L’ANNO CHE VERRA’ – LO ZIBALDONE N. 381 DI LORENZO BORLA

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(Luca Ricolfi, La Stampa) L’anno che è appena cominciato presenta naturalmente opportunità e rischi. Le opportunità sono almeno quattro: la ripresa dell’economia americana (con conseguente effetto-volano sul resto del mondo); l’indebolimento dell’euro, che rende più competitivi i nostri prodotti; la diminuzione del prezzo del petrolio, che abbassa i costi di produzione (e neutralizza l’unico vero inconveniente dell’euro debole); e infine, se davvero Draghi lo metterà in atto, il cosiddetto quantitative easing della Banca Centrale Europea, che dovrebbe dare un po’ di ossigeno all’economia. Se questi, e solo questi, fossero i dati di fondo di cui tenere conto, non potremmo far altro che prevedere un 2015 a tinte rosa, con ripresa dell’economia e una prima, sia pur timida, inversione di tendenza del tasso di disoccupazione.

Ma sfortunatamente gli elementi di cui tenere conto non sono solo questi. A fronte delle quattro opportunità appena richiamate, non si possono ignorare i rischi che corre l’Italia, che sono almeno tre. Primo rischio (subito). Il Jobs Act, e in particolare le norme sulla decontribuzione dei neoassunti nel 2015, tardano ancora ad essere messe nero su bianco, ovvero tradotte in leggi, regolamenti attuativi, circolari interpretative, nonché tutto quanto occorre perché, chi vuole assumere, sappia esattamente a che cosa va incontro. La conseguenza di questo ritardo non potrà che essere una paralisi, probabilmente già in atto, delle nuove assunzioni, perché chiunque intenda reclutare nuovo personale, giustamente cercherà di farlo con il contratto più conveniente. Secondo rischio (fra qualche mese). Se si ripresentasse una situazione di turbolenza sui mercati finanziari, l’Italia sarebbe particolarmente esposta alla speculazione. Può sembrare strano, visto il buon andamento dello spread con la Germania negli ultimi mesi, ma si dimentica che il nostro spread, pur migliorando rispetto alla Germania, è peggiorato nei confronti di Irlanda, Spagna e Portogallo, ossia di tutti gli altri Pigs eccetto la Grecia.

Terzo rischio (fra un anno). C’è poi un rischio più nascosto, ma che gli osservatori più attenti hanno già segnalato: una nuova recessione nel 2016-2017, provocata da una raffica di aumenti delle tasse, a partire dall’Iva e dalle accise. Questo rischio è scritto ben chiaro nella Legge di stabilità, là dove si avverte che se i conti non tornassero, si provvederà con mostruosi aumenti di tasse nel 2016 e nel 2017. Il guaio è che i conti potrebbero effettivamente non tornare: in barba ai 20 miliardi di spending review annunciati, la spesa pubblica effettivamente tagliata è poca cosa, ed è ulteriormente diminuita nell’ultimo passaggio parlamentare della Legge di stabilità. Dobbiamo allora essere pessimisti? No, non dobbiamo. Possiamo anche fare gli ottimisti, e sperare che le cose si mettano per il verso giusto. Del resto, la fortuna premia gli audaci. E tuttavia, per sperare che le cose si mettano davvero per il verso giusto, di fortuna ne occorrerà parecchia: dollaro debole, petrolio a basso prezzo, ripresa americana, aiutino di Draghi, rientro della crisi greca, conti pubblici sotto controllo nonostante le molte falle e criticità segnalate dai tecnici. C’è una cosa, però, che anche nello scenario migliore non dipenderà dagli altri, ma solo da noi: far sì che la ripresa, se e quando ci sarà, generi nuova occupazione, dando una speranza ai giovani e alle donne.

