LA RANA BOLLITA – ZIBALDONE NUMERO 374

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La rana bollita – Appello di Noam Chomsky

Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce … bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50° avrebbe fatto uno scatto e sarebbe balzata subito fuori dal pentolone. Questa esperienza mostra che – quando un cambiamento si effettua in maniera sufficientemente lenta – sfugge alla coscienza e non suscita – per la maggior parte del tempo – nessuna reazione, nessuna opposizione, nessuna rivolta. Se guardiamo ciò che succede nella nostra società da alcuni decenni, ci accorgiamo che stiamo subendo una lenta deriva alla quale ci abituiamo. Un sacco di cose, che ci avrebbero fatto orrore 20, 30 o 40 anni fa, a poco a poco sono diventate banali, edulcorate e – oggi – ci disturbano solo leggermente o lasciano decisamente indifferente la gran parte delle persone. In nome del progresso e della scienza, i peggiori attentati alle libertà individuali, alla dignità della persona, all’integrità della natura, alla bellezza ed alla felicità di vivere, si effettuano lentamente e inesorabilmente con la complicità costante delle vittime, ignoranti o sprovvedute. I foschi presagi annunciati per il futuro, anziché suscitare delle reazioni e delle misure preventive, non fanno altro che preparare psicologicamente il popolo ad accettare le condizioni di vita decadenti, perfino drammatiche. Il permanente ingozzamento di informazioni da parte dei media satura i cervelli che non riescono più a discernere, a pensare con la loro testa. Allora se non siete come la rana, già mezzo bolliti, date il colpo di zampa salutare, prima che sia troppo tardi!

 

Sviluppo sostenibile

 

Il professor Jeffrey D. Sachs, noto ambientalista, è direttore dell’Earth Institute della Columbia University.  

 

(Intervista di Alain Elkann, La Stampa) Professor Sachs, la questione del riscaldamento globale ha molti nemici? <Abbiamo un sistema energetico mondiale basato sui combustibili fossili, ma ora sappiamo con certezza che distruggeranno il pianeta se continuiamo a usarli. Tuttavia le compagnie di combustili fossili si stanno opponendo al cambiamento, soprattutto in Usa, Canada e Australia. Exxon/Mobil, Chevron, e altri giganti del settore si sono comprati i politici statunitensi. O ci muoviamo verso un’economia a basse emissioni di carbonio, o il pianeta andrà in rovina>.

 

Lei sostiene che senza una educazione scolastica superiore c’è solo una vita dì povertà. <A meno che non ci svegliamo, e il mondo aumenti l’accesso all’istruzione e alla formazione al lavoro su larga scala. Con la tecnologia informatica possiamo fornire una istruzione di qualità, anche nei villaggi più remoti e poveri del mondo. Il mio corso universitario online, per esempio, è gratuito>. Confida nella possibilità di cambiamenti radicali a favore delle popolazioni più povere del mondo? <La nostra generazione può porre fine all’estrema povertà, se ci proviamo. Le persone più ricche del mondo (85 di numero, su 7,3 miliardi di esseri viventi, ovvero una percentuale insignificante della popolazione mondiale) hanno un patrimonio netto di 2000 miliardi di dollari. Supponiamo che quella ricchezza sia usata per combattere la povertà. Al 5% dì interesse il flusso di reddito derivante da quel patrimonio è pari a 100 miliardi di dollari l’anno. Per questa somma ogni bambino potrebbe andare a scuola; ogni comunità avere l’assistenza sanitaria; ogni famiglia accesso all’elettricità. Siamo un mondo ricco, ma lasciamo che un miliardo di persone patiscano la fame>.

 

Com’è lo stato reale dell’economia oggi? <Il problema di fondo è che cerchiamo di stimolare la crescita indotta dai consumi anziché quella trainata dagli investimenti. Gli Usa vogliono che le famiglie s’indebitino per acquistare beni che non si possono permettere, piuttosto che spendere per energia pulita, trasporti sicuri, tutela dei corsi d’acqua, ricerca e sviluppo, educazione e salute di tutti i bambini. Stiamo perdendo la nostra ricchezza creando bolle finanziarie: mettiamo in pericolo il futuro per mancanza di investimenti a lungo termine. In Europa c’è anche un crollo dei finanziamenti pubblici. Persino le esigenze di base, come nuove linee elettriche per sfruttare le energie rinnovabili, vengono tagliate per pareggiare i bilanci. E’ un falso risparmio>. Quale è oggi la sua visione del mondo? <Possiamo imboccare la via dello sviluppo sostenibile – la fine della povertà e la tutela dell’ambiente – o seguire un percorso di crescente disuguaglianza, portatore di povertà profonda e disastro ambientale. Questa è una scelta, non un destino. Il 2015 sarà un anno critico. Optiamo per lo sviluppo sostenibile>.

