IL FALLIMENTO DEL GRILLISMO – ZIBALDONE N. 372

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(Luigi Grassia, La Stampa) Dall’America ci arriva una notizia positiva sulla capacità delle aziende italiane di competere sui mercati esteri. Ma purtroppo ci arriva anche uno schiaffo morale. Ovvero un esempio, che l’Italia sem­bra proprio incapace di se­guire, su come vanno gestiti nel modo più trasparente e efficace gli appalti pubblici. La buona notizia riguarda una impresa con sede a Bo­ston, ma di proprietà italia­na, che si è aggiudicata la progettazione, la costruzione e la gestione, del più grande parco eolico ma­rino degli Stati Uniti. La gara americana per l’assegnazione si è svolta in questo modo: tut­to si è fatto via Internet il 19 agosto, e nella stessa giornata si è sapu­to il vincitore. Poi i documenti sono stati passati al Diparti­mento della Giustizia, che ha fatto i controlli e verificato la conformità. Il 14 ottobre l’ultima firma. Anche in America nei tribuna­li civili esiste una tutela giurisdizionale equivalente a quella dei nostri Tar, ma dopo il via libera del Dipartimento la pro­spettiva di vittoria di un even­tuale ricorrente contro l’ag­giudicazione sarebbe pari a zero, e neanche ci sareb­bero sospensive. Tutto deciso, tutto fatto, nel giro di due/tre mesi>.

 

La cultura della forma giuridica

 

Persa la voglia e la capacità di fare: la cultura della forma derivante dal ruolo preponderante della formazione giuridi­ca nella pubblica amministrazione ha preso il sopravvento sulla efficacia dei risultati.

 

(Giovanni Belardelli, Corriere) In soli otto anni di lavori, tra il 1956 e il 1964, venne realizzata l’Autostrada del Sole: un tragitto di oltre 700 chilo­metri, da Milano a Napoli, con soluzioni tecni­camente all’avanguardia per l’epoca. Cinquant’anni dopo lo stesso Paese sembra essere diven­tato incapace di portare a termine qualunque grande opera in tempi decenti e senza che tutto l’incartamento dei lavori finisca nelle aule dei tribunali: dapprima per i ricorsi al Tar, poi per i quasi altrettanto inevitabili casi di corruzione. Per rimanere nel campo dei trasporti, appare davvero impietoso confrontare con la realizza­zione dell’Autosole la vicenda della metro C di Roma: allungamento dei tempi, lievitazione delle varianti e dei costi, incertezze sul tragitto finale dell’opera (non si sa se riuscirà ad arriva­re a San Pietro o dovrà interrompersi a Piazza Venezia); infine, indagini della magistratura e della Corte dei conti. In questo e in tanti altri ca­si, i ritardi nei lavori, l’aumento dei costi, gli episodi di corruzione hanno necessariamente dei responsabili con un nome e un cognome, che spetta alla magistratura accertare.

 

Ma die­tro i singoli episodi, sembra difficile che non ri­torni un quesito: cosa ci è successo, di cosa si sono ammalati l’Italia e gli italiani per avere dismesso, o almeno così sem­bra, quella voglia e capacità di fare caratteristica del Paese uscito dalla guerra, protagonista pri­ma della ricostruzione e poi del cosiddetto miracolo economico? Proprio il confronto tra l’Italia di oggi e quella di mezzo secolo fa rende infatti improponibile ogni spiegazione che tiri in ballo un presunto carattere nazionale e sollecita piuttosto a cercare, come per qua­lunque altra malattia, le condizioni che ne abbiano facilitato la comparsa.