Le ipocrisie europee
Intervista a Thomas Piketty

(Eugenio Occorsio, Repubblica) <Non capisco perché le cosiddette cancellerie europee siano così terrorizzate dalla probabile vittoria di Syriza in Grecia. O meglio, lo capisco: però è ora di smontare le loro ipocrisie>. Thomas Piketty, l’economista più autorevole del 2014, come lo ha definito il Financial Times, ha scritto che in Europa <serve una rivoluzione democratica>. Professore, però Tsipras si è fatto strada sventolando la bandiera dell’uscita dall’euro… <Sì, ma ora ha molto ammorbidito le sue posizioni. Si è rivelato, all’opposto, un leader fortemente europeista, una posizione che si assesterà ulteriormente se, com’è probabile, dovrà formare un governo di coalizione, visto che secondo i sondaggi non avrà più del 28%. I più probabili alleati sono il neocostituito partito di centrosinistra Potami e la seconda forza di sinistra democratica che gli garantirebbero un altro 10%. Certo, Syriza farà valere le sue posizioni in Europa, ma non sarà un male, anzi. Qualcosa accadrà>.

Ma è sicuro che non sarà qualcosa di dirompente? <Senta, guardiamo la situazione con realismo. La tensione in Europa è arrivata a un punto tale che in un modo o nell’altro scoppierà, entro il 2015. E tre sono le alternative: una nuova crisi finanziaria sconvolgente, l’affermazione delle forze di destra incentrata sul Fronte Nazionale in Francia e comprendente la vostra Lega e forse i 5 Stelle, oppure uno choc politico proveniente da sinistra: Syriza, gli spagnoli di Podemos, il Partito democratico italiano, quel che resta dei socialisti francesi. Finalmente alleati e operativi. Lei quale soluzione sceglie? Io la terza>.

“La rivoluzione democratica”, insomma. Quali dovrebbero essere i primi atti? <Due punti. Primo, la revisione totale dell’attuale politica basata sull’austerity che sta soffocando qualsiasi possibilità di recupero in Europa, a partire dal Sud dell’Eurozona. E questa revisione deve per primissima cosa prevedere una rinegoziazione dei debiti pubblici, un allungamento delle scadenze, eventualmente dei condoni veri e propri di alcune parti. È possibile, glielo assicuro. Vi siete chiesti perché l’America marcia alla grande, così come l’Europa fuori dall’euro, tipo la Gran Bretagna? Perché l’Italia deve destinare il 6% del proprio Pii al pagamento degli interessi e solo l’l% al miglioramento delle sue scuole e università? Una politica incentrata solamente sulla riduzione del debito è distruttiva per l’Eurozona. Secondo punto: un accentramento presso le istituzioni europee di politiche di base a partire da quella fiscale, e l’orientamento di questa alla maggiore tassazione di rendite personali e industriali. Su queste materie fondamentali in Europa si deve votare a maggioranza e non più all’unanimità, e poi vigilare perché tutti si adeguino. Più centralità serve anche su altri fronti a somiglianza di quanto si sta cominciando a fare per le banche. Solo così si potrà omogeneizzare l’economia e sbloccare la frammentazione di 18 politiche monetarie con 18 tassi d’interesse. Non rendersene conto è miope e, quel che è peggio, profondamente ipocrita>.

Le “ipocrisie europee” di cui parlava all’inizio: a cosa si riferisce precisamente? <Andiamo con ordine. Il più ipocrita è Jean-Claude Juncker, l’uomo al quale irresponsabilmente si è data in mano la Commissione europea dopo che per vent’anni ha condotto il Lussemburgo a depredare sistematicamente i profitti industriali del resto d’Europa. Ora pretende di fare il duro e di prendere in giro tutti con un piano da 300 miliardi che però è finanziato solo per 21, e all’interno di questi 21 la maggior parte sono fondi europei già in via di erogazione. Parla di “effetto leva” senza neanche sapere di cosa sta parlando. Al secondo posto c’è la Germania, che sembra abbia dimenticato il maxi-condono dei suoi debiti dopo la seconda guerra mondiale, scesi di colpo dal 200 al 30% del Pii, che le ha permesso di finanziare la ricostruzione e la prepotente crescita degù anni successivi. Dove sarebbe andata se fosse stata obbligata a ridurre faticosamente il debito a colpi dell’uno o due per cento all’anno come sta costringendo a fare il Sud Europa? La terza posizione nell’imbarazzante classifica delle ipocrisie spetta alla Francia, che ora si ribella alla rigidità tedesca ma è stata in prima fila nell’affiancare la Germania quando è stata impostatala politica dell’austerity (con il Fiscal Compact del 2012 si sono condannate le economie più deboli a ripagare i debiti fino all’ultimo euro, malgrado la devastante crisi). Ecco, se saranno smascherate e isolate queste ipocrisie si potrà ripartire per lo sviluppo europeo nell’anno che sta per iniziare. E Syriza farà meno paura>.

