La scomparsa dei Settentrionali – Zibaldone n. 394

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(Lorenzo Ferrari, Il Post.it) In Italia, non c’è più un solo settentrionale nei principali posti di potere: non era mai accaduto prima. Il presidente della Repubblica, si sa, è siciliano. Il presidente del Consiglio, si sa ancora meglio, è fiorentino. Il partito su cui si regge tutto il sistema – il Partito democratico – in Parlamento è guidato da un lucano e da un sardo. L’altro partito di maggioranza (Ncd) è diretto da un siciliano. Al governo i ministri più importanti sono romani, siciliani e toscani. Qualche ministro settentrionale c’è, ma hanno poco peso politico o sono fuori, come Lupi. La Camera e il Senato sono presieduti da una marchigiana e da un siciliano, mentre il presidente della Corte costituzionale e il governatore della Banca d’Italia sono napoletani. Mario Draghi è romano, e a Bruxelles gli unici tre italiani con incarichi di peso vengono da Roma (Mogherini e Gualtieri) e dalla Basilicata (Pittella). I settentrionali non ricoprono nemmeno le due uniche cariche che contano davvero in Italia, quella dell’allenatore della nazionale e quella del conduttore di Sanremo.

 

Nella storia d’Italia i settentrionali ne avevano sempre occupati parecchi, di posti di potere. La triade dell’unità Cavour-Garibaldi-Mazzini era molto settentrionale. Pure più settentrionali di loro erano i Savoia e Giolitti. Il fascismo se lo inventò un romagnolo. La Resistenza fu in gran parte una faccenda settentrionale, e la nascita della repubblica fu ampiamente influenzata dal trentino De Gasperi e dal piemontese Togliatti. La Seconda Repubblica poi è stata il trionfo del Nord: oltre agli arci-settentrionali Bossi e Berlusconi, settentrionali erano pure i leader della sinistra (Bertinotti), del centrosinistra (Prodi), del centro (Casini) e della destra (Fini). Certo, i settentrionali non sono scomparsi del tutto: in larga parte, sono loro oggi a guidare le opposizioni. La minoranza interna del Pd e i maggiori partiti di opposizione sono guidati da settentrionali – anche se pure nel Movimento 5 Stelle e in Forza Italia i dirigenti in ascesa vengono dal Sud. Persino il partito che era nato esplicitamente per fare gli interessi del Nord, la Lega Nord, sta abbandonando il suo carattere settentrionale.

 

Naturalmente, la provenienza non è tutto: non è che tutti i concittadini di Salvini la pensino come Salvini. Però la provenienza conta: la realtà concreta che ci circonda influenza i modi con cui guardiamo le cose. Soprattutto in un paese variegato e con una bassa mobilità interna come l’Italia, gli orizzonti cambiano profondamente se si hanno in mente l’entroterra calabrese oppure le periferie di Milano, le valli alpine oppure il centro di Palermo. Negli ultimi vent’anni, l’Italia che è stata davanti agli occhi di buona parte della classe dirigente è stata quella del Nord. Ci siamo ampiamente occupati della questione settentrionale, passando vent’anni a parlare di federalismo – tra l’altro invano: oltre a distogliere l’attenzione dal resto del paese, non siamo riusciti a risolvere neanche i problemi del Nord. E ora molti settentrionali hanno ripiegato sulla contestazione o sull’apatia, come è accaduto alle ultime elezioni regionali in Emilia Romagna.

Quest’inedita scomparsa dei settentrionali dai principali posti di potere non è una coincidenza. È in parte una reazione ai fallimenti degli ultimi decenni, ma è anche la manifestazione di una crisi più ampia che investe la classe dirigente del Nord, pure al di fuori delle istituzioni politiche. Non a caso, uno dei pilastri attorno a cui essa si è raccolta per decenni, cioè il gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, versa anch’esso in uno stato di disorientamento. E quanto s’è visto finora dell’Expo di Milano non pare preludere a un rinascimento del Nord, anzi. Resta da vedere chi possa ora prendere il posto di questa classe dirigente in declino – dato che ci vorrà pure qualcuno che lo guidi un po’, questo paese. Al momento le opposizioni non offrono alternative credibili. In teoria, un’alternativa alla crisi del Nord potrebbe venire dal Sud, ma anche lì gli esperimenti più interessanti (la Puglia di Vendola, la Salerno di De Luca) appaiono ormai esauriti, mentre gli esperimenti di Crocetta e De Magistris si sono schiantati molto presto. Certo, rimane Matteo Renzi – ma da solo sicuramente non basta.

