Al servizio del mio Paese – Zibaldone n. 398

0
1220

(LB) Nerio Nesi, già ministro, parlamentare, presidente della Banca Nazionale del Lavoro e molto altro, è stato, fin dai primi anni Settanta, il mio punto di riferimento ideologico e politico. Forse potrei dire un amico, ma meglio direi, un maestro che mi ha onorato della sua amicizia. Proprio in questi giorni è stata pubblicata la sua autobiografia che si intitola “Al servizio del mio Paese” e si intreccia con le vicende economiche e politiche italiane dal dopoguerra ad oggi. E’ straordinario il patrimonio di esperienze accumulate e il numero di persone conosciute nell’arco della vita di Nerio, che vanno dai politici e governanti italiani e di altri Paesi, ai banchieri italiani e internazionali, ai protagonisti dell’economia mondiale. “Al servizio del mio Paese” è un libro scritto con estrema lucidità, con ricordi precisi e documenti significativi, utile per chi voglia conoscere a fondo molte vicende e molti retroscena della vita italiana. Nerio Nesi fin dagli anni giovanili, ad oggi, è rimasto un socialista nel senso più alto del termine, rifacendosi alla grande figura di Riccardo Lombardi. Il suo credo forse si può riassumere in poche righe, da un discorso tenuto il 25 aprile 2005 nella piazza del paese di Corticella, per ricordare il sessantesimo anniversario della Liberazione: <I casi della vita mi hanno portato in giro per il mondo a ricoprire incarichi di grande responsabilità nazionale e internazionale. Ma le mie radici sono rimaste qui, in questa periferia di Bologna, dove sono maturate idee e ideali che hanno costituito e costituiscono per sempre la base della mia vita: uguaglianza, libertà giustizia, solidarietà; principi che si sono consolidati nel tempo come frutto delle lotte dei nostri padri e dei nostri fratelli maggiori>.

Serve la ragione, non la fede

(Michele Ainis, Corriere) Più che la fiducia, ormai serve la fede. Un atto religioso, non politico. Un giuramento, non un voto. Ieri il governo ha chiesto (e ottenuto) la fiducia dai parlamentari; ma è come se l’avesse chiesta a tutti gli italiani, separando gli infedeli dai fedeli. È infatti questo il retroscritto della legge elettorale: non ne cambio più una virgola, nemmeno quella falsa clausola di salvaguardia che desterà non pochi grattacapi a Mattarella quando dovrà metterci una firma. Non lo faccio perché l’Italicum è già il meglio, perché non si può migliorare il meglio. E voi dovete crederci. Noi crediamo alle buone intenzioni del presidente del Consiglio. Ne ammiriamo l’energia, ne appoggiamo il progetto d’innovare norme e procedure. Ma quando l’impeto riformatore investe le stesse istituzioni occorre la ragione, non la fede.

Da qui il primo dubbio che ci impedisce d’ingoiare l’ostia consacrata. L’Italicum determina l’elezione diretta del premier, consegnandogli una maggioranza chiavi in mano. Introduce perciò una grande riforma della Costituzione, più grandiosa e più riformatrice di quella avviata per reggere le attribuzioni del Senato. Ma lo fa con legge ordinaria, anziché con legge costituzionale. L’avessero saputo, i nostri costituenti sarebbero saltati sulla sedia. Loro non volevano questa forma di governo, e infatti ne hanno stabilita un’altra. Dunque l’Italicum stride con la Costituzione vecchia, ma pure con la nuova. Perché quest’ultima toglie al Senato il potere di fiducia, e toglie dunque un contrappeso rispetto al sovrappeso dell’esecutivo. Mentre a sua volta dimagrisce il peso dell’opposizione: con una soglia di sbarramento fissata al 3 per cento, in Parlamento si fronteggeranno un polo e una poltiglia.

