ZIBALDONE N. 380 – RIPARARE LA DEMOCRAZIA

0
1061

(Michele Ainis, Corriere) A ogni azione corrisponde una reazione. È la terza legge della dinamica, ma è anche la prima legge della politica. Che infatti si emoziona solo quando un’onda emotiva turba l’opinione pubblica. Troppi detenuti nelle carceri? Depenalizziamo. Troppi corrotti nella municipalità capitolina? Penalizziamo. Sicché in Italia siamo giustizialisti o garantisti a giorni alterni. Basta consultare Google: 141 mila risultati per “aggravamento delle pene”, 143 mila per “diminuzione delle pene”. Ma oggi è il giorno dell’inasprimento, del giro di vite e di manette. Il Consiglio dei ministri ha appena licenziato un testo urgente, che stabilisce la confisca dei beni del corrotto (meglio tardi che mai). Innalza i termini di prescrizione che altre leggi avevano abbassato. E per l’appunto aggrava la pena detentiva di due anni. Succede sempre, quando c’è un allarme sociale da placare. È già successo con le norme approvate dopo l’ultimo caso di pedofilia (settembre 2012) o dopo il penultimo disastro ambientale (febbraio 2014).

Funzionerà? Come dice il poeta, un dubbio il cor m’assale. Perché chi ruba e chi intrallazza non pensa al codice penale, pensa di farla franca. E se ci pensa, non saranno dieci anni di galera anziché otto ad arrestare i suoi progetti. Perché inoltre il deterrente non risiede nella durezza della pena bensì nella sua certezza; ma alle nostre latitudini è sempre incerta la condanna non meno della pena. Perché l’ordinamento giuridico italiano ospita già 35 mila fattispecie di reato, che chiunque può commettere senza nemmeno sospettarne l’esistenza. Rendendo così insicuro il cammino degli onesti, mentre rimane lesto il passo dei disonesti. E perché infine quell’ordinamento è volubile e sbilenco come i politici che l’hanno generato. Per dirne una, la legge di depenalizzazione del 1981 inasprisce le sanzioni per chi divulghi le delibere segrete delle Camere.

Eppure una via d’uscita ci sarebbe: passare dalla (finta) repressione alla (vera) prevenzione. Come? Per esempio sforbiciando le 8 mila società partecipate dagli enti locali. O con misure efficaci contro il conflitto d’interessi, che tuttavia alla Camera rimbalzano dalla Commissione all’Aula senza che i nostri deputati cavino un ragno dal buco. Con una legge sulle lobby: gli americani se ne dotarono nel 1946, gli italiani hanno visto 55 progetti di legge andare in fumo l’uno dopo l’altro. Con l’anagrafe pubblica degli eletti, che i Radicali propongono (invano) dal 2008. O quantomeno potremmo uscirne fuori rendendo obbligatorio per legge il provvedimento deciso dal sindaco Marino dopo la scoperta dei misfatti: rotazione dei dirigenti, degli incarichi, dei ruoli di comando. Una misura anticorruzione già emulata in lungo e in largo, dal Comune di Canicattì al Policlinico di Bologna. E già benedetta da Cantone il mese scorso, quando sempre Marino avviò la rotazione territoriale dei vigili urbani, dopo l’arresto per tangenti del loro comandante.

Dopotutto, è l’uovo di Colombo. Se non resti per secoli inchiodato alla poltrona, ti sarà più difficile poltrire, ti sarà impossibile ordire. E il corruttore avrà i suoi grattacapi, se il corruttibile cambierà faccia a ogni stagione come una maschera di Fregoli. Dice: ma così diminuirà la competenza, che cresce in virtù dell’esperienza. Vallo a raccontare agli italiani, vittime di un’amministrazione incompetente e per giunta inamovibile. Vallo a raccontare a chi ha dovuto specchiarsi per vent’anni nelle facce immarcescibili degli stessi politici, degli stessi alti burocrati. Qui e oggi, una ministra fresca di stampa come la Boschi, sta facendo meglio di tanti suoi stagionati predecessori. E comunque l’uovo non lo inventò Colombo: fu deposto nell’antica Grecia. In democrazia si governa e si viene governati a turno, diceva Aristotele. Sarebbe bello se l’Italia sapesse riparare la sua democrazia.