 

Il renzismo si è fermato a Eboli

 

(Antonio Polito, Corriere) Il nuovo Pd di Renzi si è fermato a Eboli. Anzi, non ha neanche varcato il Garigliano. Più che la minoranza interna, il rischio peggiore per il segretario è questa maggioranza esterna di notabili e cacicchi locali che, soprattutto da Roma in giù, controlla tuttora il partito: un ceto politico rimasto del tutto immune alla cosiddetta “rottamazione”renziana. Non si tratta solo della questione morale, che pure conta. L’ultimo arrestato in Campania, il sindaco di Ischia, non è uno qualunque: è un capo locale, uno capace di prendere 70 mila preferenze in tutto il Sud alle Europee fallendo per un soffio l’ascesaa Strasburgo, uno che fino a dieci anni fa stava in Forza Italia; un Nazareno ante litteram nella sua isola, che governava in un patto di ferro con la destra. Più che una devianza, incarna cioè una filosofia politica molto diffusa nel Pd campano, spesso usato come un taxi da chi è a caccia di potere. Vedremo se con lui il segretario sarà inflessibile come con Lupi o flessibile come con De Luca. Conterà molto il clamore mediatico: che in questo caso è assicurato, perché le duemila bottiglie del vino di D’Alema non hanno niente da invidiare al Rolex di Lupi.

 

Ma prima ancora che morale, il problema è politico. Nel Mezzogiorno Renzi è un estraneo. Ci si fa vedere anche poco, per la verità. E comunque non c’è una regione meridionale dove si possa dire che abbia cambiato verso al suo partito. I governatori e gli aspiranti governatori del Pd sono tutti esponenti di un’altra epoca, che traggono la loro forza dal sistema di consenso costruito sul territorio e che sono al massimo tollerati, non certo scelti, dal centro. Crocetta in Sicilia, Emiliano in Puglia, Oliverio in Calabria, De Luca in Campania: niente di più lontano dalle camicie bianche, dall’e-government e dai talk show. E dietro di loro si agita il solito coacervo di potentati locali, neanche correnti si possono chiamare, che non fanno nulla per nulla, piccole aziende il cui core business sono i voti, meglio se con le preferenze. Il Partito democratico nel Sud è spesso un verminaio in cui è impossibile mettere le mani senza sporcarsi: e Renzi non ama sporcarsele.

 

Di conseguenza, hic sunt leones, ognuno si sbrana come può. Si spiega così l’impotenza dimostrata nella vicenda De Luca, quando Roma ha dovuto digerire la sua candidaturaprima e la sua vittoria alle primarie dopo.Non è del resto un caso se nel governo non c’è neanche un ministro meridionale, se la questione meridionale è stata ridotta all’utilizzo dei fondi Ue, se a gestirli c’è un signore di Reggio Emilia, se il Pd che va in televisione parla solo con l’accento toscano, o al massimo lodigiano come Guerini. Il Sud è rimasto un grande buco nero della politica italiana, uno spazio vuoto non più riempito né da una idea né da una classe dirigente di peso nazionale. Ed è un grande punto interrogativo sul nuovo Partito democratico di Renzi, ancora troppo diverso dal suo elettorato meridionale.