Eppure basterebbe poco per trasformare i vizi in altrettante virtù. Alzando la soglia dal 3 al 5 per cento, come avviene in Germania. Distribuendo il premio fra tutti gli alleati, o meglio fra i partiti coalizzati che abbiano superato quella soglia minima, per evitare che in futuro si ripeta quanto sperimentò Prodi con Mastella. Rendendo obbligatorio il ballottaggio se nessuno conquista il 45 (non il 40) per cento dei consensi, in modo che il bonus di maggioranza lo decidano sempre gli elettori, anziché il legislatore. E magari aggiungendo un bonus di minoranza, in premio al secondo partito. Come del resto succede in Champions League, dove accedono le prime due del campionato. Ne otterremmo in cambio un’opposizione più forte, non un governo più debole. Nessuno di questi correttivi demolirebbe l’impianto dell’Italicum.

Il presidente del Consiglio tuttavia li ha rifiutati, declamando una parola magica: governabilità. Sta a cuore anche a noi, rendere il sistema più efficiente. Ma la governabilità dipende dalla politica, non dalla matematica. Non basta trasformare i deputati in soldatini, e non basta un deputato in più per conseguirla. La governabilità dei numeri – su cui insiste, per esempio, D’Alimonte – è una formula rozza, oltre che fallace. Quest’ultima deriva viceversa dalla legittimazione dei governi, dunque da regole legittime e da politiche condivise. Altrimenti divamperà l’incendio, sicché a Palazzo Chigi avremo bisogno d’un pompiere. Come disse Leonardo Sciascia in Parlamento (5 agosto 1979): <Governabilità nel senso di un’idea del governare, di una vita morale del governare>. Ma Sciascia è morto, e neanche noi stiamo troppo bene.

Nove anni e nove giorni

(Mattia Feltri, La Stampa) Sono trascorsi nove anni e nove giorni dalla mattina in cui Romano Prodi entrò al Senato per chiedere la fiducia al suo secondo governo, e giudicò indispensabile dire due paroline sul Porcellum: <Lo cambieremo>. Ma non per modo dire: la modifica era proprio “indispensabile”, “una priorità assoluta”, “siamo tutti d’accordo” secondo quanto il premier avrebbe detto nei due anni successivi, fino alle parole del gennaio del 2008: <Tornare al voto col Porcellum sarebbe un disastro assoluto>. Il povero Prodi c’entrava poco. Roberto Calderoli – che ora passa per l’avvinazzato architetto di una legge elettorale folle, ma in realtà devastata dagli interventi di Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini, Pierferdinando Casini e purtroppo del capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi (che richiese, con le migliori intenzioni, due modi di elezione diversi per camera e Senato…) Bene, il pazzo Calderoli aveva in realtà depositato una proposta di sei righe con cui si sarebbe tornati al Mattarellum. Rimase fermo per tutta la legislatura perché il centrosinistra, secondo le spiegazioni di Pierluigi Bersani a un Prodi furente, non riusciva a mettersi d’accordo.

Rientrato nel 2008 a Palazzo Chigi, Berlusconi sperava “ardentemente” di mettersi d’accordo con Walter Veltroni nel frattempo diventato segretario del nuovo Pd: <Perché si deve cercare un dialogo con la sinistra per trovare un accordo sulla legge elettorale>. Veltroni non era un avanzo di comunista, era un socialdemocratico, con lui le riforme erano concordabili eccetera. Si sa che gli innamoramenti del capo del centrodestra sono sempre durati poco (per lui andare d’accordo significa conformarsi ai suoi voleri): con Massimo D’Alema all’inizio, con Matteo Renzi alla fine. Ma quando arrivò Mario Monti, appoggiato dal novanta per cento del Parlamento, ai partiti restava tutto il tempo per infilare due o tre riformucce, fra cui quella del Porcellum. Per Fini andava “cancellato” perché “è una vergogna”; per Bersani tenerselo un altro giro sarebbe stato “un disastro”; per Nichi Vendola era “una questione di igiene politica”; per D’Alema “era da irresponsabili non riformare”. Negli ultimi nove anni e nove giorni non c’è stato leader politico di alta, media o bassa levatura privo di un giudizio severo nei confronti della “Porcata” e di un vivido sentimento dell’urgenza riformatrice. E però l’urgenza riformatrice non si è mai concretizzata in una proposta sufficientemente condivisa e che non sollecitasse negli oppositori inquietudini per la tenuta della democrazia.