Ridurre la disuguaglianza

(Mariana Mazzuccato, Repubblica) La crisi finanziaria globale che è cominciata nel 2008, e che tuttora perdura, è stata provocata da due fattori. Il primo è l’aumento della disuguaglianza, specialmente negli Usa, che ha costretto le persone a indebitarsi fortemente. Il secondo fattore è stata la presenza di un settore finanziario deregolamentato, che negli ultimi decenni è cresciuto a ritmi ben maggiori della produzione industriale perché la finanza, per speculare, prestava a se stessa invece che all’industria. Le politiche per il dopo-crisi dovrebbero quindi puntare prioritariamente a ridurre la disuguaglianza e indurre la finanza a prestare soldi all’economia reale invece di usarli per speculazioni.

Eppure oggi stiamo fallendo miserevolmente su entrambi i fronti. La disuguaglianza è in aumento. L’Italia, per molti aspetti, sta andando peggio del resto dell’Ocse. I dati Eurostat mostrano che il 10 per cento più ricco della popolazione italiana guadagna tre volte di più del restante 90 per cento. Nel resto dei Paesi dell’Ocse il reddito dell’1 per cento più povero, in percentuale del totale, è cresciuto (dall’ 1,8 al 2,6 per cento), in Italia continua a regredire. Inoltre, anche se fa comodo fingere che tutte le imprese se la passino male, la realtà è che la quota dei profitti sul totale del reddito a livello mondiale è superiore al passato; e l’Italia da questo punto di vista è ai primi posti in Europa, con il 45 per cento rispetto a una media Ue del 40. E come dimostra Mario Pianta nel suo libro Nove su Dieci, tutto questo mentre i salari medi per lavoratore italiano sono diminuiti di oltre lo 0,1% in media l’anno per due decenni.

Ma per ridurre la disuguaglianza non basta considerare solo l’efficacia della tassazione ridistributiva o elargizioni come il bonus degli 80 euro. È essenziale affrontare anche i problemi più intrinseci di governo aziendale, che hanno consentito ai profitti di salire a livelli record, distanziando i salari. È proprio questo punto che ci porta al secondo problema. L’idea che la finanza grande e cattiva debba in qualche modo essere addomesticata per poter far pendere nuovamente la bilancia dal lato della buona vecchia industria, non tiene conto di quanto sia diventata malata l’economia reale. L’industria stessa si è finanziarizzata, concentrandosi esageratamente sull’accumulo di liquidità (che oggi si trova ai massimi livelli). Spendendo per misure, come gli stock buy back, che rafforzano sul breve termine il titolo azionario (e di conseguenza le stock option e le retribuzioni dei top manager), invece di puntare su quelle tipologie di spesa che garantiscono una crescita nel lungo periodo, come gli investimenti in ricerca e sviluppo, e in formazione del capitale umano.

È urgente quindi che la politica industriale dei governi, che finalmente sta tornando in voga, non si limiti a sostenere certi settori, come l’informatica o le bioscienze, ma chieda alle aziende che operano in questi e in altri settori di partecipare agli investimenti di cui sopra. Invece stiamo assistendo all’esatto contrario: governi che si fanno in quattro per accondiscendere senza fiatare alle richieste delle grandi imprese “per favorire la crescita”. Un esempio di quanto il governo sia ostaggio delle richieste delle imprese) è l’introduzione della (poco dibattuta) della patent box in Italia (nel 2013 era stata introdotta nel Regno Unito dal cancelliere dello Scacchiere Osborne). Questa politica, che riduce considerevolmente la tassazione sul reddito derivante da brevetti, ottiene il risultato di accrescere ancora di più i profitti delle imprese, ma fa poco o nulla per incrementare gli investimenti in innovazione (che sarebbe lo scopo dichiarato della misura).

