta si archivia e ci si prepara a una rivincita in futuro, confidando che i fatti e la propria azione politica dimostrino l’erroneità della linea adottata dal leader.

In gioco c’è qualcosa di più grosso, ed è il passaggio da una concezione di partito a un’altra. Da un partito di notabili in servizio permanente effettivo, in cui la strategia del partito emerge da accomodamenti e mediazioni continue, a un partito del leader il quale giudica quando il tempo delle mediazioni è finito e l’ulteriore dilazione nella decisione contrasterebbe con l’efficacia della decisione stessa. Un partito che non guarda prevalentemente al proprio interno, ma guarda alla sua azione di governo e al consenso che questa può riscuotere nel Paese. Se si aggiunge che mirando al successo esterno e non alla conservazione delle oligarchie e dei santuari ideologici – il leader può essere indotto a forti modifiche delle strategie adottate in passato, si vedono bene i tabù che Renzi ha abbattuto e si capisce la violenza della reazione: l’opposizione è stata sbalzata in un mondo radicalmente estraneo a quello cui si era assuefatta. Il governo del leader non è una minaccia per la democrazia – non siamo a Weimar – ma un tentativo di conciliare democrazia e capacità di decisione, nella consapevolezza che la vera minaccia della democrazia è la sua incapacità di decidere.

Proporzionale sì, proporzionale no

(Felice Besostri, Circolo Rosselli) Se il legislatore non vuole rispettare i principi della sentenza della Corte costituzionale numero 1/2014, adotti un sistema elettorale maggioritario. L’abbiamo detto davanti alla Corte: da noi sarebbe persino legittimo un maggioritario britannico. Non si può prendere un sistema proporzionale e poi alterarlo con un premio di maggioranza. Perché non si adotta semplicemente un sistema maggioritario? Perché non è manipolabile. Bisogna avere la maggioranza dei seggi, da conquistare uno per uno.

Quale democrazia?

(Elirs Roel, Circolo Rosselli) Le preoccupazioni di molti per l’antidemocraticità dell’Italicum sono forse fondate. Ma… si ha l’impressione di assistere alla chiusura delle porte dopo la classica “fuga dei buoi”. In che senso? Che cosa è avvenuto nel paese prima dell’Italicum? Forse che dopo la ventata dei primi decenni della Repubblica, con la garanzia dei “padri fondatori”, non si sia verificato un decadimento progressivo per opera dei furbastri, dei carrieristi, dei demagoghi, degli arrampicatori? Non è forse senza l’Italicum che abbiamo avuto tangentopoli e il dilagare in tempi più recenti della corruttela e delle devianze diffuse? Tanto che la gente risulta ormai sfiduciata e gli appelli restano inascoltati. La prova è data dalla metà degli elettori che non si reca più alle urne e se non ci fosse stato il movimento di Grillo, l’astensionismo sarebbe salito alle stelle. Che la “democrazia costituzionale e repubblicana” ce la siamo “giocata” da tempo. Emblematico è il più recente esempio di “democrazia”, cioè quello del presidente dimissionario dell’Anas, con doppia o tripla retribuzione e con una liquidazione milionaria, pur con i ponti crollati e pagati dal pubblico. A pensare che il metà dei pensionati vive con 500 euro… Che dire della “democrazia” dei boiardi di Stato, dei tengentisti, della partitocrazia e del saccheggio del denaro pubblico? In quale spazio della “democrazia” inseriamo i Trota, i Penati, i Batman, i Frigeri, gli immarciscibili Greganti, i Belsiti, eccetera… A quale “democrazia” appartengono alcune cooperative che lucrano anche sulle disgrazie della gente? Della “democrazia” senza Italicum fanno parte anche le caste, le supercaste, il familismo, parentopoli, il clientelismo, i vitalizi, le tante regioni infiltrate dalla mafia, i 60 mld della corruzione, i 120 dell’evasione, le migliaia di opere incompiute, gli sprechi senza ritegno, i politici e i politicanti più pagati d’Europa, gli stipendi e i salari più bassi, eccetera… Ricordo anche che proprio con la “democrazia senza Italicum” un governo di sinistra varò il “decreto salvabanche”, con l’amarezza di milioni di lavoratori debitori di mutui con interessi usurari. E’ la stessa “democrazia minacciata dall’Italicum” che ha dirottato metà della ricchezza privata nelle mani del 10%? Purtroppo, pur se fondate le preoccupazioni di minaccia alla democrazia, “sic statinbus rebus”, sono milioni gli italiani che dell’Italicum se ne fottono.