I ritardi nell’attuazione delle leggi

(Sabino Cassese, Corriere) I ritardi nell’attuazione delle leggi sono divenuti un male endemico del nostro Paese. Solo un terzo di esse è messa in atto in un anno. Le altre aspettano. Un anno e mezzo dopo la fine del governo Monti, solo due terzi delle leggi da esso promosse sono state seguite dai relativi decreti delegati e regolamenti. Così gli atti del Parlamento diventano promesse. L’attuazione differita produce disillusione e sfiducia. La distanza tra Paese reale e Paese legale aumenta. Quando i governi hanno durata breve, come quelli Monti e Letta, il divario temporale fa danni ancor maggiori, perché non sempre le priorità del governo successivo, su cui ricadono le maggiori responsabilità attuative, corrispondono a quelle del governo precedente.

Inoltre, l’attuazione per via normativa è solo una parte delle procedure esecutive. Ogni legge è seguita da grappoli di norme (decreti delegati e regolamenti). Ma, poi, servono altre decisioni: destinazione di risorse, organizzazione di uffici e di personale, redazione e approvazione di circolari e di provvedimenti amministrativi, spesso da adottare di concerto e sentite più autorità. La gestione di tutta questa macchina è nelle mani della burocrazia, talora lenta, talaltra mossa da altre motivazioni, diverse da quelle del legislatore e della classe politica. È solo alla fine di questa trafila che una prescrizione legislativa, spesso reinterpretata dalla burocrazia, giunge al cittadino. E questo ha ragione di lamentarsi se deve aspettare anni. Le cause di questo scarto tra ciò che si scrive nella Gazzetta Ufficiale e la realtà sono chiarissime e non si capisce perché non vi si ponga rimedio.

La prima è l’ipertrofia legislativa. Più di un quarto delle norme inserite in leggi potrebbero essere approvate con altri atti, meno solenni e più spediti. Più leggi si fanno, più se ne dovranno fare, con ima crescita esponenziale, perché per modificare una legge occorre un altro atto dello stesso legislatore. Poi, le leggi sono anche un modo per comunicare politiche pubbliche. Anzi, in Italia, per ima distorsione legalistica pericolosa, sono diventate il modo prevalente. E i governi danno la precedenza all’annuncio piuttosto che alla realizzazione, all’iniziativa piuttosto che all’attuazione. Infine, i governi non sanno organizzarsi, non dispongono di una cabina di regia e di un giornale di bordo necessari per seguire costantemente le complesse procedure che fanno diventare realtà una legge. Dunque, i rimedi ci sono. Non ci sono, invece, la cultura e l’attenzione per il risultato. L’Italia resta ferma alle cerimonie della «posa della prima pietra», mentre sarebbe utile che le cerimonie si facessero quando l’edificio è terminato e i cittadini possono entrarvi.

Che fine ha fatto la spending review?
(Maurizio Ferrera, Corriere) Che fine ha fatto quella revisione della spesa di cui tanto si è parlato nell’ultimo anno? E che doveva fungere da leva per risanare il settore pubblico sul versante delle uscite, in base a criteri di efficienza ed equità? Purtroppo ha fatto una brutta fine. Con le dimissioni del Commissario Cottarelli lo scorso ottobre, il processo si è bloccato. I materiali prodotti da Cottarelli non sono mai stati discussi apertamente. In un’intervista televisiva quasi imbarazzante, il Commissario si è limitato a menzionare come “sprechi” le solite siringhe calabresi (che costano più di quelle lombarde) e le sedi estere di alcune Regioni. Nella legge di Stabilità i tagli ci sono, è vero (per circa 15 miliardi di euro). Ma sappiamo come sono stati definiti: un tira e molla fra i vari ministeri e fra governo centrale e Regioni. Non c’è da stupirsi se questa vicenda ha rafforzato i dubbi dell’Europa. Nelle sue valutazioni sulla legge di Stabilità, Bruxelles ha espresso preoccupazioni, tanto più che la Commissione aveva fornito precise indicazioni su come impostare delle buone spending reviews. L’ingrediente principale sarebbe un forte investimento politico da parte dei governi, con una chiara definizione degli obiettivi e un mandato preciso alle strutture coinvolte. Poi servono buoni dati, analisi accurate, coordinamento organizzativo, trasparenza, comunicazione pubblica, monitoraggio e valutazione ex post, integrazione permanente di tutti questi elementi nel ciclo annuale di bilancio. Queste sono le condizioni perché una revisione della spesa possa avere successo. Quasi tutte, purtroppo, sono clamorosamente mancate nella spending di casa nostra. È comprensibile che i declassamenti di rating e i rimproveri di Angela Merkel diano fastidio. E sarebbe ingeneroso non riconoscere a Matteo Renzi un serio impegno per le riforme. La superficialità con cui è stata gestita la partita dei tagli da inserire nella legge di Stabilità è però difficilmente comprensibile. Ed è soprattutto un errore a cui il governo deve al più presto rimediare.