 

La magna Grecia

 

(Enrico Caiano, Corriere) Deve essere colpa della Magna Grecia. Un retaggio culturale di quei giorni di antico splendore. Nelle piazze di Kroton e Akragas fiorivano centri studi che formavano filosofi e letterati: i celebri intellettuali della Magna Grecia. Quel gusto per la discussione, l’argomentazione sofisticata, il ragionamento era una ricchezza. Poi, col passare dei secoli, “intellettuale della Magna Grecia” è diventata l’espressione con cui Gianni Agnelli definì il premier De Mita; e oggi i ragionamenti sono ormai i “raggionamenti” con due “g” dello statista di Nusco. Dove la propensione a discutere, cavillare, dividersi, nel 2014 ha prodotto 1.478 riunioni delle commissioni consiliari del Comune di Crotone (l’antica Kroton). Per un totale di 357 mila euro di gettoni di presenza ai “commissari” presi dai soldi dei contribuenti. Primato raggiunto a spese dell’altro centro della Magna Grecia, Agrigento (l’antica Akragas), che deteneva il record: 1.133 riunioni, ovvero 285 mila euro di gettoni di presenza a carico della collettività.

 

Forse il capoluogo siciliano ha mollato il primato perché preso dall’inseguimento di un’altra primizia: un futuro sindaco, Silvio Alessi, che può contare sul sostegno bipartisan del Pd e di Forza Italia. Nuovo record in arrivo. Le cifre di Crotone e Agrigento sono da brivido. Ma se le si declina dal conto dell’anno intero alla giornata-tipo del Comune (governato dal Pd a Crotone e dal commissario ad Agrigento) si arriva a situazioni da comica finale: commissioni che si riuniscono fino a otto volte al giorno, calcola II Crotonese, il foglio locale che ha scatenato il caso. Ma non finisce qui: proprio ieri il Corriere del Mezzogiorno ha rivelato che nei primi 4 mesi dell’anno i 36 consiglieri del Comune di Bari (Pd) sono già costati 300 mila euro di indennità per l’attività nelle undici commissioni comunali. Tetto di 2.400 euro ciascuno già raggiunto da tutti e 36. Il primato di Crotone è già minacciato. E Bari non era neppure in Magna Grecia.

 

Controllori scelti dai controllati

 

(Sergio Rizzo, Corriere) Come San Francesco da Paola l’ingegner Stefano Perotti possiede il dono dell’ubiquità. Ma a differenza sua (di San Francesco) non attraverserà mai lo Stretto di Messina camminando sulle acque. Avrebbe forse potuto farlo sul famoso Ponte, se l’avessero costruito, perché sarebbe stato di sicuro il direttore dei lavori. La lista degli incarichi di Perotti spiattellati nelle carte dell’inchiesta che gli è costata gli arresti, non ha confini spazio-temporali. Ne sono elencati una ventina. Il che deve far oggettivamente riflettere. Non soltanto sui superpoteri di Perotti. Del resto il suo non è nemmeno un caso isolato. Il giro dei direttori dei lavori delle opere pubbliche è per certi versi analogo a quello di certi burocrati, tanto simile (e stretto) è il rapporto con la politica. Nessuno per esempio si è mai meravigliato perché Antonio Acerbo, l’ex manager coinvolto nell’inchiesta sull’Expo 2015, era allo stesso tempo direttore generale del Comune di Milano e direttore dei lavori alla stazione di Milano.

 

Ma fa riflettere, la storia di Perotti, soprattutto sul meccanismo innescato dalla Legge- Obiettivo, nel voluta 2001 da Berlusconi e dal suo ministro Lunardi, validamente assistito da Ercole Incalza. Lo spiegano i vertici dell’Anas interpellati dal sito Internet www.lultimaribattuta.it a proposito dell’incarico assegnato a Perotti per un lotto della Salerno-Reggio Calabria: <Il direttore dei lavori nei contratti a contraente generale è nominato per legge dallo stesso contraente generale>. Traduzione: noi dell’Anas non c’entriamo nulla. Salvo poi scoprire che l’Anas aveva dato a Perotti un incarico in Libia. Nelle opere pubbliche della Legge Obiettivo il direttore dei lavori viene dunque scelto dall’impresa stessa: il controllato nomina il proprio controllore. Il direttore dei lavori deve infatti tutelare gli interessi dell’amministrazione committente. Ha la responsabilità di accertarsi che i materiali corrispondano e che il progetto venga rispettato. Firma lui gli stati di avanzamento per i pagamenti. Trasferire il potere della sua nomina dal soggetto pubblico che appalta l’opera al soggetto privato che la esegue prefigura quindi il totale svuotamento delle prerogative dell’amministrazione.