 

Tra esse, ai primi posti, va probabilmente collocato quel <dedalo infer­nale di norme> del quale si è parlato in relazione alla mancata messa in sicurezza del Bisagno: una giungla di regole che, pensata per rendere più stringenti i controlli, ha finito spesso col favorire quanti guadagnano dai ritardi, dalle varianti, dai ricorsi. L’Italia soffre insomma di una sorta di iper/giuridicizzazione, fondata sul <ruolo eccessiva­mente preponderante della formazione giuridi­ca nell’ambito della pubblica amministrazione> (così M. Bianco e G. Napolitano in un recente volume della Banca d’ltalia su L’Italia e l’econo­mia mondiale). Ma che attraverso l’azione pub­blica si è estesa a tutta la società. Il Paese soffre di quella prevalenza della cultura della forma sulla cultura dell’efficacia (e dunque dei risulta­ti) che tutti sperimentiamo quotidianamente attraverso i rapporti con le pubbliche istituzio­ni. La realizzazione dell’Autosole ci sollecita dunque a riflettere su come eravamo qualche decennio fa, su ciò che allora sapevamo fare. Sta a tutti noi evitare che questo si risolva in una mera operazione nostalgia, dunque nello sguardo compiaciuto e malinconico insieme verso un passato finito per sempre, ma possa servire a interrogarci sulla condizione di crisi del Paese e delle sue capacità di fare, e su ciò che possiamo mettere in campo per uscirne.

 

I conti dello Stato

 

(LB) I numeri dell’economia che si trovano sui giornali sono sempre da prendere con le molle; variano da un giornale all’altro e non di rado da un giorno all’altro. Tuttavia registro due numeri importanti che prendo da Enrico Marro (Corriere del 15.10.2014). Le spese dello Stato, previste dalla manovra 2015, sono di 835 miliardi di euro. Le entrate dello Stato, come sopra, sono di 786 miliardi di euro La differenza fra entrate e spese, ovvero il deficit, è di 49 mld che corrisponde infatti a circa il 3% del Pil. Il debito pubblico, in questo momento (www.italiaora.org) ammonta a 2188 mld. Il rapporto debito/Pil, dopo le rettifiche dovute all’inserimento della economia sommersa e illegale, è del 129%. Il Pil dunque, applicando questo rapporto, sarebbe di circa 1700 miliardi. Le spese effettive dello Stato, detratto il pagamento di interessi, di interessi di circa 90 miliardi, sarebbero di 745 mld di euro.

 

L’occupazione in Italia

 

(LB) A fine dicembre 2007 gli occupati in Italia, dipendenti e indipendenti, maschi e femmine, erano 23milioni222mila (Serie storiche Istat su occupazione, disoccupazione eccetera: anni 1977/2011). Ad agosto 2014 (Bollettino Istat 30 settembre 2014) gli occupati sono 22milioni380mila, sostanzialmente invariati su base annua. La differenza fra il 2014 e il 2007 è di 842mila occupati in meno. Ovvero, sono 842mila i posti di lavoro effettivamente persi (e non sostituiti) nell’arco sette anni. Il tasso di occupazione ad agosto 2014 è pari al 55,7%, sostanzialmente invariato su base annua. Da questo dato (tasso di occupazione) si ricava che la forza lavoro potenziale è calcolata in 40milioni 180mila persone. La differenza fra la potenziale forza lavoro e quella effettivamente impiegata è di 17milioni 800mila. Che cosa fanno questi circa 18 milioni di persone? Ci sono quelli che lavorano nell’economia sommersa e criminale (cioè lavorano in nero, non versano contributi e non pagano le imposte dirette sul reddito) una stima di questo fenomeno è molto difficile, ma si valuta che siano almeno tre milioni. Se questo fosse vero, gli occupati salirebbero a 25 milioni, e il tasso di attività al 62,2%: una situazione ancora lontana dai Paesi nordici, ma un po’ migliore. Poi ci sono i disoccupati. Il numero di disoccupati, ad agosto 2014 è pari a 3milioni 134mila, con una lieve tendenza a diminuire. Il tasso di disoccupazione è pari al 12,3%. Per quanto riguarda specificamente i disoccupati tra i 15/24enni, essi sono 710mila. L’incidenza dei disoccupati di 15/24 anni, sulla popolazione in questa fascia di età, è pari all’11,9% (ovviamente in questa fascia di età una percentuale elevata di giovani sono studenti). Se però calcoliamo la disoccupazione dei 15/24enni non sulla intera popolazione giovanile, ma soltanto sugli occupati, essa è pari al 44,2% (in crescita di 3,6 punti sui dodici mesi). Infine, per concludere, nei 18 milioni, ci sono quelli considerati nullafacenti, ma in effetti lavorano in casa, puliscono, lavano, stirano, e soprattutto crescono i figli (la figlie): se non è lavoro questo…

 

Come funziona la legislazione sul lavoro in Germania?