I periodi più lunghi di crescita stabile nella maggior parte delle economie si hanno quando le aziende medie e grandi investono i loro profitti nella ricerca di nuovi prodotti e nuovi modi di produrre. Quello di cui c’è bisogno oggi è una finanza impegnata nel lungo termine che aiuti questo processo, sotto forma di banche pubbliche (come la KfW in Germania) o agenzie pubbliche strategiche (come Darpa in Usa o Sitr a in Finlandia), e una politica fiscale che favorisca l’approccio a lungo termine. Solo in questo modo il settore privato troverà il coraggio ed il supporto per investire in innovazione. Assieme ad una politica fiscale progressiva e non regressiva, è fondamentale anche costruire istituzioni in grado di continuare a negoziare condizioni migliori per i lavoratori, dal momento che i profitti continuano a crescere in rapporto ai salari. Conclusione: finché non metteremo insieme politiche per l’innovazione, riforma del settore finanziario e rafforzamento delle istituzioni in grado di lottare per conto dei lavoratori (la quota del salario del reddito complessivo), lascieremo l’economia reale malata come prima: più disuguaglianza, tante imprese piccole e deboli e una manciata di imprese grandi finanziarizzate, che chiedono sempre di più e danno sempre di meno.

La corruzione

(Sabino Cassese, Corriere) Che cosa non funziona nelle amministrazioni, e ha reso possibile un così esteso e multipartitico sistema corruttivo, che ha coinvolto la gestione dei campi profughi, l’assistenza agli immigrati, l’agenzia per le case popolari, la manutenzione delle piste ciclabili, la manutenzione delle aree verdi, i servizi di igiene urbana, la raccolta differenziata, gli interventi per il maltempo, la gestione delle gare, molti uffici amministrativi? Guardando al di là della cronaca, quali lezioni si possono trarre dalle accuse, che servano a prevenire ulteriori fenomeni di cattiva amministrazione e di criminalità? Il decentramento di fatto porta con sé maggiore corruzione: questo risulta da tutti gli studi compiuti sul fenomeno. In Italia abbiamo una eccessiva ramificazione, le frange periferiche di un sistema di poteri pubblici troppo estesi. Perché, ad esempio, la gestione dell’immigrazione, che è problema nazionale (anzi, europeo), è affidata ad enti locali? Poi, si è fatto troppo ricorso a privati, cooperative e società per azioni. Le amministrazioni locali non fanno, fanno fare ad altri. In queste periferie del potere, dotate di cospicue risorse, senza adeguati controlli, si annidano sprechi e corruzione. Sappiamo che le amministrazioni locali italiane si avvalgono di circa 8 mila società per azioni. Non sappiamo quante siano le cooperative su cui gli enti locali fanno affidamento.

Il terzo fattore è quello dei sistemi derogatori, con cui si aggirano le regole sugli appalti. In particolare, a Roma, specialmente dal 2008, con la solita motivazione che le procedure sono arcaiche e farraginose (“da sbloccare”, nel linguaggio di uno degli indagati), si sono creati percorsi paralleli, meno garantiti e meno controllati. A questi si aggiunge un ulteriore incentivo alla corruzione: troppi posti amministrativi sono coperti da persone scelte senza concorso, non per il loro merito, ma per “meriti politici”. Costoro non si sono guadagnati il posto con le loro forze, ma l’hanno avuto grazie ad appoggi di partito o di fazione. Quando chiamati, debbono “contraccambiare” il favori resi loro da quel sottobosco di vassalli che si nasconde sotto i manto della politica C’è, infine, un legame perverso fra partiti e amministrazione, come si legge nelle parole di un altro indagato (<la cooperativa campa di politica>). Organi rappresentativi, come i Consigli comunali, che dovrebbero essere di indirizzo e di controllo, invece fanno gestione. In sintesi: <Abbiamo bisogno di istituzioni perché gli uomini non sono angeli> diceva uno dei padri fondatori degli Stati Uniti. Nel mondo molle dell’amministrazione romana, con tanti corpi ibridi, né pubblici, né privati, ma che operano con risorse pubbliche, non vi sono regole, ma deroghe; non procedure, ma scorciatoie; non veri funzionari pubblici, ma uomini alla mercé delle fazioni. I diavoli, quindi, hanno avuto la meglio.