Passato Prodi, passato Berlusconi, passato Monti, toccò infine a Enrico Letta, insediato a Palazzo Chigi da Giorgio Napolitano che aveva infine accettato la rielezione al Quirinale. Davanti ai mille parlamentari disse opportunamente: <Non intendo rivivere l’incubo dei mesi durante i quali si è pestata l’acqua nel mortaio e non si è stati capaci di partorire nessuna riforma>. Nel frattempo erano arrivati anche i cinque stelle. Una di loro, Carla Ruocco, illustrò la situazione al mondo: <Le Borse calano e lo spread cresce per colpa della riforma elettorale>. Letta e Napolitano cercarono di mettere insieme una commissione di trentacinque saggi incaricati di rivedere l’intero assetto istituzionale, legge elettorale compresa. Bene, finito Letta, finita la commissione. Questa settimana si comincia a votare l’Italicum. Se non passerà, dice Renzi, si va a votare. E ci si andrà con il Consultellum, ovvero la legge stabilita dai giudici (a proposito di primato della politica).

Dinastie

(Giuseppe Sarcina, Corriere) Negli Stati Uniti, in vista delle prossime presidenziali, Marco Rubio, 43 anni, di origini latine, e modeste, sta costruendo la sua campagna elettorale sul valore del merito. Ma al momento tutti i sondaggi lo danno perdente sia nelle primarie repubblicane contro Jeb Bush, sia nell’eventuale testa a testa con la democratica Hillary Clinton. Due dinastie, i Bush e i Clinton, si contendono la carica istituzionale più importante del mondo e nel Paese che si considera un modello universale di apertura, con l’ascensore sociale in continuo movimento. I clan familiari, in realtà, continuano a essere parte fondamentale dell’establishment politico ed economico. E non solo negli Stati Uniti, come racconta l’inchiesta appena pubblicata dall’Economist. I leader di Giappone, Corea del Sud, Filippine e Bangladesh sono tutti imparentati con ex premier o ministri. In India continua la saga dei Gandhi, in Pakistan quella dei Bhutto, in Kenya dei Kenyatta. In Argentina Néstor Kirchner di fatto trasferì la presidenza dello Stato a sua moglie Cristina Fernández, come se fosse un affare privato. In Europa si segnala il Belgio, dove il premier Charles Michel, 39 anni, è figlio di Louis Michel, 67 anni, ex ministro ed ex commissario europeo. I Michel sono liberal-riformatori; i Le Pen, in Francia, padre e figlia, sono ultra nazionalisti.

Ma le differenze ideologiche si azzerano quando ci sono di mezzo legami di sangue. Questi legami intralciano la trasparenza, contraddicono il principio di pari opportunità. Poggiano su percorsi educativi preferenziali o semplicemente sul trasferimento tra le generazioni delle reti relazionali o clientelari. Risultato, secondo un’altra ricerca, questa volta del New York Times: il figlio di un governatore ha seimila volte più probabilità di raggiungere la stessa carica del padre rispetto a un qualsiasi altro coetaneo. In Gran Bretagna 57 parlamentari su 650 sono imparentati con altri rappresentanti delle due Camere. Il “patrimonialismo”, cioè “l’umana tendenza a favorire familiari e amici”, secondo la definizione di Francis Fukuyama citata ancora dall’Economist, attraversa tanto la politica quanto ¡’economia. Le imprese su base familiare rappresentano il 90% del totale sul pianeta.