 

E allora si capisce come sia possibile per uno stesso direttore dei lavori avere tanti incarichi insieme. Eccoli, in questo caso, i privati. Ci sono i consorzi Cavet, Cociv e Cepav 2, sigle tramandate dall’alta velocità dei tempi di Incalza. Poi le immancabili cooperative. E il consorzio per l’autostrada Orte-Mestre, che fa capo a Vito Bonsignore: eurodeputato dello stesso partito del ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi. Non che il sistema tradizionale sia perfetto. Bandi fatti male, progetti lacunosi, previsioni di spesa mai rispettate, varianti, corruzione. Ma almeno la forma dei rispettivi ruoli era preservata. Qui invece nemmeno quella, e non c’è un’opera della Legge Obiettivo dove i costi non siano lievitati. La Metro C di Roma li ha già sfondati di 700 milioni. Quel sistema ha poi ristretto ancora la cerchia dei beneficiari, in un mondo già abbastanza chiuso. Stefano Perotti, nominato direttore dei lavori dall’Anas o per opere appaltate dall’Anas, è figlio di quel Massimo Perotti ex direttore generale dell’Anas e già presidente della Cassa del Mezzogiorno: ente dove lavorava il giovane Ercole Incalza. E siccome chi ha tali incarichi è il dominus assoluto dei cantieri, Perotti può fare, in questo caso per una commessa dell’Eni, un contratto al cognato Giorgio Mor. Il quale poi, a sua volta, ingaggerà l’ingegner Luca Lupi, figlio del ministro Maurizio Lupi.

 

Storia della lettera @

 

(Marco Belpoliti, La Stampa) La funzione della lettera @ nella posta elettronica è quella di separare l’indirizzo in due parti: la prima è lo user name, la seconda il “contenitore” che lo ospita (host name). Affinché il messaggio che si spedisce giunga a destinazione bisogna mettere @. Come si è arrivati a questa convenzione? E’ stata la scelta di un ingegnere elettronico americano, Raymond Tomlinson, detto Ray, che vide la @ su una telescrivente. Era un semplice carattere sulla tastiera, poco utilizzato e collocato sopra la lettera P. Tomlison non sapeva che aveva una storia antica, di cui diremo: semplicemente gli piacque e per giunta non la usava nessuno. Tomlinson lavorava per una società che progettava nuove applicazioni per la Arpa, l’azienda governativa dedita alle nuove tecnologie per uso militare. Come si sa, è dalla Arpa che viene Internet. Ray era lì; c’era già il sistema operativo Tenex, che permetteva di comporre un messaggio e recapitarlo alla casella elettronica di vari utenti. La @ stava a indicare che il destinatario della lettera elettronica era parte di un luogo insieme ad altri, ovviamente in un’aerea virtuale esterna del sistema.

 

Ray Tomlison spedì il messaggio. Cosa ci fosse scritto non si sa con certezza. Un’opinione che circola sostiene che si trattasse di: QWERTYUIOP, ovvero la prima fila di maiuscole in alto in una tastiera americana. Tutto fortuito? Intanto @ ha un indubbio fascino estetico. Se guardate la vostra tastiera ci sono solo pochi segni che possono attira-re l’attenzione: £ $ % &. Ma sono già tutti e quattro già assegnati. C’è anche #, evidentemente Tomlinson non ne fu attratto. Dopo di lui li hanno opzionati le società telefoniche, e #, detto cancelletto, è diventato l’hashtag di Twitter. Come abbiamo detto, @ ha una storia antica. Era già in circolazione dal 1882. Starebbe per una “d” stilizzata, preceduta da una “a” così da tracciare una “ad”, che viene dall’ “et” latino. Un paleografo americano Berthold L. Ullman, all’inizio del Novecento ha sostenuto, documenti alla mano, che questa sia la sua vera derivazione cioè dalla et. In effetti uno degli esempi più antichi di @ si trova in un manoscritto merovingio del VII secolo. Forse quello che ha attratto l’ingegner Tomlinson è stata la forma arricciata, frutto della fusione di due lettere in un solo tratto calligrafico.