Non è così facile come sembra

(Gianrico Carofiglio, Repubblica) Molti parlano di corruzione e sembrano certi che ci voglia così poco per reprimerla, del tipo <basterebbe che…>. Quelli che esibiscono le opinioni più nette sono gli stessi che non hanno neanche una vaga idea di cosa siano un’indagine e un processo per questo tipo di reato. La corruzione è (quasi sempre) un reato senza testimoni. Quando il fatto viene commesso – quando i soldi cambiano mano o viene formulata la promessa illecita – sono presenti solo il corrotto e il corruttore, ma per ovvie ragioni nessuno dei due ha alcun interesse a raccontare l’accaduto ai magistrati o alla polizia. Questo anche perché manca ogni norma per incentivare la collaborazione con la giustizia, come nelle indagini per mafia. Quasi mai esiste una notizia di reato nella quale si dica esplicitamente che il tale funzionario pubblico ha preso una tangente o che il tale cittadino l’ha pagata. Quando le denunce arrivano sono di regola imprecise o congetturali, e richiedono l’avvio di lunghi e faticosi accertamenti. Fra questi le intercettazioni; sulle cui spese conviene soffermarsi un attimo. Un’intercettazione ambientale costa infatti circa 80 euro al giorno, un’intercettazione telematica 120 euro al giorno, l’intercettazione di messaggi whatsapp 200 euro al giorno (!), il noleggio delle varie apparecchiature fra i 50 e i 100 euro al giorno. Con queste tariffe, una indagine media arriva facilmente a bruciare fra i 500 e i 1.000 euro al giorno. E un’indagine media dura mesi, quando non addirittura anni.

Uno potrebbe dire: va bene, lo Stato spenda quello che c’è da spendere purché il fenomeno sia investigato e represso con efficacia. Anche qui non è così semplice. Per molte ragioni – la cautela degli indagati, l’omertà di chi potrebbe collaborare, la sproporzione fra il fenomeno e i mezzi per combatterlo – questa complicata e costosa rete, lascia sfuggire quasi tutti i pesci. Le poche volte che questo non accade, e che a carico di qualcuno vengono acquisiti concreti elementi di prova, inizia un’interminabile trafila, sempre uguale: ordinanze di custodia cautelare, riesami, questioni preliminari, dibattimenti, trasferimenti di magistrati, ripetizione dei dibattimenti, primo grado, Appello, Cassazione, nullità, inutilizzabilità, prescrizione, sconti di pena, attenuanti generiche, ricorsi, riammissioni in servizio, scusate tanto, abbiamo scherzato.

A fronte delle enormi spese di queste indagini e dei relativi processi, il numero di persone per le quali si arriva a una sentenza di condanna definitiva e a una effettiva espiazione di pena, è semplicemente ridicolo. Una combinazione più unica che rara di spese enormi, e di risultati pressoché nulli. In un contesto simile aumentare le pene – per la corruzione o per qualsiasi altro reato – è del tutto inutile e rischia di essere propagandistico. Tocca per l’ennesima volta ricordare la lezione di Beccaria: la capacità di intimidazione e di prevenzione di una pena non è legata alla sua misura e alla sua durezza ma all’elevata probabilità e soprattutto alla rapidità della sua applicazione. Provate a parlare a un pubblico ministero americano di questi argomenti. Provate a dirgli come funziona (funziona?) in Italia il sistema della repressione penale di questi reati. Vi guarderà con espressione incerta, chiedendosi se state scherzando o se vivete in un Paese di pazzi. Poi, dopo essersi ripreso, vi é spiegherà come fanno loro e immancabilmente vi parlerà di agenti sotto copertura. L’agente sotto copertura è un ufficiale di polizia che, con una falsa identità, avvicina un criminale e gli propone un affare. Se l’altro accetta si consuma il reato e (indipendentemente dal fatto che l’arresto scatti subito o lo si rinvii per approfondire le indagini e individuare ulteriori colpevoli) le possibilità che il malandrino possa sottrarsi alla giustizia sono molto ridotte. C’è il filmato, c’è la registrazione, c’è poco da discutere o interpretare.