Intervista a Marie Seyboth, dirigente della Lega Sindacati tedeschi, (www.keynesblog.com)

 

Domanda. Si parla tanto di ‘modello tedesco’ per la legislazione sul lavoro. Come funziona il principio della Mitbestimmung, la cosiddetta ‘cogestione’, all’interno delle aziende tedesche?

Risposta. In Germania lavoratori partecipano alle decisioni delle società attraverso due organi, il Betriebsrat, il consiglio di fabbrica, e l’Aufsichtsrat, l’equivalente del vostro consiglio di sorveglianza.

  1. Nello specifico, come si differenziano i due organi?
  2. Il primo viene eletto dai lavoratori nei singoli luoghi di lavoro ed è formato interamente di dipendenti. Il secondo è un organo aziendale inserito nella struttura centrale.
  3. Quanto è forte la presenza dei sindacati nell’Aufsichtsrat?
  4. Il consiglio di sorveglianza è composto per metà da rappresentanti della proprietà e per metà da rappresentanti dei lavoratori.
  5. È uno strumento diffuso ed efficace?
  6. Lo si trova nelle società con più di 500 dipendenti, ossia nelle medie e grandi imprese tedesche. Ed è considerato il cane da guardia, il padrone che vigila sull’azienda.
  7. E il consiglio di fabbrica invece?
  8. La sua costituzione dipende in larga misura dal grado di sindacalizzazione dell’azienda. Inoltre, il suo funzionamento varia tra piccole e grandi aziende. Il regolamento di base, tuttavia, è sempre lo stesso.
  9. Come si svolge il gioco delle parti?
  10. La condizione indispensabile per le trattative è che il datore di lavoro creda nel principio della consensualità come fattore di crescita per la sua azienda.
  11. Per un italiano, suona strano. A grandi linee, quali sono le differenze tra il modello sindacale tedesco e quello italiano?
  12. Possiamo parlare di due culture sindacali diverse. In quella del Nord Europa, della Germania e dei Paesi scandinavi, prevale il principio della consensualità. Nel Sud Europa, ossia in Italia, Spagna, e Grecia, è invece più diffuso un modello basato sul conflitto.
  13. Gli italiani incrociano le braccia di più spesso dei tedeschi?
  14. Sì, in Italia esiste un diritto più ampio allo sciopero, ma i sindacati hanno meno strumenti per partecipare alle decisioni dell’azienda. In Germania le proteste devono svolgersi pacificamente e non possono avere natura politica. Da noi sono impensabili scioperi generali.
  15. I conflitti però esistono, anche in Germania. Il colosso del software Sap, per esempio, si è opposto alla presenza dei sindacati. Come, di recente, la P-Well in Bassa Sassonia. Che succede in questi casi?
  16. Per legge, ogni azienda con più di cinque dipendenti deve avere un consiglio di fabbrica. Quando nessun lavoratore si candida, non si può costringere qualcuno ad assumere un ruolo di rappresentanza. Ma se esiste anche un solo candidato, la dirigenza non può opporsi.
  17. Dunque, i sindacati hanno il pieno diritto di entrare nell’azienda per costituire un consiglio di fabbrica. Ma va davvero sempre così?
  18. Non sempre, in effetti questo è un problema. Come accennavo, il diritto di rappresentanza è condizionato dalla premessa che il sistema tedesco è basato sul consenso tra le due parti. Tale modello si fonda sul dialogo e sul proposito di raggiungere una piena convergenza.
  19. Cosa comporta, nella prassi, il modello del dialogo?
  20. Che se una delle due parti in causa, in questo caso il datore di lavoro, non accetta il dialogo perché non è convinto che sia utile all’azienda, la strada verso un pieno accordo si fa difficile.
  21. In Italia si discute della necessità di sdoganare i licenziamenti, come condizione essenziale per creare nuovi posti di lavoro. Come è percepito questo dibattito in Germania?
  22. Tempo fa, anche qui si è discusso sulla necessità di ridurre i dispositivi di tutela del posto di lavoro, dando per scontato che la difficoltà di licenziare fosse una delle cause dell’elevata disoccupazione.
  23. Come andò a finire?
  24. Uno studio della fondazione Hans Boeckler dimostrò che la deregulation non serviva a rendere dinamico il mercato del lavoro. Negli ultimi anni, il dibattito non si è più riproposto.
  25. Nelle aziende tedesche che hanno consigli di fabbrica, ogni licenziamento passa al vaglio di questo organo. Si legge sempre di allontanamenti per piccoli furti o negligenze varie.
  26. Indipendentemente dalla sua entità, nella normativa sul lavoro dipendente il furto è una ragione sufficiente per giustificare un licenziamento.
  27. Il sindacato tedesco non fa sconti, neppure in caso di distrazioni o leggerezze?
  28. Ci stiamo adoperando per prevedere alcune eccezioni, soprattutto quando i furti sono di piccola entità. Tuttavia questi casi devono essere analizzati individualmente.
  29. Legalmente, come si sviluppa il braccio di ferro tra l’azienda e il sindacato che contesta un licenziamento?
  30. Quando intende licenziare un dipendente, il datore di lavoro ha l’obbligo di informare il consiglio di fabbrica. Il quale, a sua volta, può pronunciarsi contro questa scelta. La decisione finale spetta tuttavia al datore di lavoro. A questo punto, il consiglio può avviare un’azione legale per ottenere il reintegro del dipendente.
  31. In Italia i sindacati si appellano invece all’articolo 18, che impone la riassunzione, in caso di licenziamento per ingiusta causa. Per limitare i reintegri c’è chi parla di modifiche sul modello tedesco.
  32. Con la normativa vigente, in Germania le vertenze per il reintegro dei lavoratori, dopo che il loro licenziamento è stato impugnato dai sindacati, cosa che succede di rado, sono spesso coronate dal successo.

