Il bicchiere mezzo pieno – ZIBALDONE NUMERO 377

0
1115

Il bicchiere mezzo pieno

 

(Ministero Economia Finanze) L’Italia viene spesso descritta, soprattutto nella comunità internazionale, sulla base di alcuni indicatori negativi: il debito pubblico, la bassa competitività, il deficit nominale di bilancio che in passato ha determinato l’apertura di una procedura di infrazione da parte della Commissione europea. Tuttavia, accanto a questi dati ci sono grandezze economiche utili a rappresentare l’Italia per ciò che è: un Paese importante del mondo sviluppato, il secondo Paese per produzione manifatturiera in Europa, la terza economia dell’Eurozona. Un Paese che negli ultimi venti anni ha saputo tenere i propri conti sotto controllo, collocandosi, sotto questo profilo, tra i più virtuosi.

 

Aiuti di Stato alle banche (Fonte Eurostat)

I dati Eurostat mostrano come nel periodo della crisi economica (2007-2013) i sistemi bancari e finanziari nazionali di 17 paesi dell’area euro abbiano ricevuto aiuti dai Governi nazionali. Le banche italiane hanno ottenuto sostegni dal Governo per circa 4 miliardi di euro, a fronte dei 250 miliardi di euro percepiti da quelle tedesche e dei 165 miliardi da quelle britanniche. Il dato complessivo, calcolato da Eurostat, ammonta a un totale di 688 miliardi per l’Unione Europea. Di questi, 518 miliardi sono stati concessi nei Paesi dell’area euro. L’intervento italiano corrisponde quindi a poco meno dell’1% degli aiuti di stato alle banche erogati nell’area euro. E parte di questo sostegno è già stato restituito alle casse pubbliche.

 

Contributi ai fondi Salva Stati (Fonte Banca d’Italia)

L’Italia è il terzo contributore dell’area euro per aiuti versati ai Paesi in difficoltà (i cosiddetti “fondi salva-Stati”) utilizzati per fornire assistenza finanziaria a Cipro, Grecia, Portogallo e Irlanda. Come riportato dal Supplemento al Bollettino Statistico della Banca d’Italia dell’ottobre 2014 il nostro Paese ha contribuito dal 2012 al 2014 con una quota del 18,5%, per un valore pari a 60 miliardi di euro.

Rischio di sostenibilità (Fonte Public Finances in Emu 2013 / European Commission)

L’analisi della Commissione europea sulla sostenibilità delle economie dei Paesi aderenti all’area euro riconosce all’Italia un rischio, sia nel breve che nel medio e lungo periodo, sempre al di sotto della media dei 18 Paesi dell’area euro nonché dei 27 aderenti all’Unione Europea. Per rischio di sostenibilità viene inteso il divario tra la posizione strutturale di bilancio ed una posizione di bilancio sostenibile. Secondo l’analisi della Commissione il debito pubblico italiano è tra i più sostenibili nel lungo periodo in Europa. L’indice Esse2 (lungo periodo) è pari a -2,1 a fronte di una media Ue di 3 e di una media dell’area euro di 2,3. Un valore negativo dell’indice Esse2, come nel caso italiano, indica la sostenibilità delle finanze pubbliche negli scenari dati anche senza aggiustamenti ulteriori. Anche gli indicatori di sostenibilità di breve e medio periodo danno l’Italia tra i più sostenibili.

 

Debito pubblico (Fonte Eurostat, Fmi)

Dall’inizio della crisi economica, il debito pubblico italiano è cresciuto ad una velocità inferiore rispetto sia agli Stati Uniti che ad altri paesi dell’Unione europea (solo la Svezia ha un risultato migliore). La dinamica del debito in termini assoluti non è necessariamente indicativa della sostenibilità del debito: il rapporto tra debito e Pil è sicuramente un indicatore più affidabile in questo senso. Una lettura della dinamica del debito in valore assoluto insieme ai dati sull’avanzo primario può essere utile per sottolineare che il rapporto tra spese ed entrate ha influito meno di quanto non abbiano fatto la bassa crescita, i contributi ai fondi “Salva Stati” e il pagamento di debiti arretrati delle pubbliche amministrazioni.