In Italia è già prevista la possibilità di compiere operazioni sotto copertura per reati di criminalità organizzata, traffico di armi e droga, per pedopornografia. Non è prevista per il reato che più di tutti lo richiederebbe, cioè appunto la corruzione. Eppure non si tratta di un’idea bizzarra di qualche magistrato forcaiolo. Ce lo chiede, come si suol dire, la comunità internazionale. L’articolo 50 della convenzione delle Nazioni unite per la lotta alla corruzione, impegna gli stati firmatari ad adottare norme che consentano le operazioni sotto copertura, con presupposti chiaramente indicati e sotto il rigoroso controllo dell’autorità giudiziaria. La convenzione Onu è stata ratificata dall’Italia già da oltre 5 anni ma da allora nulla è accaduto. O quasi. Va detto infatti che giace in commissione Giustizia alla Camera un buon disegno di legge presentato da alcuni parlamentari del Pd proprio in materia di operazioni sotto copertura e lotta alla corruzione. Se questo disegno di legge fosse rapidamente esaminato e approvato – assieme ad altre fondamentali riforme, in materia di prescrizione e collaboratori di giustizia – il senso di impunità di corrotti e corruttori comincerebbe a sgretolarsi. E soprattutto si farebbe percepire ai cittadini e alla comunità internazionale che in questo Paese c’è la volontà di uscire davvero dalli poltiglia morale. Quella in cui alcuni sguazzano e in tanti rischiano di affogare.

La bufala dei 60 miliardi

(LB) Personalmente, ho sentito per la prima volta la frase: <La corruzione in Italia vale 60 miliardi> un paio di anni fa, in una intervista a Giancarlo Caselli a “Che tempo che fa”. Da allora la stessa espressione è apparsa nei media centinaia o migliaia di volte. Quasi uno slogan, ripetuto senza specificazioni, senza chiarimenti, senza dettagli. Cosa vuol dire <la corruzione è di 60 miliardi?>. A che cosa ci si riferisce? Forse a denaro che passa di mano dal privato al pubblico, per ottenere favori? In questo caso 60 miliardi (120 mila miliardi delle vecchie lire), divisi per circa 3 milioni di dipendenti statali, farebbero in media 20.000 euro a testa, dall’usciere al dirigente generale. A parte questo, ci sono altre obiezioni: la storia è complicata (e divertente)

(Davide De Luca, Il Post) <La Commissione Europea ha comunicato che in Italia la corruzione costa allo Stato 60 miliardi l’anno>: si tratta di una bufala che gira ormai da tempo. Partiamo dal primo errore: la Commissione in realtà non ha stimato proprio nulla. Come è possibile leggere a pagina quattro del documento in questione, è stata la Corte dei Conti italiana ad effettuare la stima. Eppure, la Corte dei Conti non ha mai fatto nulla del genere, anzi: ha detto esattamente l’opposto. Il 16 febbraio 2012, durante l’apertura dell’anno giudiziario, venne diffusa la relazione del procuratore generale della Corte, Lodovico Principato. A pagina 100 si legge: <Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia fosse correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal SAeT del Dipartimento della Funzione Pubblica (Relazione al Parlamento XXVII n. 6 in data 2 marzo 2009 del Ministro per la Pubblica Amministrazione), rispetto a quanto rilevato dalla Commissione Ue, l’Italia deterrebbe il 50% dell’intero giro economico della corruzione in Europa>