 

 

  1. Ci sono “potentati oscuri” tra industriali e sindacati?
  2. In Germania, la maggioranza dei consigli di fabbrica svolge un lavoro egregio. Certo, ogni sistema ha le sue mele marce, come lo furono, nel 2005, i rappresentanti di Volkswagen, accusati di aver accettato favori. Indipendentemente dal grado di influenza reciproca tra sindacato e il gruppo dirigente, ciò non autorizza tuttavia a definire i consigli potentati oscuri.

 

Fenomenologia di Renzi

 

(Franco Cordero, Repubblica) Matteo Renzi vanta uno strepitoso 40.8% alle europee, ma da allora sono avvenute cose influenti sul fronte elettorale. Consideriamole. Veniva alla ribalta sotto il segno della novità: giovane, dinamico, ricco d’apparenti idee, contro l’inetta vecchia guardia; trova seguito nell’area del disgusto, con qualche riserva sulla figura (boy scout, agonista in tornei televisivi, rampante tra corridoi e piazza). Sconfitto alle primarie dagli oligarchi, li sbaraglia nella rivincita. Il partito era uscito male dalle urne: sconta una vocazione a perdere radicata nelle persone. L’emergente in controtendenza ha gioco comodo verso il governo. Se l’era combinato il presidente neoregnante (Napolitano, ndr) rieletto dopo misteriose tresche notturne, chiamandovi Enrico Letta, qualificato dal titolo familiare (è nipote del plenipotenziario d’Arcore), affinché attuasse le famose larghe intese, ossia un pastiche a tre colori, postcomunista, biancofiore, berlusconiano; L’Italia, intanto, ha l’acqua alla gola, grave malata sotto l’occhio clinico europeo. Dovendo definire l’irrompente nuovo leader, lo diremmo democristiano evoluto con tenui ascendenze savonaroliane/lapiresche: scaltro, insonne, veloce, famelico, alieno dai dubbi, sicuro d’essere predestinato a comandare, ideologicamente amorfo; sa tutto della politica brulicante, avendo scalato le nomenclature in Provincia e Comune. Rispetto al governo in penoso marasma, può giocare tre carte: sostenere i tentativi d’uscire dalla crisi; chiedere una svolta strategica; sostituirsi al premier evanescente, fermi restando gli equilibri. Scartiamo la prima ipotesi: non fa del bene gratis; lavora pro se ipso. La seconda mira alle urne, sul presupposto che, visti i pericoli, gl’italiani riscoprano l’organo pensante, ma implica dei rischi. Neapolitanus dixit: terrà vive le Camere; e quando le sciogliesse, sarebbe dubbia la vittoria d’un cartello della sinistra, gravata da cattivo destino. L’aspirante dev’essersi convinto che questa via non conduca a Palazzo Chigi. Meglio entrarvi comodamente, unico possibile demiurgo. L’insuccesso del Nipote gli apre ampi spazi: prima o poi il vento della crisi cade; non consta che sia economista ferrato ma, sentendosi irresistibile, prende sotto gamba le difficoltà. In appeal e disinvoltura tattica nessun concorrente lo supera; gl’italiani amano i numeri da palcoscenico; Re Neapolis patisce gli anni; i notabili Pd hanno mutrie poco sopportabili. L’occasione cade dal cielo. Con questo presumibile interno psichico affoga Letta junior, orfano del sostegno quirinalesco. Bastava una lieve spinta. L’esordio è gaffe sonante, quando dichiara profonda sintonia col supremo affarista, formalmente oppositore, i cui disegni viscerali tutti sanno dove mirino. Il nostro era