Per molto tempo gli economisti (e su questo punto post-keynesiani e liberisti erano d’accordo) hanno sostenuto che le grandi aziende familiari Si sarebbero inevitabilmente aperte a nuovi capitali e quindi a nuovi soci. Oggi si può osservare che i vecchi recinti sono quasi intatti. Secondo il Boston Consulting Group il 33% delle società americane e il 40% di quelle francesi e tedesche sono ancora controllate da famiglie. È un fenomeno che vale anche per l’Italia: dagli Agnelli, ai De Benedetti; dai Pirelli ai Ferrero. Fino ad arrivare al gruppo che fa capo a Silvio Berlusconi, al centro di una lunga discussione sul passaggio delle consegne da parte dell’ex premier ai figli che potrebbe riguardare sia la sfera degli affari sia quella della politica. Le grandi famiglie sono sopravvissute alla “distruzione creatrice” del capitalismo e presidiano in forza l’economia reale e la finanza, da un capo all’altro del pianeta. Due esempi finali: le società riconducibili agli Agnelli capitalizzano il 10,4% della Borsa; le prime 15 società familiari coprono addirittura l’84% del prodotto interno lordo di Hong Kong.

Perché non abbiamo una Nestlé in Italia?

(Paolo Griseri, Affari&Finanza) Domanda: <Perché non esiste una Nestlé italiana (nel senso della dimensione)?> Risposta: <Perché l’industria alimentare della Penisola è a conduzione familiare, non è quotata in Borsa e ha scarse possibilità di investire in acquisizioni. Ma forse non ne ha nemmeno bisogno>. Risponde così Denis Pantini, ricercatore di Nomisma, autore di indagini sul food nostrano e sulla sua evoluzione. Multinazionali come Barilla e Ferrero sono saldamente in mano alla terza generazione familiare ma non hanno mai deciso di sbarcare a Piazza Affari per cercare capitali e crescere. Ferrero è un esempio di azienda con stabilimenti e sedi in 60 Paesi del mondo che non ha bisogno di capitali di Borsa perché dispone in abbondanza di capitali propri. <Soprattutto – osservano a Nomisma – le grandi aziende alimentari italiane tendono a svilupparsi a partire dal loro core business>. Così Barilla ha sviluppato la filiera della farina, Ferrero quella del cioccolato, Cremonini quella della carne. Ma quasi mai le società italiane del food osano spingersi fuori dal sentiero conosciuto: seguono le orme della loro tradizione come Pollicino segue le briciole per ritrovare la strada sicura.

Una delle ragioni quindi è nei caratteri del capitalismo nostrano, tradizionalmente di dimensioni ridotte a confronto con quanto accade oltralpe. Il secondo motivo è più legato alla nostra industria alimentare. Il paradosso è che il food italiano è il più apprezzato nel mondo, ma non certo il più venduto. Nel 2014 solo il 3,3 per cento del cibo del pianeta arrivava dall’Italia. In cima alla classifica degli esportatori stanno gli Stati Uniti che nel 2013 vendevano il 10,1 per cento dei prodotti agroalimentari commercializzati a livello globale. Una percentuale che si spiega con il fatto che tra le prime dieci società del food mondiale ben sei hanno sede in Usa: Coca-Cola, Pepsi, Kellog’s, General Mills, Mars e Mondelez. Al secondo posto nelle esportazioni ci sono, un po’ inaspettatamente, i Paesi Bassi con il 6,4 per cento. Il motivo è che la Unilver, colosso anglo olandese dell’agroalimentare, ha sede a Rotterdam. <Ma c’è una seconda ragione. Il porto di Rotterdam è uno dei principali punti di sdoganamento dei cibi nel mondo>. Un caso in cui il transito si confonde con l’origine, quindi, in parte è una illusione ottica. Il terzo posto lo occupa la Germania che esporta il 5,7 per cento del venduto nel mondo. Il caso del Brasile, quarto con il 5,2 per cento, è invece legato alle esportazioni agricole. Subito sotto sta la Francia, con il 4,7 per cento