Anatemi

(Elirs, Circolo Rosselli) J’accuse! Il mio bellicoso proposito è basato su alcune osservazioni: a) I consiglieri regionali fanno quadrato lungo l’intero Stivale contro l’ipotesi di revisione della normativa sui “vitalizi” (è stato documentato e pubblicizzato che vi sono soggetti che con alcuni mesi di rappresentanza percepiscono vitalizi che superano i 5000 euro mensili, mentre la gran massa di lavoratori anche del pubblico impiego, dopo 40 anni di servizio, si ritrova con 1200-1500 euro. b) Il decreto per il “contributo di solidarietà” a carico delle retribuzioni dalle alte soglie, viene dichiarato incostituzionale. c) La massima giurisdizione (la Consulta) nomina a turno alla presidenza i componenti che di volta in volta sono prossimi alla pensione, perchè ognuno se ne vada con il carico di privilegi previsto. d) Le pensioni d’oro sono in pieno godimento. e) I boiardi di Stato sono sempre presenti nei gangli vitali delle pubbliche amministrazioni. f) I consiglieri regionali spesso superano la retribuzione dei deputati. g) La partitocrazia, i sindacati e quant’altri hanno la responsabilità di aver fatto crescere la miriade di “bubboni” nel corso di un trentennio di saccheggi indiscriminati, tanto da ridurre la Repubblica all’anemia, portando il debito pubblico all’inverosimile. Una realtà di disuguaglianze intollerabili consolidatesi nel corso di diversi decenni e che ora risulta difficile sradicare. Si aggiungono la “politica del rigore”, l’eccessiva tassazione, l’azzeramento del ceto medio, la disoccupazione crescente, le minacce e i provvedimenti di licenziamento, la delocalizzazione delle industrie, l’eliminazione della “giusta causa” a cui non potrà che subentrare “l’ingiusta causa”. Tutti fenomeni che porteranno ad aspri conflitti sociali, le cui avvisaglie sono già in atto nella “guerra tra poveri”. Sic stantibus rebus, come sarà possibile avviare processi di costruzione di modelli di società ispirati a criteri di reale ed effettiva equità e giustizia sociale, nonché di rapporti pacifici e collaborativi tra gli Stati?

Il dilemma

(Mattia Feltri, La Stampa) Parlo di un dilemma vecchio come il mondo: è meglio un politico intelligente ma disonesto, oppure un politico onesto ma stupido? Primo problema: quello intelligente ma disonesto impiegherà l’intelligenza soprattutto per rubare? Secondo problema: quello onesto ma stupido non finirà col fare più danni di quello che ruba? Terzo problema: come valutare la soluzione italiana, dove i politici sono disonesti e pure stupidi?

Le difficoltà del Governo

(Sergio Ferrari, www.labour.it) Che Renzi appaia sempre più nervoso, è del tutto comprensibile: le sue lenzuolate di ottimismo raccolgono sempre meno credito. Per motivi ovvi: la crisi internazionale, comunque fuori dalla nostra sfera di influenza diretta, anche a causa di un’Europa inadeguata, resta sul terreno; ma è la crisi specifica italiana – che ci relega in coda alle varie classifiche per dimensione e qualità di sviluppo – quella che chiama in causa esclusivamente il nostro intervento. Da qui, le attese disattese per l’azione del nostro Governo. Visto l’andamento dei fatti, è abbastanza ovvio che gli entusiasti si raffreddino, i dubitosi diventino perplessi, i perplessi critici, e questi aumentino. La recente soddisfazione di Renzi per l’approvazione delle modifiche dello Statuto dei lavoratori per cui finalmente <ora gli imprenditori possono riprendere ad investire e gli investitori esteri a tornare in Italia>, può dare la misura di queste difficoltà e di questa ricerca di consolazioni sempre più improbabili.