sincero. Da allora non è emerso un solo dissenso su questioni capitali. Ante omnia, la giustizia. Era arguibile dai nomi cos’avessero pattuito i due nel colloquio segreto al Nazareno, presente Letta maior: il nuovo ministro, scelto dal Colle, impersona un Pd morbido, leader dei soidisants giovani turchi governativi; i due sottosegretari vengono da Arcore (uno s’era distinto a corte affatturando l’espediente del legittimo impedimento nelle cause berlusconiane); e sabato 4 ottobre il guardasigilli ammette che diverse essendo le «sensibilità» nell’équipe, il falso in bilancio non sia incriminabile. Lo sapevamo ma ormai è ufficiale che un corruttore plutocrate abbia autorità dirimente quale patrono del malaffare white collar. Al trionfo elettorale europeo cooperavano i dissidenti dalla linea berluscunide e sono voti persi dall’infedele. Quanto attiri i «moderati», lo dicono furie nelle gerarchie forzaitaliote: può mangiarseli tutti; è l’uomo che elettori devoti aspettavano, erede naturale del vecchio monarca, indenne da ripulsioni moralistiche, amicusfamilias del conterraneo Denis Verdini. Nei due partiti, rosa e blu, fermentano dissensi interni e viene fuori l’embrione d’un partito unico. Benestanti in colletto bianco formano un bacino dove pescare. Così esperto della politica brulicante, sente l’erba che cresce. Insomma, ha futuro a destra. Non può riconvertirsi: gli pesa addosso l’accusa d’infedeltà e rischierebbe la fine del predecessore se sfidasse il vecchio diarca, ad esempio su intercettazioni o delitti estinti dal tempo, consegnandosi agli oppositori interni (altrettanto inclini ai patti sotto banco: vedi Bicamerale, D’Alema, Violante ecc.); non sbaglia nella percezione del vento. Ormai esiste in quanto uomo nuovo. I segni lo confermano sulla linea d’una “profonda sintonia”. Gli rendono ossequio i soliti panegiristi, particolarmente tra i finti indipendenti attivi nel culto berlusconiano: con tante lodi all’innovatore, diranno che ridisegna la carta politica, essendosi allestito gli strumenti mediante riforme costituzionali; non sono più tempi d’ideologia ossessiva. Veniamo al verso negativo. Dopo otto mesi dall’insediamento siamo ancora al buio e gl’indici puntano in giù: la spinta propulsiva s’è scaricata in pantomime (quella farsa dei gelati contro l’Economist) o formule come task force anticorruzione: se vuole sradicarla, fornisca l’arma penale; ma divus Berluscus lo vieta); i fatti sono materia dura, ribelle alle parole. Nella fattispecie logorano l’attore. Votassimo domani, quel 40.8% sarebbe un sogno, a meno che rosa e azzurri convolino sotto la stessa insegna. Il partito più numeroso ha buone probabilità d’essere quello dei non votanti. Ora, sotto l’effetto logorante in Rentium, chi ripiglia quota? Vecchio e segnato dai colpi, l’Olonese (Berlusconi, ndr) ritrova gli spiriti animali: oppositori interni non gli fanno caldo né freddo in aritmetica elettorale; e cooperando all’agenda del governo, recupera i carismi nell’opinione cosiddetta moderata. Lo vedono ascendente, condomino palese. Inutile dire chi vi perda: l’Italia svenata dal malaffare cronico; continuando le cose in tale verso, sotto queste lune non basta mezzo secolo a colmare i ritardi dall’Europa in sviluppo economico e intellettuale.