 

Deficit/Pil (Fonte Ameco / Commissione Europea)

L’Italia ha registrato un rapporto deficit/Pil al di sotto del 3% nel 2013, così come nel 2012. Pertanto l’anno scorso la Commissione Europa ha sancito la chiusura della procedura d’infrazione per deficit eccessivo aperta negli anni precedenti. Secondo le previsioni attuali, le finanze pubbliche italiane sono conformi a tale requisito, previsto dai trattati europei per i paesi che hanno aderito all’unione monetaria e quindi adottato l’euro come valuta, anche nel 2014. Nel confronto con l’Eurozona, è evidente che l’Italia è uno dei pochi paesi che rispetta questa regola. E’ interessante osservare che tra i paesi estranei all’euro, sono molti quelli che presentano un rapporto deficit/PIL superiore a tale soglia. Tra questi il Regno Unito, il Giappone, gli Stati Uniti.

 

Avanzo primario (Fonte Ameco / Commissione Europea)

L’avanzo primario nei conti pubblici italiani è tra i più alti del mondo e il più stabile negli ultimi 20 anni tra gli Stati membri dell’Unione Europea. Nel 2013 l’avanzo primario in percentuale del Prodotto interno lordo è il secondo più alto, solo dietro alla Germania (per 0,16 punti percentuali) e pari al doppio dell’Austria che si colloca al terzo posto in questa classifica dei paesi virtuosi.

 

 

Il futuro dell’industria

 (Francesco Manacorda, La Stampa) Questo è il Paese <che ha il quinto surplus mondiale nel commercio, ma non ne è consapevole>. E’ forse una sorta di Bella Addormentata della crescita? O è invece il posto dove la scuola prepara i giovani per lavori che non esistono, le imprese spendono troppo poco in Ricerca e Sviluppo per poter competere, e dunque serve un surplus di determinazione per superare gli ostacoli e fare industria? Riuniti a Torino per un convegno organizzato dall’Aspen Institute, i professori si interrogano. Le risposte sono tutt’altro che univoche. Ma il quadro d’insieme che compongono non ritrae comunque un Paese votato a un inevitabile declino dell’industria manifatturiera. A tracciare una delle strade di un futuro possibile è la ricerca condotta da Giorgio Barba Navaretti, dell’Università di Milano, che illustra come negli ultimi decenni la crescita – imponente – dell’Asia sia stata innescata più che altro da un aumento dell’occupazione, mentre quella degli Stati Uniti e in buona misura anche dell’Europa è stata spinta dagli aumenti di produttività. Mentre il gap tra le economie emergenti e quelle mature si va lentamente riducendo, nel primo tipo di Paesi l’esercito di lavoratori senza competenze viene sostituito sempre di più dal capitale, sotto forma di investimenti in macchinari; nei Paesi più avanzati, invece, a sostituire i lavoratori senza competenze sono quelli skilled (specializzati) che hanno appunto le conoscenze necessarie a competere in settori avanzati. Dunque il futuro potrà essere quello di tre continenti che gareggiano tra di loro sostanzialmente sul valore aggiunto, dato anche dalle capacità degli occupati, invece che sul lavoro a basso costo.

 

C’è spazio per l’Italia in questo scenario? Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda e teorico del medium-tech, quell’impasto tutto italiano di innovazione <incrementale più che rivoluzionaria> e saper fare che crea occupazione <con talenti ordinari più che straordinari>, pensa di sì. Rocca sottolinea come <proprio le nuove tecnologie offrano fantastiche opportunità per le piccole e medie imprese italiane, perché aumentano la personalizzazione dei prodotti e anche le nicchie di mercato>. Le innovazioni incrementali e continue, anche legate al mondo del lavoro e della produzione materiale, possono fare la differenza. Alfredo Altavilla, capo della Fca (Fiat Chrysler Automobiles) in Europa, racconta che tra i motivi che portarono nel 2009 l’amministrazione Obama a scegliere Fiat per rilevare la Chrysler ci fosse anche il metodo di produzione World Class Manufacturing basato sul miglioramento continuo. Una nuova concezione di manifattura che ha permesso appunto grandi guadagni in termini di produttività, e tra il 2010 e il 2014 ha consentito al gruppo risparmi cumulati per 2,5 miliardi di euro.