Quello che è certo è che le condizioni sociali e strutturali del Paese avrebbero richiesto una tempistica e una strumentazione diversa, che solo gli investimenti pubblici avrebbero potuto assicurare (checché ne dicano Confindustria e economisti mainstream). Il caso dei rapporti polemici con i sindacati che, secondo Renzi, dovrebbero aggiornare la loro azione o farsi da parte, dovrebbe, almeno per coerenza, indurre a riflettere sul ritardo politico/culturale dell’azione del Governo e, particolarmente, sui risultati raggiunti. Altrimenti le conclusioni logiche sono quelle secondo cui – da una Cgil rimasta pressoché isolata – si è passati nel giro di pochi mesi ad un possibile sciopero generale dove chi resta isolato non è certo la Cgil. Che, tra l’altro, può vantare un’elaborazione programmatica particolarmente aggiornata quale quella contenuta nel Piano del Lavoro. Anche se, purtroppo, non adeguatamente conosciuta.

Dunque, i segnali che vengono dal Governo in materia di politica economica e sociale, non contengono nulla in grado di correggere il nostro declino; e nemmeno, avendo rinunciato a trovare le risorse là dove esistono, ad invertire la crescente gravità delle ingiustizie sociali in modo tale da riaprire l’orizzonte della speranza. E, intanto, il dato della disoccupazione – 13,2%, pari a 3 milioni e 410 mila – è, in assoluto, il più alto registrato nella storia del Paese. A questo punto le strade che si aprono davanti a Renzi non sono molte: o proseguire su quella intrapresa con esiti preoccupanti dal punto di vista della crescita e dell’occupazione, o trovare da qualche parte un nuovo Keynes che lo guidi su percorsi del tutto alternativi ai fini dello sviluppo e della competitività del Paese.

Richiamarsi agli effetti delle riforme che richiedono tempi tecnici non brevi per manifestarsi, è una scappatoia; ma, nelle condizioni attuali questa scusa conferma una grave sottovalutazione della crisi in atto. Una crisi sociale, ambientale ed economica ben nota e di tale gravità da non poter essere affrontata solo con riforme a effetto ritardato. Se poi queste riforme possono avere un esito a dir poco incerto – non è un caso che le previsioni in materia economica e sociale vengono costantemente smentite in negativo – occorre allora aggiungere agli errori anche inaccettabili tempi lunghi. La realtà, come sempre, può offrire, rispetto a questi due percorsi, numerose varianti, ma non è facile individuare alternative differenti, anche sperando negli effetti di trascinamento provenienti dall’auspicabile superamento della crisi internazionale. E questo vale anche per chi verrà dopo Renzi.

Il vero pericolo è la rassegnazione

(Luigi La Spina, La Stampa) Al di là delle impressioni che sul lavoro del governo arrivano fuori dai nostri confini, anche dai sondaggi diffusi in Italia sembra crescere il filo di delusione per i concreti risultati degli sforzi riformistici compiuti finora da Renzi.  Può essere il risultato delle eccessive promesse del premier e di un annunciato calendario di scadenze che ignorava i ritmi bizantini della politica nazionale. Sicuramente la giovanile baldanza del nostro premier ha trascurato le pervicaci resistenze al cambiamento non solo della classe politica e della burocrazia di Stato, ma anche, e soprattutto, di una società bloccata da interessi corporativi consolidati da decenni e impegnati in una difesa del potere che punta più sul logoramento dell’avversario che su una aperta ribellione. Infine, è certamente ingenuo pensare che gli effetti di riforme difficili come quella sul mondo del lavoro, comunque portata a termine, si possano constatare in pochi mesi o che processi di cambiamento delle istituzioni, come quello dell’abolizione del bicameralismo perfetto, non possano seguire le complesse norme prescritte per una revisione costituzionale.

Scontata la necessità di una accelerazione sui progetti del governo, del resto condivisa dal premier e dai suoi ministri, sarebbe opportuno rivedere le priorità delle riforme, secondo una diversa urgenza e, forse, riequilibrando gli indirizzi di politica economica, finora troppo concentrati sul sostegno all’offerta e meno preoccupati di rafforzare la domanda. Il vero pericolo, però, è la rassegnazione. Rassegnazione all’impossibilità di attuare nel nostro Paese vere riforme, che abbiano l’efficacia indispensabile per dare una scossa a quell’Italia dall’economia stagnante. Rassegnazione a quell’Italia del malaffare, dove la mafia non è più un nome proprio, con una propria regione di appartenenza e regole criminali proprie, ma è diventata l’etichetta infamante di un costume politico comune, allargato all’intera comunità nazionale degli affari e dell’amministrazione pubblica. Una rassegnazione che non ci possiamo più permettere.