 

Democrazia e populismo

 

(Claudio Magris, Corriere) Quando si trattò di scegliere la forma dello Stato fra monarchia e repubblica, il Partito d’Azione (il partito più maturo, più colto, più equilibrato) si batté perché una scelta così importante fosse affidata a un’Assemblea Costituente e non a un referendum. Bruno Visentini in quella occasione scrisse: <Il plebiscito, il referendum, le varie forme di democrazia diretta, sono democratiche ed educatrici nei Paesi di coscienza politica molto evoluta. In questi, ciascun cittadino vota sapendo su che cosa veramente vota, conoscendo il problema sul quale è chiamato a decidere e le conseguenze dell’una soluzione piuttosto che dell’altra>. E concludeva constatando la scarsa preparazione politica generale e l’immaturità del nostro Paese, che rendeva a suo avviso necessario il “filtro” di una classe politica, ovviamente sottoposta a continuo controllo.

 

Oggi, non solo in Italia, ma soprattutto in Italia, la democrazia parlamentare in senso forte si trova in una crisi assai grave. Gli ultimi decenni hanno visto crescere la tendenza alla democrazia diretta, all’abbraccio fra il leader e la folla, all’insofferenza per il filtro della classe politica avvertito come ostacolo e intralcio. È questo il problema, centrale per il destino del nostro Paese, messo a fuoco da Ferruccio de Bertoli nella sua critica a Renzi, basata sul dilagare della democrazia diretta rispetto alla democrazia parlamentare, ed è sull’eclissi della democrazia parlamentare che quell’articolo stimola la discussione. <Non lo lasciano lavorare> dicevano le folle sedotte da Berlusconi, il quale avrebbe dovuto chiamare “democratica” piuttosto che “liberale” la sua formazione politica: perché è nella democrazia che si trova insita la degenerazione del popolo e delle classi sociali a folla indistinta, adunanza oceanica.

 

Mentre il liberalismo è invece un calibrato meccanismo di pesi, contrappesi e controlli per tutelare l’esercizio concreto non della, ma delle libertà, e definirne i limiti. Il rapporto diretto o mediato fra il leader e le masse si riflette pure nel tono e nello stile delle due leadership. Il leader liberale tende a un’autorevolezza anche brusca e distante, coltiva la comprensione ma non dà confidenza; non è un superuomo ma qualcuno più preparato e risoluto degli altri. Può avere l’affabile e civile gentilezza di De Gasperi o la grinta di Croce, piuttosto che l’eccitata sentimentalità del capopopolo che si presenta come “uno di voi”, con tutte le debolezze dei festanti che lo applaudono, bramoso di essere amato anziché rispettato con giusto e riguardoso timore, salvo agire da despota.