 

È curioso che la scrittura elettronica, che per almeno due decenni sembrava aver messo tra parentesi la scrittura a mano, ha ora nel suo cuore uno svolazzo fatto a penna (così come l’unico corso post liceale intrapreso da Steve Jobs è stato quello di calligrafia). La &, ovvero la e commerciale, in inglese si dice ampersand, forma contratta di and per se and, ovvero il simbolo che sta per sé. La pista che connette @ a & è piuttosto interessante. Jean Tschichold, uno dei maggiori teorici della arte tipografica, disegnatore di caratteri ha dedicato un bellissimo saggio alla storia di &: L’evoluzione del segno et, pubblicato nel 1953 a Francoforte sul Meno. Il type designer cita esempi provenienti dai graffiti pompeiani e dai corsivi romani. & è molto antica, ma non ha prosperato. Qualche notorietà l’ha avuta nel Seicento, ma il suo secolo d’oro è l’Ottocento e la prima metà del Novecento. Aveva fatto appena in tempo a diventare un segno grafico che veicolava l’idea di <una ditta rispettabile, dai servizi affidabili> (G. Unger), ed è declinata. Si è conservata solo nell’ambito grafico anglosassone.

 

Tomlinson l’ha vista lì, nella tastiera, sopra il 6, dove si trova ancora oggi. E non l’ha scelta. Le ha preferito la sorella @ nella serie di lettere appena sotto. Sapeva che erano imparentate? Probabilmente no. La parentela calligrafica, se si dà retta a Tschichold, che nel suo saggio fornisce molti esempi di svolazzi e segni, non è solo genealogica, deriva dalla necessità di abbreviare propria degli amanuensi e degli scrivani commerciali: velocità e semplificazione. Questo è anche il demone contemporaneo. Chissà se Tomlinson ha visto qualcosa d’altro in quelle due lettere l’una dentro l’altra. Unger ha paragonato la & alla cravatta, a quel tocco di fantasia che s’insinua sull’abito borghese. E @? Semplicemente, ciascuno ci vede dentro quello che vuole. La maggioranza propende per una chiocciola, che guizza verso l’interno o l’esterno, a seconda degli occhi che guardano. Un po’ di natura animale nel mondo tutto virtuale delle comunicazioni.

 

Ho comprato un IPhone6

 

(Giacomo Papi, Il Post.it)Ho comprato l’iPhone 6. Non sapevo che avrei innescato una reazione a catena che forse non si è ancora conclusa.Un mattino di inizio gennaio, il mio vecchio iPhone4 ha smesso di respirare. Lo schermo si è rabbuiato e non ha più dato segnali di vita. Ho sperato che fosse la batteria, l’ho cambiata, ma non è servito a niente. Il mio vecchio iPhone4 non si è rianimato.Allora sono andato dai cinesi, ma il negozio era chiuso: forse l’unico giorno in cui un centro cinese di riparazione telefonini ha mai chiuso in tutta la storia dell’umanità. Ero sconnesso dal resto del mondo. Il panico cresceva. Allora sono entrato in un negozio di telefonia gestito da due signore italiane sui sessant’anni, evidentemente gemelle.Ho esposto il problema, le gemelle hanno detto “vediamo”, poi hanno attaccato la spina, staccato la spina, cambiato la spina, estratto la batteria, rimesso la batteria, cambiato la batteria, e alla fine hanno detto <è morto, non c’è più nulla da fare>. <Neanche i cinesi?>, ho chiesto io. <Si figuri i cinesi>, hanno detto loro, <l’unica sarebbe mandarlo in Olanda, nell’unica clinica europea degli iPhone, ma è difficile e comunque le costerebbe quasi come un iPhone nuovo>.