Contro l’indignazione cosmica

(Giovanni Orsina, La Stampa) Ebbene, cari indignati: avete le vostre ragioni, naturalmente. Motivi per indignarsi, figuriamoci, non ne mancano proprio. Ed è vero che a certe condizioni l’indignazione serve a migliorare le cose. Il punto, però, è un altro. Ed è concreto, storico, non astratto: il problema non è l’indignazione in generale, ma l’indignazione che è venuta montando in Italia negli ultimi due decenni. Un’indignazione – per così dire – cosmica, che da qualsiasi punto di vista la si osservi non rappresenta più una soluzione, ammesso pure che mai lo sia stata, ma un problema. Che cos’è l’indignazione cosmica? È quell’indignazione che, malgrado all’inizio sia stata generata da fatti specifici, poi li ha trascesi, e s’è trasformata in una sorta di condizione dello spirito: uno stato d’animo autosufficiente, pervasivo e permanente; che non ha più bisogno della realtà per sostenersi ma, al contrario, determina il modo in cui la realtà viene letta; e che in breve tempo si dilata a dismisura e inghiotte qualsiasi avvenimento, cosa o persona. Che inghiotte, alla fine, l’intero Paese.

Quali sono gli effetti negativi dell’indignazione cosmica? C’è solo l’imbarazzo della scelta. L’indignazione cosmica serve a soddisfare l’indignato, non a migliorare il mondo. Teme il cambiamento, anzi: di che cosa potrebbe più indignarsi se le cause dell’indignazione fossero rimosse? E, quando mai quello dovesse avvenire, lo riterrà senz’altro insufficiente, cosmetico, ipocrita. L’indignazione cosmica colloca le sue pretese ad altezze siderali: maggiore sarà la distanza fra le cose come sono e come dovrebbero essere, maggiore potrà essere l’indignazione. Così facendo, l’indignazione cosmica diseduca alla realtà, a portar pazienza di fronte alle sue inevitabili (e benedette) imperfezioni. Poiché, a volerlo davvero, le cose potrebbero essere come dovrebbero: se non lo sono la colpa è senz’altro dei malvagi: l’indignazione cosmica vede cospirazioni ovunque. Soprattutto, la colpa è sempre di qualcun altro: l’indignazione cosmica assolve l’indignato cosmico, caricando tutti i peccati sulla groppa del capro espiatorio di turno. Chi scriverà la storia dell’indignazione italiana di quest’ultimo quarto di secolo dovrà dare largo spazio alla stagione di Tangentopoli: i partiti di governo della prima Re-pubblica hanno rappresentato l’archetipo di tutti i capri espiatori, il primo di molti che son seguiti. E malgrado le loro innegabili responsabilità, meriterebbero qualche scusa. Apocalittica e implacabile, l’indignazione cosmica non può che concludersi con l’imprecazione antitaliana che è diventata ormai così familiare: dobbiamo andarcene da questo Paese. Un’imprecazione saldamente appoggiata alle statistiche internazionali, come quella già menzionata sulla corruzione (ah, la Svezia, col suo 15%!), o ai mille servi-zi televisivi di denuncia delle disfunzioni italiche, con le loro immancabili escursioni comparative – per esempio – nella pulitissima, efficientissima, civilissima Danimarca. E sì, è ovvio, lo sappiamo tutti che la Svezia è davvero meno corrotta e la Danimarca funziona davvero meglio della nostra Penisola. Ma chi può seriamente pensare che paragonare l’Italia alla Scandinavia – separate come sono da un abisso storico, geografico e culturale – abbia un senso qualsivoglia, altro che quello di alimentare l’indignazione cosmica?

Facile, economica, di sicuro successo, negli ultimi vent’anni l’indignazione cosmica è stata una risorsa straordinaria per i media e la politica, ai quali toccano non poche responsabilità per la sua crescita smisurata. Il grillismo ne è stato un’espressione diretta. Ma proprio con la propria inconcludenza, ha fornito una dimostrazione lampante della sua sterilità. Diametralmente opposto al Movimento ma altrettanto antipolitico, nemmeno il montismo è stato innocente d’indignazione cosmica. Il renzismo invece ha avuto e ha con essa un rapporto ambiguo: da un lato la cavalca, dall’altro cerca di sgonfiarla col suo ottimismo e la sua politica del fare. Se il renzismo vuole sopravvivere come forza di governo, prima o poi quest’ambiguità dovrà scioglierla. Ma dovrà aprire una campagna seria contro l’indignazione cosmica, recuperando virtù ben poco renziane come il realismo, la tolleranza e la pazienza. Il presidente del Consiglio, per gran fortuna, ha smesso di prendersela coi gufi. Rivolgerà le energie che ha risparmiato contro gli indignati?
Economia
Sbornia da debito