Il giorno successivo la stampa interpretò queste parole come se la Corte avesse dichiarato che la corruzione in Italia vale 60 miliardi di euro. A quanto pare, la Commissione europea ha fatto la stessa cosa. La relazione della Corte dei Conti, però, nella riga successiva prosegue con queste parole: <Il che appare invero esagerato per l’Italia, considerando che il restante 50% si spalmerebbe sugli altri 28 Paesi dell’Unione Europea>. In altre parole la Corte dei Conti considera la stima di 60 miliardi <come invero esagerata>. La CdC indica una fonte per questa stima, la relazione al parlamento del 2 marzo 2009 (quindi la storia va indietro di parecchi anni) fatta dall’allora ministro Renato Brunetta. Ma, ecco cosa scriveva Brunetta all’epoca: <Le stime che si fanno sulla corruzione, 50/60 miliardi all’anno, senza un modello scientifico diventano opinioni da prendere come tali ma che, complice a volte la superficialità dei commentatori e dei media, aumentano la confusione ed anestetizzano qualsiasi slancio di indignazione e contrasto>. Come se non bastasse, molti altri uffici della pubblica amministrazione hanno smentito questa stima. Ad esempio, nella relazione del 2009, il Servizio Anticorruzione e Trasparenza definisce i 60 miliardi una cifra “fantasiosa” e una “bufala”. Il Dipartimento della funzione pubblica, nella sua relazione al parlamento 2010-2011, definisce la stima “infondata” e “fantasiosa”. Visto che praticamente mai nessuno nella pubblica amministrazione italiana ha fatto questa stima, da dove arrivano questi misteriosi 60 miliardi di corruzione?

Alcuni sospetti sono elencati già nei documenti qui sopra, ma i primi a ricostruire tutta la storia sono stati i redattori del blog Quattrogatti. La storia a questo punto diventa ancora più interessante. Nel 2004 la Banca Mondiale ha pubblicato un rapporto sui costi economici della corruzione in cui veniva calcolato che il valore delle tangenti pagate in tutto il mondo ammontava a circa mille miliardi di dollari, cioè una cifra tra il 3 e il 4 per cento del Pil mondiale. A quanto pare qualcuno deve aver provato a fare questo calcolo per l’Italia e ha scoperto che il 3/4 per cento del nostro PIL sono proprio 60 miliardi. Il problema, ovviamente, è che, come specifica lo stesso studio della Banca Mondiale, il livello di corruzione varia da paese a paese. Non c’è assolutamente nulla di scientifico nel prendere una media della corruzione mondiale e applicarla ad un singolo paese per ricavarne il valore della corruzione. Per capire l’assurdità di questo conto, basta pensare che 60 miliardi sarebbero l’8,5 per cento del valore della corruzione per l’intero pianeta.

I professionisti dell’anticorruzione

(Giuliano Ferrara, Il Foglio) Oggi i “professionisti dell’anticorruzione” fanno a gara con i “professionisti dell’antimafia”. Mentre lo Stato “colluso”, cioè partiti e governi, carabinieri, polizia e finanza tengono sotto assedio la mafia e smantellano le sue centrali direttive a colpi di arresti e confische, la società e le istituzioni vengono attraversate dal mascariamento (in Sicilia si chiama “mascariamento” lo sporcare qualcuno nell’onore e nella moralità) della letteratura paracriminale, dell’antropologia universale mafiosa, in cui tutto è mafia, fino alla farsaccia finale della mafia romana di Buzzi e Carminati, uno scandalo per l’intelligenza, e una irrisione verso i dati di realtà, di un piccolo giro di corruzione municipale cravattara trasformato in fenomeno mafioso a risonanza planetaria. Sbalorditi, quelli del New York Times scrivono che non c’è interstizio della società italiana senza corruzione. Tutto è marcio. Saremmo un caso unico, un’anomalia. Ballano cifre sempre diverse, sempre abusabili, sui costi sociali della corruzione, sulla corruzione “percepita”, mostro gigantesco che ci soffoca e impoverisce. La politica è sotto schiaffo. Management e burocrazie pure.

Molta gente, moltissima, è letteralmente rincoglionita dalla chiacchiera anticorruttiva che aumenta l’audience dei talk show, consente all’ultimo venuto di farsi bello con la magniloquenza onnipresente delle mani pulite, dell’indignazione del popolo, della necessità di un immediato repulisti, delle responsabilità del potere politico. L’anticorruzione ha un suo marketing, una sua necessità commerciale e civile che tutto travolge, è una guerra di parole e di formule che penetra in Parlamento, crea partiti fasulli e li porta al 25 per cento, alimenta lotte interne e dossieraggi, falsa lo stato di diritto e compromette l’habeas corpus, intrufola lo stato per ogni dove a spese degli individui e dei gruppi sociali, mette tutti gli uni contro gli altri, deturpa il volto di vera responsabilità e di controllo dei giornali e delle tv e della rete, che dovrebbero cercare induttivamente la verità empirica e invece parlano a nome di una verità dedotta dagli idoli demagogici. Il professionismo anticorruttivo falsa la pista democratica lungo la quale si dovrebbe effettuare la corsa che seleziona i migliori o i meno peggio.