 

Di volta in volta, sono le circostanze storiche a conferire maggior valore a una democrazia parlamentare, ovvero liberale, oppure a una più diretta. Un conto è Cesare, che aveva dalla sua molti lazzaroni moralmente e civilmente inferiori alla classe aristocratica dei Catone e dei Bruto, ma che capiva assai meglio degli altri il futuro. Un’atra cosa è Peròn <dal disastro facile, ma spensierato> come lo definì Montanelli. Forse l’unico che ha saputo conciliare il rapporto carismatico e diretto con le folle e il rispetto, anzi il salvataggio delle libertà e della democrazia parlamentare, è stato De Gaulle, probabilmente il più grande uomo politico che abbia avuto l’Occidente nella seconda metà del Novecento.

 

Non è un caso che il Paese europeo più solido e forte, la Germania, abbia una salda democrazia parlamentare immune da tentazioni populiste come da rigurgiti estremisti. Da Adenauer a Schmidt ad Angela Merkel, lo stile di governo è stato una salda autorevolezza scevra di pathos populista e di quella regressiva smania di essere amati che è il germe dei totalitarismi. In Italia la situazione è drammatica, anche perché la crisi della democrazia parlamentare e dovuta all’indecente degenerazione morale di quella classe politica cui si richiamava Visentini, mentre la petulante inflazione delle iniziative referendarie ha progressivamente indebolito e quasi ne neutralizzato quest’ultime. La politica tornerà a nella cura della Polis ovvero della cosa pubblica, soltanto se nascerà una nuova classe politica degna di questo nome e non di quello purtroppo oggi meritato di casta; termine anzi troppo lusinghiero, perché si tratta di una casta che non ha nessuna delle qualità delle classi realmente dirigenti.

 

Tu, rabdomante della rabbia

 

(Massimo Gramellini, La Stampa) Tu, il rabdomante della rabbia, per anni hai intercettato l’umore dei disperati. Poi succede che Genova, la tua città, venga sommersa dall’alluvione. La notizia ti sorprende a una kermesse romana del tuo movimento. L’istinto fin qui infallibile dovrebbe indurti a fare la cosa giusta: tornare subito a casa per metterti a spalare in silenzio, intestandoti una campagna finalmente positiva. Invece resti al caldo di Roma a grilleggiare contro tutti, senza accorgerti che sei sempre meno efficace. Non esalti né spaventi più. Semplicemente annoi. Al quinto giorno ti degni di farti vedere a Genova. Arrivi in centro con una scorta arrogante, da mandarino della nuova Casta, e ti becchi la contestazione di ragazzi che probabilmente ti hanno pure votato. Il distacco tra te e loro è emblematico: quelli fanno e tu parli, quelli ricostruiscono e tu continui a distruggere. Perché persino lì, in mezzo al dolore, non trovi di meglio che indicare bersagli contro cui sfogare il rancore. Agli Angeli del Fango che ti danno del pagliaccio come a un Mastella qualunque, additi il solito capro espiatorio, la stampa, accusandola di avere taciuto le vere cause della tragedia. Ma quando fai l’elenco di quelle cause si scopre che sono le stesse che ingombrano le prime pagine dei giornali. Sei fuori forma, incoerente, confuso. Dopo averli umiliati, ti offri ai cronisti per un’intervista in cambio di duemila euro da versare a un tuo fondo per gli alluvionati. Tu, di grazia, quanti ne hai messi? Dici ai ragazzi che non hai problemi a spalare il fango con loro, però poi non lo fai e ti dilegui con la tua scorta. Hai perso il tocco, Beppe Grillo. Che peccato, sei già ieri.