 

Certo però che finché la domanda interna – in Europa in generale, in Italia a maggior ragione – resterà a questi livelli, pensare che da qui possa venire una spinta all’industria è pura illusione. Non a caso Marco Fortis, che insegna all’Università Cattolica, cita soprattutto esempi della forza dell’Italia esportatrice e sottolinea casi come quello della nostra farmaceutica, cresciuta negli ultimi tre anni, proprio grazie alle vendite di prodotti all’estero. Per produrre oggi da noi bisogna avere un modello di business orientato all’export. La scelta appunto che ha fatto Fca puntando sull’Italia come piattaforma per l’export di vetture con un nome consolidato e famoso – da Maserati ad Alfa Romeo – per le quali i clienti di tutto il mondo siano disposti a pagare un premio. Ma non di sola fama si può vivere. Le richieste dell’industria per poter competere meglio anche sull’export sono quelle che elenca Altavilla: da piani comuni tra aziende, università e pubblica amministrazione per spingere le diverse aree a politiche fiscali favorevoli, a una spinta decisa alla logistica. Tutto con l’obiettivo di continuare a investire in una manifattura senza la quale un’economia – anche avanzata – non può prosperare.

 

 

Occupazione

 

Se crediamo ai dati Istat sull’occupazione, apprendiamo dalle tabelle on line che a fine dicembre 2007 (ultimo anno di relativo benessere) gli occupati erano 23.347.000, di cui 14.132.000 uomini e 9.263 donne. A fine settembre 2014 gli occupati erano 22.457.000 di cui 13.121.000 uomini e 9.337.000 donne. La perdita di posti, nei sette anni considerati, è quindi di 890.000 unità, il 3,8% sul montante del 2007, da farsi carico esclusivamente agli uomini, in quanto le donne che lavorano sono leggermente aumentate. Quali movimenti ci siano stati all’interno di questi numeri, fra chi ha perso il lavoro e chi invece si è inserito o reinserito nel mondo lavorativo, non è dato sapere. Non è dato sapere quanti posti di lavoro a tempo indeterminato, e a tempo pieno, si siano trasformati in posti più precari a vario titolo, part time eccetera. Tuttavia è evidente, dal leggero aumento delle donne lavoratrici, che esse compensano in qualche misura i familiari maschi che hanno perso il lavoro. Infine non vengono ovviamente presi in considerazione i lavori in nero, che sono probabilmente un numero non irrilevante, forse intorno ai tre milioni.

 

 

Storture in un Paese di ricchezza recente

(Alessandro Pansa, Corriere) Verso la fine del 1700, al grande storico della caduta dell’impero romano Edward Gibbon venne proposto di acquistare, per 1.500 sterline, un seggio alla Camera dei Comuni. Nel 1761, trentasette membri del Parlamento inglese furono incoraggiati dal governo di Sua Maestà a comprarsi l’elezione, con la promessa di vedersela ripagata da adeguati contratti di concessione. Più o meno nello stesso periodo, affaristi inglesi di dubbia moralità che avevano fatto fortuna in India e, per ciò stesso chiamati “nababbi”, si accaparravano un posto ai Comuni per sfuggire alle inchieste giudiziarie. Insomma, la classe politica era convinta di avere <diritto di essere mantenuta a spese dello Stato>. Lo racconta Lewis Namier nel suo studio sul Parlamento britannico nel periodo in cui veniva costruito il dominio inglese nel mondo: studio ripreso oggi da Giuseppe Berta nel suo libro Oligarchie, che ci aiuta a capire il fastidio verso la debolezza strutturale della classe parlamentare italiana: la quale, diceva Gaetano Salvemini <è per il 10 per cento migliore, per il 10 per cento peggiore e per l’80 per cento uguale al Paese che governa>.