Quattro motivi per non disperare

(Daniele Manca, Corriere Economia) In questo scorcio di fine 2014 è difficile essere ottimisti. La prospettiva è quella di un altro anno di stagnazione, se non di recessione. Ma nonostante tutto ci sono alcuni elementi per guardare al 2015 con maggiore fiducia. Primo: se siamo riusciti perlomeno a mantenerci a galla nella recessione, molto lo dobbiamo alle aziende che esportano. Ebbene, negli ultimi sei mesi l’euro si è indebolito di circa il 10%. E questo potrebbe spingere l’export. Gli istituti di ricerca calcolano un euro meno forte di circa il 10% rispetto al dollaro, può contribuire per una percentuale tra lo 0,5% e lo 0,8% alla crescita del Pil. Secondo: a capo della Banca centrale europea c’è fortunatamente Mario Draghi che ha ben presente il danno di avere una moneta troppo forte. Terzo: dei buoni risultati dell’export bisogna ringraziare in larga parte gli Stati Uniti. Nel secondo trimestre gli Usa hanno messo a segno una crescita del 4,6% e nel terzo del 3,9%, in entrambi i casi dati rivisti al rialzo. Questo ci ha permesso a ottobre di pareggiare il non buon andamento dei primi otto mesi dell’anno delle esportazioni. Euro, Draghi, America e ancora un quarto motivo per non essere pessimisti sull’andamento della nostra economia: il prezzo del petrolio. Da nazione importatrice di materie prime avere un barile di greggio a prezzi più che dimezzati rispetto ai massimi storici, significa una bolletta energetica meno pesante. E, una ulteriore spinta agli investimenti. Non bastano certo quattro ragioni per sconfiggere l’atteggiamento guardingo che cittadini, imprese, lavoratori, giovani hanno rispetto al futuro. Certo: servirebbe un’Europa meno confusa, ma anche una burocrazia non ostile a chi intraprende. Ma questa è tutta un’altra storia.

Fa meglio chi ha studiato

(Andrea Sironi, Rettore Bocconi) Gli effetti più pesanti della difficile situazione economica si fanno sentire sull’occupazione, in particolar modo quella giovanile. Ad aumentare non è solo la disoccupazione, ma anche il numero di quanti, scoraggiati dall’assenza di reali prospettive, rinunciano a cercare attivamente lavoro ed escono così dalle statistiche ufficiali. Aumenta anche la popolazione dei cosiddetti Neet: giovani <not in education, employment or training> che alimenta fenomeni di disagio sociale, di economia sommersa e di attività ai margini della legalità. Dati recenti evidenziano la natura qualitativa, e non solo quantitativa, dello squilibrio fra la domanda e offerta di lavoro. Da un lato giovani che non trovano un’occupazione, dall’altro imprese che faticano a trovare risorse con le competenze, le capacità e le attitudini richieste. Studi recenti della Banca d’Italia mostrano come uno dei fattori che limita la propensione delle imprese a investire in nuove tecnologie sia rappresentato dalla difficoltà che le stesse imprese incontrano nel trovare adeguate competenze.

A fronte di questo squilibrio il nostro Paese risulta agli ultimi posti in Europa per quanto attiene la quota di laureati nella fascia di età fra i 25 e i 34 anni: il 22% rispetto a una media del 37%. Inoltre, nel corso degli ultimi dieci anni, in Italia è diminuito di oltre il 20% il numero di giovani che si iscrivono all’università. Questa tendenza rende non solo impossibile conseguire l’obiettivo fissato dall’Ue nell’ambito della “Strategia di Lisbona” – 40% di laureati entro il 2020 – ma anche difficile perseguire l’obiettivo più contenuto del 27% fissato dal nostro Paese. Si tratta di una tendenza opposta a quella prevalente nei Paesi Ocse, dove l’accesso all’istruzione universitaria continua a crescere e non è ostacolato dalla crisi economica, la quale, al contrario, riduce il costo opportunità dell’investimento in istruzione Le conseguenze non possono essere sottostimate. L’evidenza empirica mostra come l’investimento in istruzione, e in generale in capitale umano, presenti un rilevante impatto positivo non solo sulla crescita economica, ma anche su altri aspetti del benessere collettivo, quali la salute, la distribuzione del reddito, la riduzione della criminalità e la coesione sodala