Una forte rete di distribuzione, più che la dimensione delle aziende italiane, è il vero tallone d’Achille dell’industria agroalimentare italiana. Oscar Farinetti, patron di Eataly, la sintetizza con un linguaggio colorito: <È ora che la grande distribuzione di casa nostra alzi il sedere e vada a insediarsi fuori dalla Penisola, come hanno fatto i francesi>. Farinetti cita l’esempio della Esselunga, <fondata in Italia nel 1957 e rimasta sempre al di qua delle Alpi. Cinque anni dopo, nel 1962, nasceva Carrefour che oggi è presente in tutto il mondo e ha 80 ipermercati in Cina>. Differenze di cultura imprenditoriale. Il nodo della distribuzione è quello che finisce per penalizzare il food italiano: <Mi dica il nome di un prodotto alimentare tedesco famoso in tutto il mondo>, ironizza Farinetti, per spiegare il paradosso di un’industria alimentare che riesce a esportare il doppio di quella italiana pur avendo un’immagine molto meno forte.

Dunque il problema non sembra essere tanto quello di avere una Nestlé italiana quanto quello di avere un colosso della distribuzione. L’Italia non ha bisogno di una grande multinazionale del food quanto di un grande scaffale di supermercato su cui esporre i prodotti. <Se in Italia non c’è una Nestlé è perché il nostro Paese è la capitale mondiale della biodiversità. Non c’è nessun altro posto in cui in un territorio relativamente piccolo si trova la più alta concentrazione di specie vegetali (7.000), di vitigni (1.200) e di tipi di grano duro: noi ne abbiamo 140, gli Stati Uniti che sono il principale produttore mondiale ne hanno sei>. Farinetti racconta che <la diversità fa parte della nostra cultura. Un bolognese non farebbe mai un tortellino senza il ripieno di mortadella, un modenese considera una bestemmia non produrre il ripieno con il prosciutto. Tra Modena e Bologna ci sono 20 chilometri. La varietà è una ricchezza, per questo non abbiamo bisogno della Nestlé>. Anche se, aggiunge il patron di Eataly <va riconosciuto alla Nestlé di aver lasciato alle aziende italiane che ha acquistato, come la San Pellegrino, il management italiano. Non è poco. In fondo, una multinazionale dell’acqua minerale è ambasciatrice del food italiano in giro per il pianeta>.

In attesa di trovare il distributore mondiale, l’unica catena a presenza globale è proprio quella di Eataly, anche se il proprietario si schermisce: <Non abbiamo dimensioni tali da poter essere avvicinati ai colossi della grande distribuzione>. In alternativa c’è la vendita in proprio sui mercati internazionali: <Il 90 per cento del Barolo delle Langhe viene venduto all’estero dai singoli produttori che prendono l’aereo e vanno a New York a proporre il loro vino ai clienti>. Sistema che può funzionare per il più pregiato dei vini italiani ma non certo per tutti. Un’altra strada è quella che Nomisma ha illustrato in un recente report sull’industria del vino: All’interno della filiera vitivinicola italiana le aziende orientate all’export spesso si sono poste al vertice dell’organizzazione di filiera, veicolando oltreconfine il vino prodotto anche a partire da uve di tante piccole realtà che hanno potuto mantenere la propria su qualità e processi produttivi>. È la grande distribuzione fai da te. Inventata per sopravvivere nel mondo senza avere né Nestlé o Walmart.

Centenario della Magna Charta

A proposito di Costituzioni, dovremmo essere prudenti nel proclamare la nostra Costituzione “la più bella del mondo”. Abbiamo agguerriti competitori, gli inglesi, che continuano a citare la loro Magna Charta (1215) come <la più grande carta costituzionale di tutti i tempi: il fondamento della libertà dell’individuo contro l’autorità arbitraria del despota>. Non posso dunque tralasciare questo articolo di Alessandro Barbero, che oltre ad essere un bravissimo storico, ha il dono della esposizione chiara e scorrevole.