 

Ho sospirato, e acconsentito a comprarne uno nuovo. L’ho scelto d’oro, “gold”. Un po’ ero anche felice. Un nuovo giocattolo. Me ne andavo verso casa tenendo in mano il sacchettino bianco della Apple con dentro la scatolina bianca della Apple con dentro il mio nuovo iPhone6 Gold, e pregustavo il momento in cui avrei potuto finalmente goderne.Prima di scartarlo, mi sono lavato le mani con il sapone e mi sono seduto.Con tutta la delicatezza del mondo, ho tolto il cellophane, scoperchiato la scatola, estratto l’iPhone, aperto l’alloggio della Sim con la graffetta e inserito la Sim nuova. Poi l’ho messo in carica, infilando il cavo Usb nel mio vecchio MacBook. Il mio nuovo telefono mi ha chiesto di digitare il nuovo Pin e io ho digitato il nuovo Pin.Per un minuto intero ho aspettato che si aprisse automaticamente iTunes, ma iTunes non si è aperto. Allora l’ho aperto io cliccando due volte, ma dove c’era l’icona nel vecchio iPhone, l’icona dell’iPhone nuovo non c’era.

 

Ho cercato su Internet: c’era scritto che il mio iPhone6 non era, e non sarebbe mai stato compatibile con il sistema operativo del mio vecchio McBook. Allora ho provato ad aggiornare il sistema operativo del mio computer. Ma non si poteva aggiornare. Era troppo vecchio. L’unica era comprare un nuovo computer. Ho sbuffato, e accettato.Mi sono comprato un Mac Book Pro 13” OX Yosemite Retina. Di nuovo, un po’ ero anche felice. Me ne andavo verso casa tenendo in mano il sacchettone bianco della Apple con dentro la scatola bianca della Apple con dentro il mio nuovo Mac Book Pro 13” OX Yosemite, e pregustavo il momento in cui avrei potuto finalmente goderne.Prima di scartarlo, mi sono lavato le mani e mi sono seduto.Con tutta la delicatezza del mondo, ho tolto il cellophane, levato il coperchio, estratto il computer beandomi di quanto fosse leggero, e l’ho acceso godendo di quanto fosse veloce, e ho guardato lo schermo gongolando di quanto fosse ben definito, e ho cominciato le procedure di installazione.

 

Purtroppo mi sono registrato con una email diversa da quella che fungeva da Apple ID con il mio precedente MacBook e a un certo punto la macchina si è impallata, ho cercato su Internet ma niente, allora ho chiamato l’assistenza – e Silvia, gentilissima, mi ha detto di forzare il riavvio e ricominciare la procedura d’installazione e così ho fatto, e la procedura d’installazione è ricominciata e ho reinserito l’indirizzo mail giusto della mia prima Apple ID, ma avevo dimenticato la password, e così ho riregistrato la password con il vecchio Mac Book, e alla fine mi sono ritrovato con tre Apple ID. Ho richiamato l’assistenza – e Antonio, gentilissimo, mi ha aiutato a sopprimerne due.

 

Era stato faticoso.Ma ero finalmente pronto per sincronizzare il mio nuovo iPhone6 con il mio nuovo MacBook Pro 13” OX Yosemite Retina.Ho inserito il cavo Usb e iTunes si è spalancato. Tutto era cambiato, ogni cosa illuminata, e l’icona del mio nuovo iPhone stava lì, meravigliosa, pronta per la sincronizzazione.Ho inspirato, e sincronizzato.Ero di nuovo un cittadino connesso in mille modi, grazie al mio Apple ID potevo uscire a testa alta nel mondo. Ho sospirato di nuovo, e sono uscito nel mondo.In macchina ero anche un po’ felice. Mentre guidavo, gettavo occhiate affettuose al mio nuovo iPhone6 Gold sul sedile al mio fianco. L’avevo già perdonato: non era colpa sua se, per colpa sua, ero stato costretto a comprare un computer nuovo. Avrei dovuto accorgermi subito che c’era qualcosa di strano, ma ero troppo stordito da tutte quelle novità per capire.E mentre guidavo mi è apparso il negozio dei cinesi, aperto. Ho accostato e sono sceso. In tasca, esanime, giaceva il mio vecchio iPhone4.