 

Senonché gli inglesi, con quel Parlamento, si sono fatti un impero. È vero, duecento anni fa la Perfida Albione non aveva avversari temibili; oggi la concorrenza tra sistemi e Paesi è spietata, pure dentro le case comuni come l’Unione Europea. Ma non basta. La Gran Bretagna di allora seppe perseguire l’interesse nazionale superando le ambizioni dei mercanti, l’ansia di impunità dei nababbi e pure i dubbi di Gibbon. E noi? L’Italia di oggi si dibatte in una crisi la cui gravità dipende dalla sua estensione: economia, industria, scuola, giustizia, sanità, ambiente, pubblica amministrazione. Non bastano leggi e riforme. Occorre altro. Serve la consapevolezza della vastità del nostro dissesto da parte di una società coesa, la sua disponibilità a condividere minori benefici privati oggi in cambio di maggior benessere collettivo domani.

 

Ma il nostro è un Paese di ricchezza recente – intrisa quindi del terrore di essere perduta – e di privilegi consolidati nel corso delle vita della Repubblica, se non fin da prima, accumulati da diverse categorie sociali non “insieme a”, ma a “a scapito di”, altri pezzi della società. Cosa accadrebbe se, per stimolare davvero il mercato del lavoro qualificato, venissero aboliti gli ordini professionali? Se, per incentivare la capitalizzazione delle imprese, si limitasse la deducibilità fiscale degli interessi passivi? Se, per ridurre il tasso di evasione, si ridefinissero i parametri di redditività dei commercianti? In un Paese dove si ritiene di <poter contare solo su se stessi> la rivolta delle categorie a difesa del loro “particulare” sotterrerebbe l’interesse generale. Ma dove è carente la società esiste lo Stato, ci ricorda Hegel. Ed è lo Stato, e anzitutto il governo, che dovrebbe restituire unità ad una società sfilacciata. Il governo deve indirizzare una società incerta e divisa, traducendo nei fatti ciò che è necessario per il Paese.

 

Semplifichiamo le alternative. Da una parte, un sistema orientato al mercato: flessibilità del lavoro, privatizzazione di ciò che resta di vendibile tra le aziende a controllo pubblico, erogazione diretta del bonus a chi fa figli; nella convinzione che si debba lasciare libera la gente di produrre reddito e ricchezza, favorendo l’individualismo e il dinamismo rispetto alla coesione. Dall’altra, una società che privilegia equità e solidarietà fondata sul principio secondo cui le comunità che gestiscono ampi sistemi di welfare e processi di redistribuzione della ricchezza sono più unite e resistenti alle crisi. Una scelta inevitabile, anche perché la leva fiscale, strumento fondamentale della politica, è stata utilizzata oltre il dovuto e restano quindi poche mediazioni possibili. Soprattutto, si deve disporre di una “visione del mondo”, di un sistema di idee. Diciamolo, di un’ideologia. Che non è una brutta parola: se ben usata, infatti, definisce un’identità e rappresenta un requisito indispensabile per la gestione del potere in quanto mezzo e non fine.