(Alessandro Barbero, La Stampa) Ottocento anni fa, nell’estate 1215, papa Innocenzo III dovette occuparsi di una seccatura proveniente dall’Inghilterra. Il re Giovanni raccontava di essere stato costretto dai baroni ribelli a firmare un documento, una carta, di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Si era dovuto impegnare a non imporre nuove tasse senza il consenso di un’assemblea di baroni e vescovi, a non negare la giustizia a nessuno, non ritardarla e non venderla; a non far arrestare un uomo libero né confiscare i suoi beni <se non per giudizio legale dei suoi pari>. Il re aveva anche promesso di ottenere l’approvazione del Papa; e infatti scrisse subito a Roma, ma per informare Innocenzo III che i baroni lo avevano obbligato a firmare con la violenza e chiedergli di annullare il documento. Il Papa era impegnato nella convocazione del IV Concilio Lateranense, che si sarebbe aperto a novembre: insomma, aveva molto da fare. La faccenda di re Giovanni venne sbrigata rapidamente: Innocenzo III decretò che la carta era <vergognosa, umiliante, illegale e ingiusta>, la dichiarò <cassata e invalida per sempre>, e minacciò di scomunica chiunque tentasse di farla osservare.

Senza dubbio il Papa e re Giovanni pensavano che la questione fosse liquidata, e sarebbero rimasti molto sorpresi se avessero saputo che già l’anno seguente la carta venne solennemente confermata ed entrò in vigore come legge del regno. Ma non lo seppero mai, perché nel frattempo entrambi erano morti: il re aveva 50 anni e il papa 55, erano uomini vecchi per il loro tempo. Ma il figlio di Giovanni aveva solo otto anni, e i suoi consiglieri preferirono tenersi buoni i baroni: perciò il nuovo re rinnovò la concessione. La garanzia di re Giovanni cominciò allora a essere chiamata la Magna Carta, e con questo nome fu via via confermata da ciascun re d’Inghilterra. Letta due volte all’anno al popolo in tutte le cattedrali del regno, recitata quattro volte all’anno in ogni contea all’apertura della sessione giudiziaria, solennemente confermata a ogni sessione del Parlamento, la Magna Carta entrò a far parte delle nozioni elementari che definivano l’identità inglese.

Fra Cinque e Seicento, eruditi e giuristi la trasformarono in un mito. La Magna Carta, sostennero, incarnava la libertà naturale di ogni inglese, che il dispotismo dei re normanni aveva cercato di soffocare. Era una lettura del tutto antistorica: le garanzie concesse da Giovanni riguardavano gli uomini liberi, ma l’Inghilterra medievale era un paese dove il servaggio contadino era più diffuso che sul continente, per cui la stragrande maggioranza degli inglesi non era tutelata dalla Magna Carta. Ma in compenso questa lettura era estremamente attuale, perché all’inizio del Seicento i re d’Inghilterra, imitando i loro vicini francesi, affermavano che il loro potere derivava direttamente da Dio, e pretendevano di imporre nuove tasse senza consultare il Parlamento. Studiare la Magna Carta diventò pericoloso: Carlo I cominciò a far arrestare gli eruditi che ne parlavano troppo e a vietare la pubblicazione di libri sull’argomento. Si sa come andò a finire: il Parlamento perse la pazienza e dichiarò guerra al re, lo sconfisse, lo processò per alto tradimento e nel 1649 lo giustiziò sul patibolo.

A questo punto la Magna Carta incarnava agli occhi di tutti i princìpi fondamentali della costituzione inglese e della common law: l’habeas corpus, per cui la polizia non può arrestare nessuno senza l’autorizzazione di un giudice, il diritto a essere processati davanti a una giuria di cittadini, il principio per cui anche il re è soggetto alla legge e le tasse devono essere approvate dal Parlamento. Perfino i vincitori della guerra civile scoprirono che governare entro i limiti imposti dalla Magna Carta era molto fastidioso. Cromwell, diventato dittatore, la disprezzava. Ma la vecchia pergamena sopravvisse anche alla dittatura puritana, ispirò i coloni americani nella loro rivolta contro la madrepatria e, per quanto possa sembrare incredibile, è tuttora in vigore nel Regno Unito.