Il ciclo italiano dell’anticorruzione, che in forme letali dura dal 1992, è una delle cose più corrotte che abbia mai visto la luce nel dopoguerra. Serve una rivoluzione della coscienza in nome del principio di realtà. La corruzione è puzzona e marginale se comparata alle altre grandi questioni della vita pubblica e privata: la capacità del sistema di decidere, la crescita economica in epoca di moneta unica e di crisi recessiva, la competitività del sistema italiano di produzione e lavoro, la struttura dei consumi, l’energia, la politica estera, l’avvicendamento di nuove classi dirigenti alla guida dello stato, la cultura e l’istruzione, la ricerca. E’ diffusa ma non è affatto centrale nella vita reale, non ha il posto di devastante onnipresenza che le attribuiamo nel nostro vaniloquio quotidiano. E, come giustamente dice l’ex magistrato Gherardo Colombo con la sua disincantata erre moscia e la sua apparente ingenuità, il succo e la radice della corruzione è nei comportamenti sociali, nell’ignoranza, nell’identità profonda del nostro modo di giudicare il particolare e il generale, cose che si curano con la scuola, con investimenti veri nel miglioramento della qualità del vivere e del convivere.

Fabiola Giannotti

(Dario Cresto Dina, Repubblica) Fabiola Giannotti sarà il terzo direttore italiano del Cern di Ginevra, la prima donna in assoluto. Le pongo alcune domande, magari bizzarre, relative al suo lavoro. Che cosa è la bellezza? <Attingo dalla fisica: la bellezza è la simmetria imperfetta. La fisica ha una sua estetica, che si può contemplare nelle leggi della natura. Comprenderla è un gioco intellettuale abbastanza semplice. Pensi che le equazioni fondamentali del Modello Standard delle particelle elementari si possono scrivere su una T-shirt. Sono tre righe appena…>. Come definirebbe la materia oscura (che rappresenta circa il 20% dell’Universo)? <La misura della nostra ignoranza. Nessuna particella elementare fin qui scoperta presenta le caratteristiche della materia oscura. Ci serve una teoria più ricca. Chissà, magari la natura ha in serbo un’altra soluzione>. In campo scientifico ogni risposta produce nuove domande. Arriverà un tempo in cui sapremo tutto? <Non credo. La conoscenza è un cammino senza fine. Possono privarci del lavoro, dello stipendio, della casa. Ma nessuno può portarci via la conoscenza>. Quanto siete vicini al Big Bang? <Siamo lontanissimi. Finora siamo riusciti a capire quello che è successo fino a un centesimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang, circa 14 miliardi di anni fa. Ma siamo lontani dal capire che cosa è successo al momento del Big Bang>. Cercate Dio? <No. Non credo che la fisica potrà mai rispondere alla domanda. Scienza e religione sono discipline separate, anche se non sono antitetiche. Si può essere fisici e pure credenti. Ma è meglio che la scienza e la fede rimangano separate>.

Ode al maccherone

In questo ceto c’è il maccheroncino / riccio di fioritana e tagliatello / cannarono di prete e fedelino / cappelluccio, spaghetto, e vermicello / orecchio di prete e scorza di nocello / lagana, tagliolino, stivaletto / lasagna grossa e piccola, anelletto / ma però come io dissi il primo vanto / porta, fra tutti quanti, il maccherone / ne’ altro, così buon, si trova, quanto / questo che piace a tutte le persone / e più degli altri piacerà fintanto / che si trovi negli uomini ragione / perché’ il sapor di questi è sì squisito / che insiem consola il gusto e l’appetito / (Antonio Viviani, Li maccheroni, poemetto giocoso)

lorenzo.borla@fastwebnet.it3

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