 

Italia, uno Stato debole

 

(Giovanni Belardelli, Corriere) E’ dal 1861 che l’Italia soffre di una statualità debole, per molti motivi. Per il sentimento di estraneità, al momento dell’unificazione, di gran parte della popolazione. Per il conflitto che oppose a lungo Stato e Chiesa. Non ultimo per il fatto che il protagonista dell’unificazione, il Piemonte, non aveva – in termini di territorio, popolazione, forza militare – un peso così superiore e prevalente rispetto al complesso degli altri Stati preunitari, come era invece il caso della Prussia – che svettava nettamente rispetto agli staterelli tedeschi, con i quali costituì nel 1871 la Germania. Venendo ad anni più vicini, tutti ricordiamo come nella prima repubblica i partiti – quanto meno i due maggiori, la Dc e il Pci – rappresentassero soggetti che limitavano il potere dello Stato in quanto erano essi stessi delle istituzioni protostatali, come qualcuno li ha definiti. La nauta delle Regioni e l’estensione dei poteri successivamente loro attribuiti con la riforma del titolo V della Costituzione anno rappresentato un ulteriore fattore di debolezza dello Stato, come luogo di indirizzo e rida della vita del Paese. Si è trattato di una debolezza che, come avviene anche per gli individui quando sono deboli e sicuri, si è tramutata e si tramuta spesso in arroganza e prevaricazione. Lo testimoniano i rapporti del comune cittadino con la pubblica amministrazione 0 la giungla di adempimenti fiscali e amministrativi cui è costretta ogni piccola impresa.

 

Diciamo la verità. Con questa (relativa) debolezza dello Stato noi italiani ci siamo accomodati benissimo: sempre pronti a chiedere provvidenze e interventi a uno Stato dalle finanze abbastanza dissestate, amiamo invece poco lo Stato cosiddetto guardiano notturno, quello che vigila sul rispetto dell’ordine pubblico e delle leggi. Quel che avviene riguardo alla tutela del territorio e alle catastrofi naturati evidenzia proprio questo. Una parte del Paese ha tenacemente avversato ogni norma che potesse limitare le costruzioni in zone a rischio: dalle aree golenali dei fiumi alla zona rossa del Vesuvio. Salvo poi chiedere allo Stato di intervenire per i soccorsi, i danni, la ricostruzione. Questo, come è ovvio, non vuol dire che i singoli cittadini danneggiati da una frana o da una alluvione siano esattamente gli stessi che avevano edificato incautamente o illegalmente. Nondimeno è questa domanda alternata di assenza e presenza dello Stato che si è verificata e – temo – continua a verificarsi. Come è noto, la frana di Sarno del 1998 fu causata anche dal fatto che fossero stati ostruiti dai rifiuti i canati per drenare le acque che scendevano dalla montagna. Dopo la tragedia (circa 160 morti) l’area venne messa in sicurezza; ma oggi, ha dichiarato il sindaco di Sarno le vasche per la raccolta delle acque <sono state trasformate in discariche di rifiuti>. Non c’è che dire, una descrizione perfetta di quella specie di “stato di natura” in cui molti italiani si ostinano a voler vivere. Incuranti del fatto che questa è una condizione poco compatibile con resistenza di un Paese moderno.

 

 

Rottamare Alesina e Giavazzi

 

(Gustavo Piga, nel suo sito) Alesina e Giavazzi criticano il Premier Renzi pur sapendo bene di averne in mano l’agenda di politica economica. Hanno tutte le ragioni del mondo a definire questa manovra non espansiva. Ma non la chiamano restrittiva e recessiva perché vogliono far credere a Renzi che è nella direzione giusta, che ci vuole solo un piccolo sforzo in più e miracolosamente, seguendo i loro consigli, ce la faremo ad uscire fuori dal pantano. Quali consigli? Uno solo, perché su tutti gli altri il Premier sta già seguendo alla lettera la loro ricetta. Equilibristi perfetti, si permettono di ricordare a Renzi <come una manovra può essere espansiva anche se, a parità di deficit, riduce le tasse sul lavoro, compensandole con tagli di spesa, soprattutto in un Paese in cui la tassazione sul lavoro è una delle cause della scarsa competitività>

 