Non tutta. In verità la Magna Carta originale conteneva ben 63 articoli su tutti i temi possibili, compreso il divieto di processare qualcuno per omicidio se l’accusa era presentata da una donna, a meno che la vittima non fosse il marito. Quasi tutti gli articoli sono stati abrogati a partire dall’Ottocento; ne restano in vigore solo tre. Uno difende la libertà della Chiesa d’Inghilterra, un altro garantisce i privilegi della City di Londra, e il terzo è quello, famoso, che permette a ciascuno di essere giudicato dai suoi pari. Ma i giudici inglesi continuano a citarla come <la più grande carta costituzionale di tutti i tempi: il fondamento della libertà dell’individuo contro l’autorità arbitraria del despota>.

Inutilmente gli storici hanno segnalato che in origine la Magna Carta serviva soprattutto a difendere gli interessi dei baroni: il mito è più importante della verità storica, e forse è bene così. Sotto la minaccia del terrorismo, il parlamento inglese ha approvato dal 2000 in poi una serie di leggi che permettono alla polizia di imprigionare i sospetti di terrorismo e interrogarli senza dover presentare un atto d’accusa per un tempo limite di 7 giorni, poi prolungati a 14 e finalmente a 28. Nel 2008 il governo chiese di innalzare il limite a 42 giorni; durante il dibattito, il vecchio laburista Tony Benn di-chiarò: <Non credevo che mi sarei trovato in questa Camera il giorno in cui avrebbero abolito la Magna Carta>. Di conseguenza il Governo subì una schiacciante sconfitta e ritirò il provvedimento; oggi il periodo massimo di detenzione senza accusa nel Regno Unito è stato abbassato a 14 giorni. Anche nel XXI secolo la Magna Carta continua a fare il suo lavoro.

Centenario della teoria
Della relatività generale

Carlo Rovelli è un professore di fisica che ha scritto di recente un libro, di poche decine di pagine, dal titolo “Sei lezioni di fisica”. E’ un piccolo/grande libro, di straordinaria chiarezza, che ha avuto un enorme successo ed è stato per settimane in cima alla classifica dei libri più acquistati.

(Carlo Rovelli, Il Sole 24 Ore) Il 2015 è il centenario della più importante e più bella fra le scoperte di Albert Einstein: la teoria della relatività generale. E il mondo celebra, già da alcuni mesi, il maggiore scienziato degli ultimi tre secoli. Non è facile riassumere quanto Einstein ha compreso sulla Natura, perché non si tratta di un solo risultato, ma di un insieme vasto e articolato di scoperte. Voglio tuttavia cercare di farlo, per provare a orientare il lettore in apertura di questo anno in cui di Einstein si parlerà molto. Io direi che le principali scoperte di Albert Einstein sono cinque. Queste non esauriscano tutto quello che lo scienziato ha fatto, tutt’altro, ma ciascuna di esse ha cambiato la nostra visione del mondo in profondità e ciascuna rappresenta una colonna portante della nostra attuale comprensione della Natura. Provo a illustrarle una alla volta, per poi discuterne la coerenza. Il primo risultato di Einstein è la dimostrazione finale che la materia ha una struttura granulare: il mondo è fatto di atomi. L’idea è ovviamente antica, risale a Leucippo e Democrito, ed è stata ampiamente utilizzata dalla chimica prima di Einstein. Ma fino ad Einstein 1’esistenza reale degli atomi restava un’ipotesi messa in dubbio da molti. In un articolo di straordinaria bellezza tecnica, scritto a venticinque anni, Einstein parte da un fenomeno fisico, il movimento tremolante dei granelli di polvere immersi nell’acqua, e calcola le dimensioni degli atomi a partire dall’entità del tremolio, mostrando in maniera definitiva che questo tremolio è l’effetto degli urti sul granello delle singole molecole d’acqua.