(Marco Valerio Lo Prete, Il Foglio) Nei trent’anni che hanno preceduto la crisi del 2007/08, l’obiettivo delle Banche centrali era diventato essenzialmente uno: garantire un’inflazione bassa e stabile nel tempo. Anche lo strumento per perseguire tale obiettivo era di fatto uno solo: regolare il tasso ufficiale di sconto (quello al quale si approvvigionano le banche presso la Banca centrale). <La crisi però ci ha ricordato che abbiamo esagerato con le semplificazioni> dice Adair Tumer, presidente dell’Inet, il think tank fondato dal finanziere George Soros che si riunisce in questi giorni a Parigi. Turner, nel 2008, a crisi appena avviata, fu nominato presidente di quella Uk Financial Services authority che in tandem con la Banca d’Inghilterra ha presieduto alla ristrutturazione del settore creditizio e finanziario nel Regno Unito. Oggi, assieme a un numero crescente di operatori di mercato e accademici di tendenza liberal nel senso americano del termine, fa le pulci alle politiche ultra espansive messe in campo dalle Banche centrali per sostenere la ripresa, Bce inclusa.

<Draghi ha fatto bene a fare quel che ha fatto. Non nego che ci siano effetti positivi: innanzitutto la svalutazione del cambio euro/dollaro, poi in futuro una maggiore fiducia trasmessa a tutta la società ma non si può non guardare ai danni collaterali del Quantitative easing: la diseguaglianza crescente e l’alimentazione di quel credito privato che ha portato allo scoppio della crisi>. E’ il Qe che genera diseguaglianza: presto ne sentiremo parlare nel dibattito universale, a giudicare dall’enfasi che alcuni ricercatori stanno dedicando al tema. Studi relativi all’America e al Giappone dove sono iniziati gli acquisti straordinari da parte della Banca centrale dei titoli di debito e di asset privati <dimostrano che queste scelte hanno effetti ridistributivi. In via generale hanno effetti positivi per quelle persone che possiedono asset come titoli di Stato e azioni, negativi invece per quelle che detengono la propria ricchezza nei depositi bancari. E le prime sono persone generalmente molto più benestanti delle seconde>. Fino a qualche mese fa critiche così serrate alle Banche centrali arrivavano soltanto dai cosiddetti “falchi” dell’ortodossia; è il caso della Bundesbank tedesca che accusa Draghi di finanziare il lassismo dei paesi mediterranei: <Siamo in una situazione di sbornia da debito>.

Pure la politica monetaria, che nel periodo precrisi si ammantava di un’aura di tecnocrazia, diventa materia controversa. Se oggi per esempio alzare il tasso di riferimento può avere un effetto minimo su un mercato immobiliare a rischio bolla – come nel Regno Unito – quella stessa modifica può tagliare le gambe al credito all’industria; in risposta a tale “eterogeneità”, le Banche centrali, con le varie forme di Qe, per la prima volta incentivano alcune forme di credito a discapito di altre. <La mia critica però è di segno opposto rispetto a quella “ortodossa” – dice Tumer. Per limitare gli effetti redistributivi, credo che le Banche centrali dovrebbero avviare esplicitamente e temporaneamente forme di finanziamento monetario dei bilanci pubblici>. E’ la politica della “moneta dall’elicottero”, ipotizzata una volta da Milton Friedman e poi dall’ex governatore della Fed, Ben Bernanke. E Draghi, volente o nolente, dovrà abituarsi a essere disceso in campo>.

Pro e contro il Ttip

(Danilo Taino, Corriere) Sabato si sono tenute un in tutto il mondo manifestazioni contro ogni genere di libero scambio: in Europa soprattutto contro il Ttip (Trattato transatlantico per commercio e investimenti). Molti cortei, partecipazione così co sì. È che, soprattutto in alcuni Paesi come Germania, Austria, Francia, la prospettiva di un mercato comune con gli Stati Uniti solleva opposizioni, in gran parte ideologiche. Antiamericane. Nei contenuti, i negoziati Ttip non comportano alcuno dei rischi che vengono sollevati da chi si oppone: non alla sicurezza alimentare e alla salute, nemmeno per sogno ai diritti dei lavoratori, non al modello culturale europeo e via dicendo. In compenso, la Partnership darebbe grandi vantaggi a quelle aziende medie e piccole che oggi faticano a esportare o ad avere una base negli Stati Uniti. Cioè a quelle imprese che sono la spina dorsale dell’economia e dell’occupazione italiane. Secondo alcune analisi, l’Italia sarebbe forse il maggiore beneficiario del Ttip.