 

La signora cinese lo ha preso in mano e accarezzato con dita dalle lunghe unghie color perla. Un secondo dopo averlo messo in carica, ha detto: <Bisogna cambiale avviamento>. <È una cosa complicata?>, ho chiesto io. La signora cinese ha annuito: <Ci vuole 20 minuti>, ha spiegato. <Costa tanto?>, ho domandato io. <20 euro> ha annuito di nuovo lei, <Faccio?>.Ho soffiato, e ho acconsentito. <Faccia>.Dopo 20 minuti sono risalito in macchina. Adesso avevo due iPhone e due MacBook, ma un po’ ero anche felice. Dentro la macchina c’era ancora un’aria strana, ma io non lo sapevo e un po’ ero felice.Ho deciso di fare la prima telefonata in viva voce con il mio nuovo iPhone6. Ma prima dovevo sincronizzarlo. Ho premuto il tasto con l’icona del telefono sul cruscotto e sul display è comparsa la scritta: <Assicurarsi che il Bluetooth del telefono sia acceso>.

Me ne sono assicurato. Era acceso. Per un intero minuto ho aspettato che l’icona del mio nuovo iPhone6 comparisse, ma non è comparsa.

 

Ho cercato su Internet: c’era scritto che la mia macchina non era, e non sarebbe mai stata compatibile con il mio iPhone6.E mentre guidavo mi è apparso un concessionario. Mi sono fermato. Non ho fiatato, e ho comprato una nuova macchina.Adesso finalmente sono tranquillo. Possiedo due iPhone, due MacBook e due automobili. Ogni cosa si è riallineata. Sono di nuovo un cittadino del mondo, connesso con tutti, grazie al mio Apple Id.Ma da allora non ho più fatto una telefonata.Ho il terrore di scoprire che il mio nuovo iPhone6 Gold non è compatibile con la mia famiglia, il mio amore, i miei figli, mia mamma, i miei amici, la casa in cui abito, e che sarò costretto a cambiare anche quelli.Aggiornamento dell’ultim’ora. Oggi 18 marzo 2015, il giorno dopo avere pubblicato questo articolo, il mio nuovo iPhone6 Gold si è magicamente accoppiato con il Bluetooth della mia vecchia Volvo. L’iPhone6 non è ancora comparso tra quelli compatibili nel sito della Volvo, il che fa pensare che l’upgrade si debba ad Apple oppure a Dio, che per molti sono la stessa cosa.

 

La realtà inquietante dei robot

 

(Gabriele Beccaria, La Stampa)<Stiamo dando vita a una nuova specie, e non è detto che ci sarà sempre amica. Potrebbe diventare un avversario, perfino un nemico. Il futuro, che modella l’intreccio di scienza teorica e scienza applicata, è incerto. Di sicuro sarà sempre più affollato di robot, anche nelle possibili versioni estreme di geishe o di macchine da combattimento. E così le macchine ci costringeranno a ripensare tutto, anche logiche e valori>. Imprevedibile nelle idee, Illah Nourbakhsh, professore di robotica alla Carnegie Mellon University di Pittsburgh, è lo scienziato ideale con cui parlare di robot.Professore, lei è uno dei grandi esperti del settore: a che progetto sta lavorando?<A un robot che rende visibili “cose” invisibili per le comunità: è un drone che misura le emissioni e disegna mappe sull’inquinamento>. Lei parla di comunità e in effetti il suo laboratorio è anticonvenzionale: non siete solo un concentrato di cervelli, ma cercate di capire a cosa servono i robot nella quotidianità.<È vero. I nostri team lavorano con le persone che stanno fuori dal laboratorio. Ci spiegano le loro esigenze e noi cerchiamo di soddisfarle>.

 

Qual è il robot più avanzato? <Ci sono robot differenti, avanzati in modi differenti. Lo si capisce da quanta intelligenza mostrano e da come interagiscono: pensando in questi termini, tra i migliori ci sono le auto che si guidano da sole, come quelle di Google e Mercedes>.Cosa le rende così sofisticate?<Hanno a che fare con sistemi complessi, che riguarda-no l’auto stessa, la guida e i pedoni: devono osservarli e predirne i movimenti>. Staremo seduti in auto, lavorandocol computer?<È una prospettiva interessante ma pericolosa. Anche se queste auto possono operare autonomamente nel 99% dei casi negli altri hanno bisogno del nostro aiuto. Immagino che ci vorrà una patente speciale per guidare un’auto senza pilota. Lo so, fa sorridere!>.