 

Il fallimento del grillismo

 

(Giovanni Orsina, La Stampa) A un anno e mezzo dalle elezioni, il Movimento Cinque Stelle appare un’esperienza fallimentare. In diciotto intesi i grillini hanno fatto ben poca politica, di rado partecipando in maniera costruttiva alle discussioni e decisioni su questioni cruciali per il futuro del Paese. Pure iniziative recenti come quella di aprire alla minoranza del Partito democratico in chiave antirenziana, sembrano appartenere al novero delle mosse estemporanee più che scaturire da un ragionamelo politico strutturato. Non è certo la prima volta nella storia delle democrazie che una forza politica radicalmente alternativa a un sistema in difficoltà segue una linea di astinenza (dalla politica) quasi completa. A suo modo, è una scelta razionale: partecipando al gioco si finirebbe per rafforzare quel regime che si considera irriformabile e del quale si profetizza il collasso imminente.

 

Assai meglio allora starsene alla larga, evitando di compromettersi e aspettando fiduciosi il crollo. In alcuni casi, del resto, l’astinenza politica ha pagato, talvolta anche dopo molti anni, e magari a valle di un insuccesso che pareva tombale. L’esempio lo andiamo a prenderlo in Francia. Si parla del gollismo, senza che con questo lo si voglia in alcun modo paragonare al M5S. Il primo partito legato a De Gaulle, il Rassemblement du Peuple Francais, guadagnò l’ingresso in Parlamento nel 1951, e con numeri importanti. Entrò tuttavia ben presto in crisi anche a motivo della linea non-collaborazionista del suo leader. Qualche anno dopo l’esperienza era definitivamente fallita, il Rassemblement messo in sonno, mentre il Generale si era ritirato dalla vita pubblica. Sarebbe tornato prepotentemente sulla scena soltanto nel 1958 grazie alla crisi algerina – e da allora avrebbe egemonizzato la politica francese per più d’un decennio, fondando la Quinta Repubblica.

 

I precedenti della “astinenza” dunque ci sono. Ma perché allora quella del M5S dev’essere invece considerata un’esperienza fallimentare? Per una ragione piuttosto semplice: perché nel grilliamo la rinuncia alla tattica politica del giorno per giorno si somma all’assenza di una strategia di lungo periodo che non sia, appunto, la mera attesa del crollo. Una volta denunciato il regime, e dopo aver deciso di non partecipare alla sua vita, il Movimento non è poi in grado di proporre al Paese una via d’uscita realistica e plausibile dalla sua infelice condizione attuale. È questo dunque che segna la distanza fra il gollismo e i raggruppamenti politici che, nella storia delle democrazie, hanno praticato con successo l’astinenza tattica: quelli una strategia, magari grezza, spesso antidemocratica, l’avevano. E, di fronte alla crisi del sistema, offrivano un’alternativa che in quel momento poteva apparite allettante.

 

Inerte tatticamente, vuoto di strategia, per conservare consenso il M5S continua ad affidarsi alla frustrazione diffusa per il pessimo funzionamento della politica. Come hanno chiarito le elezioni europee, però, e come continuano a mostrare i sondaggi, lungo questa strada i grillini hanno raccolto ormai tutto quello che potevano raccogliere. E hanno anche dato tutto quello che potevano dare, sollecitando con forza il rinnovamento dell’elite pubblica e la riduzione dei costi della politica. Non è un caso allora che il meccanismo del “voto contro” che in principio li ha premiati sembra ora giocare in loro sfavore: prima si tendeva a votare Grillo in spregio ai partiti tradizionali; adesso ci si rassegna a votare i partiti tradizionali in spregio a Grillo. E così, da elemento di dissoluzione del sistema, il M5S si sta trasformando in un suo baluardo.

 

Citazione

 

Oggi voglio proprio scrivere qualcosa a favore di Renzi: qualcosa (Jena)

 

lorenzo.borla@fastwebnet.it

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