Il guaio è che in Europa i governi e i partiti non hanno il coraggio di essere chiari su questo che è un dossier la cui importanza va molto al di là della valenza economica. Oggi, a New York, riprendono le discussioni, il nono round che andrà avanti fino al 24 aprile, ma non ci si aspettano balzi in avanti significativi: l’Europa non si muove. Per esempio, Angela Merkel continua a dire di essere favorevole. In concreto, il suo alleato di governo, la Spd, frena, e il ministro dell’Economia (e vice-cancelliere) Sigmar Gabriel pone distinguo che bloccano ogni possibilità di leadership della Germania. Altro esempio. La settimana scorsa, il commissario europeo al Commercio, Cecilia Malmstrom, si è incontrata a Parigi con i parlamentari francesi: ha provato a convincerli ma ha incontrato un muro di distinguo e di opposizioni pregiudiziali. Ancora: Matteo Renzi ha parlato di Ttip con Barack Obama e pare gli abbia avanzato proposte concrete; ciò nonostante, l’interesse dei partiti italiani è vicino allo zero. Ora, la situazione è la seguente.

Se i negoziatori europei, che hanno avuto un mandato dai governi della Ue, troveranno un accordo con quelli americani, il Parlamento europeo dovrà votare il pacchetto. È già molto annacquato rispetto alle ambizioni di partenza, ciò nonostante ci sono buone probabilità che venga respinto: ago della bilancia è il gruppo europeo dei socialisti e democratici, spaccato al proprio in-terno (con gli italiani in genere a favore). Se il Parlamento Ue vota contro, il Ttip è morto. Non solo. L’eventuale accordo dovrà essere anche approvato dai parlamenti dei 28 Paesi della Ue: se uno solo lo respingesse, si aprirebbe una crisi e tutto probabilmente salterebbe. Se così dovesse andare, non tramonterebbe solo l’obiettivo di stabilire regole aperte, certe e democratiche per il Commercio, che altri dovrebbero poi seguire. Sarebbe anche una sconfitta per quella parte del mondo che grazie agli scambi ha prosperato e grazie al rispetto delle regole, anche commerciali, ha vissuto de-cenni di pace. I Vladimir Putin potrebbero dire che gli occidentali non riescono nemmeno ad accordarsi tra loro. Leadership cercasi.

Il potere di Amazon

(Il Foglio) Netflix, Spotify, Instagram, Airbnb, Vine, Flipboard. I migliori servizi del web, le startup più innovative, hanno tutti una cosa in comune: funzionano grazie al servizio cloud di Amazon. Il gigante dell’e-commerce fondato da Jeff Bezos, oltre a essere il più grande negozio online in America e in Europa, gestisce e affitta i server su cui basano il loro business le compagnie digitali più innovative nate negli ultimi dieci anni. Quando si mette una foto su Instagram, è sui server di Amazon che viene caricata, e lo stesso vale per tutte le canzoni di Spotify che ascoltiamo, per le informazioni sulle case che mettiamo in affitto su Airbnb. Ma le vere dimensioni della “nuvola” di Amazon sono rimaste sconosciute fino al giorno (recente) in cui la compagnia ha rivelato per la prima volta (dopo quasi dieci anni di attività) il giro d’affari dei suoi Amazon Web Services, durante la presentazione ai mercati dei risultati economici del primo trimestre dell’anno.

Il primo numero snocciolato da Bezos agli investitori è il valore complessivo del cloud: 5,2 miliardi di dollari, più delle aspettative degli analisti. Ma più notevole ancora è il tasso di crescita del business. Mentre l’e-commerce di Amazon sembra aver raggiunto un tetto di crescita, e si trova insidiato da giganti come Alibaba, il servizio cloud cresce del 50 per cento all’anno, e Microsoft, il concorrente più agguerrito, è ridicolmente lontano dalla quota di mercato di Amazon. Ma il nuovo Ceo, Satya Nadella, prima della nomina dirigeva il settore cloud, ha deciso di farne una “religione” e un obiettivo strategico, e investe uomini e miliardi di dollari per recuperare terreno. Google, il terzo contendente, ha iniziato l’anno scorso una guerra di prezzi che ha messo in difficoltà, ma non scalfito il dominio di Amazon. Così, quando si parla di cloud, Amazon è un gigante incontrastato, e mentre il business dell’e-commerce cresce sempre più a fatica, e si trova insidiato dai concorrenti, Jeff Bezos ha annunciato che la crescita di Amazon Web Services sta “accelerando”.