Ventiquattro secoli dopo Democrito, ogni dubbio sulla reale esistenza degli atomi viene a cadere. L’idea su cui il lavoro è basata, ovvero di legare la velocità a cui vediamo il granello muoversi nell’acqua, all’entità del tremolio, è tutt’ora alla base di gran parte della moderna fisica statistica. Il secondo grande risultato di Einstein (quello per il quale ha ricevuto il Nobel), contemporaneo al primo, e chiaramente legato ad esso, è la scoperta dei fotoni, cioè del fatto che anche la luce è fatta di granelli, di “atomi di luce”. Anche in questo caso Einstein parte da un effetto fisico, l’effetto fotoelettrico: quando la luce cade su certi metalli produce una piccola corrente. Analizzando in dettaglio come questo avviene, Einstein deduce che la luce è fatta di “palline di luce”. L’importanza di questa scoperta è stata capitale per la fisica moderna, perché si tratta del passo chiave verso la meccanica quantistica, la teoria che oggi descrive la relazione fra gli aspetti corpuscolari e ondulatori della realtà, e che è la base della fisica atomica, nucleare, della materia condensata, e di gran parte della tecnologia recente, come i computer.

Il terzo grande passo di Einstein è stato l’inizio dello studio della struttura a larga scala dell’universo visibile. L’articolo scritto nel 1917 in cui apre questo campo di ricerca (all’inizio dell’articolo c’è una frase da capogiro: <Studiamo la natura a una scala grande rispetto alla distanza media fra le galassie>) è il lavoro che fonda la cosmologia moderna, oggi uno dei settori della scienza più vivaci e in rapida crescita. Il quarto risultato è il più grande, quello che stiamo celebrando quest’anno: la teoria della relatività generale. La teoria spiega l’origine della forza di gravità di Newton, e al tempo stesso ne corregge le previsioni. La forza fra masse distanti immaginata da Newton è spiegata come un effetto dell’incurvarsi dello spazio e del tempo. Spazio e tempo sono come un foglio di gomma che si può piegare e tirare, e questo piegarsi è il motivo per cui cadono gli oggetti sulla terra, per cui la luna orbita intorno alla terra e i pianeti attorno al sole. Le conseguenze della teoria sono molte, sbalorditive, e sono poi state tutte verificate negli anni seguenti: l’esistenza dei buchi neri, il rallentamento del tempo vicino ad una massa (se vivete in montagna invecchiate un pelino più in fretta che se vivete al mare), l’esistenza di onde di spazio, il fatto che l’universo che vediamo sia emerso da una grande esplosione iniziale, solo per fare qualche esempio.

Ho lasciato per ultima, al quinto posto, la teoria della relatività speciale, che è la teoria di Einstein più conosciuta dal pubblico. Per risolvere un apparente conflitto fra meccanica e teoria elettromagnetica, Einstein comprende che il tempo passa più lento quando si viaggia veloci e che è meglio pensare il mondo come uno “spaziotempo” unitario di quattro dimensioni, anziché considerare separati lo spazio (tridimensionale) e il tempo. Ho lasciato per ultima questa scoperta non perché non sia importante – la teoria della relatività ristretta è oggi il linguaggio di base della relatività generale e di tutta la fisica delle particelle: è l’abbiccì di ogni fisico teorico ma solo per sottolineare il fatto che Einstein ha fatto ben più che questo. Questo insieme di risultati lascia senza parole per vastità e profondità. All’inizio del ventesimo secolo, Albert Einstein ha intuito che il mondo è assai più complesso di come aveva mostrato la fisica classica, e ha aperto la porta su una realtà più ricca, sconcertante ma bella, e, una volta compresa, sostanzialmente più semplice di quanto credessimo. In un certo senso, ha rimesso la scienza in cammino, dopo che il grande successo di Newton e poi Maxwell ci aveva fatto sedere sugli allori e credere, erroneamente, di essere arrivati vicino alla fine.

A real Aussie drover at the chemist
(Un rude cowboy australiano dal farmacista)

Drover: Give me three packets of condoms, please.
Cashier: Do you need a paper bag with that, sir?
Drover: Nah… She ain’t that ugly…

lorenzo.borla@fastwebnet.it

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento!
Inserisci il tuo nome