Come no. Sappiamo bene che non è vero. Che non è vero che una manovra (a parità di deficit se tagliano le tasse quanto le spese) sia espansiva; ma piuttosto: a) è recessiva, perché i tagli di spesa colpiscono le imprese direttamente levandogli appalti mentre i tagli di tasse non vengono spesi in una crisi come questa, ma risparmiati (famiglie che non consumano) o non sfruttati (imprese che non investono) e, b) è instabile, perché fa aumentare il debito pubblico su Pil tramite l’effetto recessivo. Alesina e Giavazzi sono noti in tutti il mondo per questa loro ideologia che non ha spazio su nessun giornale di economia serio, e di cui premi Nobel come Krugman e Stiglitz si fanno beffe pubblicamente. E’ nota la fonte di quest’errore scientifico: l’essere preda dell’ideologia che “pubblico è brutto” senza se e senza ma. Ideologia che rende impossibile pronunciare sia pure a bassa voce quanto i due Premi Nobel americani chiedono da tempo all’Europa di fare: la ripresa degli investimenti pubblici per riavviare subito domanda, redditi e occupazione.

 

Sarebbe semplice spiegare ai nostri due ideologi che le rendite finanziarie potrebbero anche essere tassate meno, se si generasse reddito e sviluppo – via dalla stagnazione – tramite maggiori appalti ed investimenti pubblici, abbandonando il Fiscal Compact, e stimolando i redditi. Ma ciò non sarebbe tollerabile per i nostri A&G: meglio che muoia tutto ma che sopravviva l’ideologia (una storia che conosciamo bene). Certo, le ideologie fanno sempre bene a qualcuno, anche questo ci insegna la Storia. Ma se per caso Alesina e Giavazzi fossero interessati al destino dell’unico vero creditore netto dell’economia italiana, il sistema bancario, farebbero bene a chiedere, più che singole misure a favore di questo o di quello, le politiche economiche (giuste) che salvano il Paese tutto, le uniche che salveranno anche il sistema bancario italiano.

 

Le incoerenze di A&G si spiegano molto semplicemente con il terrore di ammettere che tutte le loro false teorie sono costruite per non permettere che la leva pubblica faccia il suo dovere in un momento di “emergenza” (parole loro, non mie) in cui solo essa può salvarci. Renzi, viene il sospetto, è pervaso dallo stesso terrore e forse non è interessato alla spending review per timore che si riveli l’arcano: che pubblico può essere bello, anzi bellissimo, se solo lo si vuole, assieme e non contro il privato. Comunque sia, Renzi farebbe bene, nell’interesse generale del Paese, a rottamare i due ideologi del Pd, rimandandoli a casa a fare ricerca ed insegnamento. Cose per le quali, paradossalmente, sono decisamente più versati.

 

I peccati del renzismo

 

(Antonio Polito, Corriere) Matteo Renzi ha molti meriti che gli resteranno, comunque finisca la sua avventura politica. Ha mandato a casa una generazione di capi della sinistra mai veramente uscita dalla cultura del Pci, ha ringiovanito drasticamente e reso più femminile il governo, ha ristabilito il primato del consenso democratico dopo una stagione di paralisi e di soluzioni tecniche. Che cosa è allora che genera ancora diffidenza in lui da parte di molti che pure hanno sempre auspicato una tale svolta? Questa domanda merita di essere approfondita, e non solo perché viene rivolta spesso da chi ha invece abbracciato con tale entusiasmo l’ennesimo nuovo corso, da sacrificargli lo spirito critico. Ma anche perché la risposta contiene forse qualche indizio sul possibile esito dell’ardito tentativo renziano di cambiare l’Italia, dopo averne cambiato il ceto politico.

 

Galli della Loggia sul Corriere ha individuato una serie di difetti del leader, incentrati su un punto cruciale: la necessità di <trovare i toni di drammatica verità e di serietà che sarebbero necessari a indicare davvero un nuovo cammino al Paese>. Vorrei aggiungere al suo elenco un altro peccato del renzismo, che forse è originale. Il nostro premier offre infatti agli italiani una spiegazione un po’ troppo consolatoria della crisi grave in cui versiamo. Dalla sua retorica, e anche dal suo programma di riforme, si trae un’idea fuorviante. L’ idea di Renzi sembra essere che l’Italia, altrimenti grande Paese in grado di <guidare l’Europa>, soffra esclusivamente per il fatto di essere stata rovinata da una élite incapace, vecchia e da cambiare. Che ci sia insomma un possibile capro espiatorio, sacrificato il quale si possa riprendere il cammino della dolce vita italiana, fatta di stile, bellezza e furbizia.