Non stupisce che in un contesto come quello che vive oggi il nostro Paese vengano sollevati dubbi circa il valore per un giovane di investire nella propria istruzione superiore. E’ bene tuttavia chiarire che i dati disponibili smentiscono questi dubbi, ed evidenziano chiaramente la valenza personale e sociale di questo investimento. Nei Paesi Ocse, l’82% delle persone con una laurea sono occupate. Lo stesso dato è di quindi ci punti inferiore (67%) per coloro che hanno un diploma di scuola superiore. Analoga evidenza si ottiene per il tasso di disoccupazione. Quest’ultimo era pari nel 2012 al 5% per i laureati, sensibilmente inferiore a quello medio della popolazione, pari al 7%. Anche i dati Eurostat relativi ai Paesi dell’euro mostrano un chiaro impatto dell’istruzione universitaria sulle prospettive occupazionali: il tasso di occupazione risulta pari all’84% per i laureati contro il 73% di coloro che hanno un diploma di scuola superiore. Sul fronte del reddito l’evidenza è ancora più netta. A fine 2012 il differenziale di reddito medio nei Paesi Ocse fra laureati e diplomati di scuola superiore con età compresa fra 25 e 34 anni risultava pari al 40%.

Nel nostro Paese queste evidenze sono meno marcate ma comunque significative. Il tasso di occupazione dei laureati risulta superiore a quello dei diplomati: 79% versus 71%. Analogamente, il differenziale retributivo fra laureati e diplomati, limitandosi a considerare i giovani con età compresa fra 25 e 34 anni, seppure positivo, è inferiore alla media degli altri Paesi sviluppati (25% Italia, 40% Ocse e 38% Ue) e a quello di Paesi come Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti. In questo contesto, soprattutto sul fronte dell’occupazione giovanile, le università hanno un’importante responsabilità. Non si tratta solo di for- ” mare giovani competenti e preparati. Occorre sviluppare un chiaro e strutturato percorso di avvicinamento al mercato del lavoro sin dai primi anni del percorso di studi, offrendo opportunità di esperienze professionali e occasioni di confronto con imprese e laureati contro il 73% di coloro che hanno un diploma di scuola superiore. Sul fronte del reddito l’evidenza è ancora più netta. A fine 2012 il differenziale di reddito medio nei Paesi Ocse fra laureati e diplomati di scuola superiore con età compresa fra 25 e 34 anni risultava pari al 40%.

Il futuro è già qui

– A Seul (Corea) è stato aperto uno shopping center virtuale. Tutti i prodotti compaiono su uno schermo Lcd e permettono ai clienti di ordinarli semplicemente toccando lo schermo. Quando il cliente arriva alle casse, i prodotti sono già impacchettati e pronti per essere ritirati.
– E’ in vendita un cellulare che può piegarsi quanto si vuole, e fare le stesse cose di uno smart phone.
– E’ in vendita un braccialetto che può ricevere e trasmettere mails, suonare musica e chattare con i tuoi amici. Naturalmente ti dà anche la data e l’ora, e tante altre cose.
– Una nuova linea di stufe da campeggio ti permette non soltanto di cucinare, ma usa l’energia prodotta dal riscaldamento per illuminare la tua tenda, caricare i cellulari e qualsiasi altra cosa che si possa fare con una presa Usb.
– C’è una porta a vetri che si oscura quando la chiudi a chiave. E diventa di nuovo trasparente quando la riapri.
– La nuova “Google Fiber” è in fase di sperimentazione avanzata. Offrirà agli utenti una connessione internet cento volte più veloce di quelle che stiamo usando attualmente.
-Tutte le funzioni che vent’anni fa venivano svolte da una voluminosa serie di oggetti (telefono fisso, radio, giradischi, Pc, macchina fotografica, registratore) sono contenuti in un singolo smart phone.
– Butta per aria una pallina (o qualsiasi altro oggetto), e il cestino dell’immondizia, guidato elettronicamente, si posizionerà nel punto di caduta.
– Le mani bioniche sono così avanzate che possono eseguire anche lavori di fino, come allacciarsi le scarpe.

Auguri

Auguri, ne abbiamo bisogno (gli auguri di Natale sono in effetti auguri di riuscire a superarlo indenni).

lorenzo.borla@fastwebnet.it

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento!
Inserisci il tuo nome