Secondo alcuni analisti per Amazon il business del cloud, per tassi di crescita e valore strategico, è importante tanto quanto quello dell’e-commerce, che pure è dieci volte più grande. Sull’Atlantic, Robinson Meyer ha definito il cloud di Amazon <il più importante pezzo di tecnologia del boom tecnologico recente>; e la parola boom è azzeccata nella settimana in cui il listino tecnologico della Borsa americana, il Nasdaq, supera il record storico del marzo 2000, prima dello scoppio della bolla della New economy. L’Atlantic parla del “potere incredibile” di Jeff Bezos, ed è facile capire perché. Le più importanti novità legate al web degli ultimi dieci anni si basano sul cloud, dai social network a Siri, l’assistente vocale di Apple, e secondo le previsioni il mercato continuerà a crescere indefinitamente. L’economia dei disruptor come Uber ha bisogno del cloud, e il settore dei wearable, i gadget indossabili come l’Apple Watch uscito ieri in America, funziona solo grazie al cloud. L’ipotesi più probabile per la costruzione di un’intelligenza artificiale si basa sull’uso delle informazioni raccolte nella nuvola, e anche la macchina che si guida da sola di Google, presentata da poco come prototipo funzionante, cammina grazie al cloud.

Amazon, si sa, è una compagnia di infrastrutture prima ancora che di servizi. Il segreto del suo e-commerce è la perfetta organizzazione della macchina logistica, e in questo Bezos ha un fiuto impareggiabile. Amazon ha iniziato a espandere la sua rete cloud almeno un lustro prima degli altri, quando tutti i concorrenti quasi non se ne occupavano, e oggi avere una posizione dominante nel settore significa gestire l’infrastruttura fondamentale di Internet almeno per il prossimo decennio. Quello del cloud, tuttavia, è un settore molto dispendioso, in cui bisogna investire centinaia di milioni di dollari per costruire data centers nel mondo e acquistare nuovi server. E Amazon, con il suo modello di business fatto di margini risicati e continui investimenti, ha le tasche meno profonde di molti dei suoi concorrenti. Il rischio, dicono gli analisti, è che possa perdere terreno, se la forza bruta dei dollari dovesse alla fine valere più dell’istinto geniale di Jeff Bezos.
La moltiplicazione delle corna

(Il Sole 24 Ore) Giovedì 23 aprile, sull’onda del motto <La vita è breve, regalati una avventura> le corna si sono quotate in Borsa. Non su quella di Toronto dove ha sede la società quotata, ma su quella di Londra, più libertina del listino canadese. Insomma, il sito AshleyMadison.com, specializzato in appuntamenti sexy per aspiranti adulteri, è sul listino del London stock exchange. L’obiettivo del gruppo di Toronto è lo stesso di chiunque sbarchi sul mercato: raccogliere capitali per nuovi investimenti. In questo caso, sul <mercato internazionale del tradimento coniugale>. Sperano di raccogliere 200 milioni di dollari per espandersi in un network globale di corna senza frontiere. Il Nord America (Stati Uniti e Canada) non è stato preso in considerazione perché è troppo bacchettone (anche se qui le corna si consumano come e forse più che nel resto del mondo). Ma il timore che l’apparente rigore morale delle società canadese e americana potesse azzoppare il progetto sul nascere, li ha fatti desistere. Attivo in 46 Paesi e con una lista di 34 milioni di iscritti AshleyMadison fa capo ad anonimi investitori ed è parte di un grappo, Avid Life Media, che vanta al suo attivo anche il sito CougarLife, di grande successo e specifico per donne mature. La valutazione della società è di un miliardo di dollari. Il fatturato nel 2014 ha superato i 115 milioni di dollari con un aumento del 50% rispetto al 2013 e del 400% dal 2009. Crisi? Un corno, ovviamente!

Brunetta

<Mi si nota di più se vengo e sto in disparte o se non vengo per niente?> (Da “Ecce Bombo” di Nanni Moretti)

lorenzo.borla@fastwebnet.it

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