 

Naturalmente l’errore non sta nel fatto che la nostra élite è effettivamente vecchia e da cambiare; sta nel lasciar credere agli italiani che non ne fanno parte che le cose siano così facili, e che loro non vi abbiano nessuna colpa e dunque nessuna necessità di cambiare. Esattamente ciò che vogliono sentirsi dire. Dalla bocca di Renzi si sono sentite in questi mesi molte e dure invettive contro i politici da rottamare, contro i burocrati, contro i sindacati, contro i magistrati, contro i salotti buoni, contro il club delle tartine, contro Cernobbio e contro Bruxelles. Ma pochi ragionamenti su come intervenire nel profondo sul fenomeno dell’evasione fiscale, del sistema degli incentivi alle imprese, sui mercati chiusi dalle corporazioni professionali, sul sistema del socialismo municipale e delle migliaia di società partecipate, sui cacicchi locali che, anche nel suo partito, drenano risorse pubbliche solo per auto-riprodursi.

 

Ognuna di queste battaglie sarebbe difficile e dura, non meno di quella che il premier ha dovuto affrontare con i sindacati sull’articolo 18. Ma ognuno di questi problemi incide sulla capacità di ripresa dell’Italia molto più delle ferie dei magistrati e del sistema di elezione dei senatori. Ecco dove sono gli accenti di «drammatica verità» che dovrebbe trovare il leader: convincere gli italiani che votano per lui che devono cambiare anche loro. È un’operazione che può rivelarsi costosa in termini elettorali. Ma è l’unica che può alla lunga farci uscire dalla condizione in cui siamo, che non è passeggera ma strutturale, e per la quale non bastano iniezioni di ottimismo. Il male italiano non è incurabile, su questo ha perfettamente ragione il premier, e non è necessario essere allocchi per esserne convinti. Ma se fosse stato così facile guarirlo, oggi non ci sarebbe Renzi a Palazzo Chigi. E se non lo si cura come si dovrebbe per non perdere il consenso del malato, si rischia di esaurire il consenso ben prima che arrivi la guarigione.

 

 

Cos’è il quantitative easing

(Tino Oldani, Italia Oggi) Il Corriere della Sera ha scritto recentemente che la politica del quantitative easing, con cui la Federal Reserve ha rilanciato l’economia Usa, ha comportato la stampa di oltre 3500 miliardi di dollari. Affermazioni simili sono state fatte anche da alcuni economisti che frequentano i talk show qui da noi. Nulla di più sbagliato. Per quella politica, la Fed non ha stampato neppure un dollaro: dal 2008 ad oggi, e il Tesoro Usa non ci ha rimesso neppure un centesimo. A dirlo è Ben Bernanke, il presidente della Fed (2006-2014) che ha ideato e messo in pratica il quantitative easing, una esperienza a cui ha dedicato un libro appena uscito (La Federal Reserve e la crisi finanziaria). Una lettura istruttiva specie per saputelli come il capo della Bundesbank Jens Weidman che continua a opporsi ai tentativi di Mario Draghi di attuare nell’eurozona una politica espansiva come quella della Fed. I risultati americani parlano chiaro: all’inizio della crisi la Fed deteneva buoni del tesoro Usa per 900 miliardi di dollari. Per rilanciare l’economia, per sei anni ha acquistato ogni mese ingenti quantitativi di questi titoli, portando il totale in portafoglio a 4500 miliardi di dollari (la differenza, appunto, è nei 900 miliardi che già c’erano). Ora che la crisi sembra superata la Fed ha deciso di porre fine agli acquisti.