 

Lei sostiene che i robot sono una specie capace di connettere il mondo fisico con la realtà digitale: quali sono le loro caratteristiche base?<Ce ne vogliono tre per fare di una macchina un robot: percezione, cognizione e azione>.Ce le spieghi.<Significa percepire l’ambiente e rispondere alle sue sollecitazioni, oltre a prendere decisioni e interagire con estese masse di informazioni, per esempio quelle racchiuse in un Pc. Oggi la quantità di dati è tale da toccare molti aspetti sociali e noi non siamo così evoluti da operare al meglio questo accesso>. A proposito di intelligenza artificiale, lei è tra gli scienziati che la inseguono o che la temono?<Alcuni, come Elon Musk e Bill Gates, sostengono che potrebbe addirittura cambiare l’equilibrio dei poteri. La mia risposta è che il modo in cui si crea l’intelligenza artificiale non è quello che rende noi più intelligenti. I robot calcolano più velocemente e trovano modelli nei dati, ma ciò che non hanno è la coscienza: fanno ciò per cui sono programmati e tuttavia non possiedono desideri>.

 

E questo cosa significa?<Che i robot non possiedono la loro stessa esistenza. Restano nelle mani delle corporation e quindi ciò che si deve temere è che le stesse corporation sviluppino un proprio sistema di intelligenza e diventino più intelligenti di noi. E perciò imbattibili>. Succederà presto?<Sta già accadendo. Ed è questo il pericolo. Ogni giorno diventano più potenti grazie ai Big Data che gestiscono>.Quanti sono i robot?<Centinaia di milioni. E questo numero in crescita fa particolarmente paura nelle fabbriche, perché i robot scavalcano le persone>.Sono un rischio concreto?<Sì, assolutamente. Aumentano la produttività riducendo la manodopera. L’effetto è una sottoccupazione cronica: si converte il labour power in capitai power e la ricchezza cade in poche mani>.

 

C’è una possibile alternativa? Molti parlano di una futura “era della prosperità”<Accadrà quando i robot potranno soddisfare ogni nostro bisogno. Ma si equivoca sul fatto che tra l’oggi e il domani si estende un’epoca di povertà e al momento non sappiamo come attraversare questo deserto>.Intanto lei scrive che i robot ci metteranno sotto stretta sorveglianza.<Siamo controllati già oggi, come accade con l’Internet behaviour: c’è chi fa i soldi sui nostri comportamenti in Rete, anche se noi non vediamo i profitti. Ed è un processo che si intensificherà con l’intelligenza artificiale. A farla scattare basterà un sorriso non appena si osserva una pubblicità. Si sta perdendo ogni forma di privacy>Quanto è pessimista sulla “robotic society”?<Sono pessimista, perché il potere delle informazioni si concentrerà sempre più nelle corporation e nei governi, ma il mio libro contiene un messaggio di fiducia: ci sono tanti possibili futuri e abbiamo il potere di sceglierli>.

 

I robot ci costringeranno a cambiare modelli mentali e valori di riferimento?<La questione è la seguente: qual è il corretto approccio etico con cui trattare i robot, mentre diventano più intelligenti? Li considereremo come dei subordinati, rischiando di alterare i rapporti tra noi umani? O dovremo concedere loro un senso di rispetto?>.Sarà possibile insegnare loro una forma di moralità?<Certo che sarà possibile, ma poi diventerà via via più difficile. Se li renderemo troppo simili a noi, non ci saranno più utili. Semplicemente sostituiremo noi stessi con loro>.Qual è l’opzione migliore?<Ideare robot differenti dagli umani: così sarà più facile istituire con loro rapporti che non siano quelli che regolano le relazioni umane>.E il ruolo degli scienziati?<Molti hanno vissuto nel chiuso dei laboratori; ora, invece, si inizia a ragionare sull’impatto dei robot sulla società, anche se gli studiosi non vengono ancora educati con i concetti della sociologia, dell’etica e della comunicazione. Così, troppo spesso non riescono a tessere un dialogo fruttuoso con le persone. Ecco perché è essenziale far crescere una generazione nuova di ricercatori>.

 

Citazione

L’Italia è la patria del diritto, ma soprattutto del rovescio (Ennio Flaiano)

lorenzo.borla@fastwebnet.it

 

 

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