 

In che modo sono stati pagati i 3600 miliardi di titoli acquistati? Scrive Ben Bernanke: <La risposta è: con l’accredito delle somme corrispondenti sui conti bancari degli investitori che li hanno venduti. Questi conti bancari figurano come riserve che le banche detengono presso la Fed in appositi conti di deposito (detti conti di riserva). La Fed, infatti, funge da banca per i normali istituti bancari. Quindi, in sostanza, la Fed ha pagato l’acquisto dei titoli incrementando le riserve che le banche detenevano nei propri conti presso la Fed stessa>. Traduzione: la Fed, di suo, non ha speso neppure un dollaro. <Di quando in quando si sente dire che la Fed stampa moneta cartacea per pagare l’acquisto di titoli> scrive Bernanke. <Questa affermazione non va presa alla lettera: non è che ogni volta che acquista titoli, la Fed metta in moto le rotative. L’ammontare delle banconote in circolazione non è stato influenzato dal quantitative easing> Come si spiega? <I conti di riserva detenuti dalle banche presso la Fed rappresentano attività per il sistema bancario e passività per la Fed, e sono lo strumento con cui la Fed paga i titoli che acquista. Il sistema bancario ha un consistente volume di riserve, che però rappresentano una semplice partita contabile. Sono iscritte nel bilancio della Fed, e non costituiscono circolante. Fanno parte della base monetaria, ma non sono denaro contante>.

 

Dunque, zero dollari stampati. Ma gli acquisti della Fed, essendo depositati nei conti di riserva delle banche, come hanno potuto avere un effetto propulsivo sull’economia reale? Spiega Bernanke: <L’idea di fondo (suggerita dalle tesi monetariste di Milton Friedman) è semplice: con l’acquisto di buoni del Tesoro la Fed riduce la disponibilità di questi titoli sul mercato, costringendo gli investitori ad accontentarsi di un rendimento più basso. Per dirla in altro modo, se l’offerta di questi titoli diminuisce, gli investitori sono disposti a pagare un prezzo più alto per acquistarli, e il prezzo e il rendimento di un titolo sono inversamente correlati>. Più avanti. <Acquistando Treasury, iscrivendoli a bilancio e riducendone la disponibilità sul mercato, la Fed ha di fatto ridotto i tassi d’interesse. La mancata offerta di Treasury ha indotto molti investitori a privilegiare altri tipi di titoli, come le obbligazioni societarie, spingendone al rialzo il prezzo, e al ribasso il rendimento. Per l’effetto complessivo di tali dinamiche, si è registrata una diminuzione dei rendimenti di una vasta gamma di titoli. Come sempre, un calo dei tassi d’interesse produce un effetto di stimolo all’economia>. Insomma, sottolinea soddisfatto Bernanke <questa formula di stimolo all’economia non comporta l’emissione di carta moneta>

 

I segni del tempo

 

Ero seduta in sala d’attesa per il mio primo appuntamento con un nuovo dentista, quando ho notato che il suo diploma era affisso al muro. C’era scritto il suo cognome, e improvvisamente mi sono ricordata di un ragazzone che portava quello stesso cognome. Era nella mia classe di liceo 30 anni prima, e mi sono chiesta se poteva essere lo stesso bel ragazzo per il quale avevo “sbavato” all’epoca. Quando sono entrata nello studio, ho immediatamente allontanato questo pensiero: quell’uomo brizzolato, stempiato e con il viso segnato da profonde rughe era troppo vecchio per essere stato il mio amore segreto… Dopo avermi visitato, gli ho chiesto se aveva studiato al tale Liceo. <Sì> mi ha risposto. <Quando si è diplomato?> gli ho chiesto. <Nel 1974…>. <Allora tu eri nella mia classe!> E allora questo grandissimo stronzo mi ha chiesto: <Lei era professoressa di cosa?>.

 

lorenzo.borla@fastwebnet.it

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento!
Inserisci il tuo nome