 

Il Capitale nel XXI secolo

 

(Pier Luigi Vercesi, Sette del Corriere) Parliamo del Capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty. Un milione di copie vendute negli Stati Uniti, 300.000 in Francia e quasi 40.000 in Italia in soli due mesi. Numeri da capogiro, incomprensibili se analizzati con i parametri editoriali standard, perché non si tratta di un romanzo, o di un saggio di divulgazione, bensì di un testo universitario di materia ostica rubricata sotto il nome di Economia politica. Allora le motivazioni di tanto successo devono essere altre. Immagino che molti acquirenti siano passati in libreria convinti dal passaparola, dalle recensioni e dalle sintesi apparse sui giornali, consapevoli che non avrebbero trovato il tempo o la voglia di leggerlo; però sentivano la necessità di possederlo come testimonianza di un modo di sentire. Qual è dunque il messaggio così ben accolto di Piketty? Che nel mondo la distribuzione delle ricchezze è intollerabile; che senza un intervento riequilibratore della politica il divario può solo peggiorare; che l’errore sta nell’attribuire un immenso valore (e potere) al capitale finanziario e poco o nulla a quello umano; che di questo passo la democrazia, con il suo carico teorico di valori meritocratici e di solidarietà, diventa un paravento per qualcuno e un’illusione per altri. E le conseguenze saranno drammatiche. Che c’è di nuovo? Rispetto alle conclusioni nulla, potremmo elencare decine di libri passati inosservati che sostengono le stesse tesi. Però Piketty non si limita a conclusioni ideologiche: le sostiene con una massa di dati su cui poggia scientificamente ciò che afferma. Per questo molti economisti “di sinistra” lo hanno applaudito. Ma non può essere nemmeno questa la spiegazione del successo mondiale. È invece, l’aver detto la cosa giusta nel momento giusto e averla sostenuta da intellettuale, non da populista. Ecco l’altro argomento su cui converrà tornare: siamo tutti pronti a criticare la politica che cavalca gli umori popolari, ma dov’è l’elite di pensiero che dovrebbe ispirare i governanti? Chi ne conosce qualcuno capace di parlare al grande pubblico alzi la mano.

 

Contro il liberal/liberismo

 

Recensione del libro di Colin Crouch, “Quanto capitalismo può sopportare la società”, con alcune considerazioni sulla ideologia liberale/liberista.

 

(Carlo Formenti, Micromega) Dopo trent’anni di offensiva ininterrotta e trionfale, l’ideologia liberale/liberista, screditata dalle clamorose smentite che i suoi dogmi stanno subendo ad opera della crisi, sembra perdere qualche colpo. Il che non basta tuttavia a dettare un cambio di politica economica a una Unione europea che corre imperterrita verso la catastrofe.  Per invertire la rotta occorrerebbero alternative politiche che, né le sinistre radicali ridotte al lumicino, né i sindacati, arroccati su posizioni difensive, appaiono oggi in grado di imporre. Possiamo almeno sperare che le socialdemocrazie europee, scuotendosi dal letargo in cui le hanno precipitate i teorici della “terza via” blairiana, tornino a svolgere un ruolo di “limitazione del danno”?  Qualche segnale in tal senso – sul piano culturale se non ancora su quello politico – si intravvede: penso al dibattito internazionale innescato dalla pubblicazione del libro di Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, che ha restituito legittimità alle tesi neokeynesiane.

 

Tradurre questi fermenti intellettuali in proposte politiche è però tutt’altro discorso, per cui ho affrontato con curiosità e non senza una certa aspettativa la lettura del nuovo libro di Colin Crouch Quanto capitalismo può sopportare la società appena uscito da Laterza. In lavori come Postdemocrazia e Il potere dei giganti, Crouch aveva già tracciato un quadro lucido e spietato dei meccanismi attraverso i quali il capitalismo contemporaneo sta annientando la democrazia. Per cui mi aspettavo di trovare nel nuovo saggio una risposta radicale all’interrogativo sollevato dal titolo: quali sono i limiti della quantità di capitalismo socialmente sopportabile? Invece, pur citando a più riprese Polanyi, la sua risposta appare decisamente più moderata di quella data a suo tempo dal sociologo ungherese. Ma procediamo con ordine.

 

Prima di valutare criticamente la ricetta che Crouch propone alle socialdemocrazie per riconquistare il centro della scena politica, è opportuno esaminare la sua analisi delle contraddizioni del neoliberismo. Crouch distingue tre tipi di neoliberismo: 1) il neoliberismo puro, fondato sulla convinzione che la società funzioni bene solo se, e quando, tutte le sfere della vita umana sono governate da mercati perfetti; 2) il neoliberismo critico, che pur riponendo piena fiducia nei meriti del mercato in economia, ne riconosce l’incapacità di far fronte alle esternalità (per esempio al degrado ambientale) e di gestire i beni pubblici (per esempio alcuni servizi sociali di base); 3) il neoliberismo “reale” che è quello che oggi è prevalente. Esso ha tramutato la ricchezza in potere politico, non limitandosi a sovvertire il funzionamento delle democrazie rappresentative (trasformate in plutocrazie), ma arrivando a ignorare le stesse “leggi” del libero mercato.

 

Quest’ultimo aspetto è emerso, scrive Crouch, allorché la crisi ha evidenziato la dipendenza delle élite economiche dallo Stato, il quale, per salvare il capitalismo dalle sue stesse contraddizioni, ha imposto ai poveri di soccorrere i super ricchi. Una perversione non meno evidente nei casi di privatizzazione dei servizi pubblici: la loro l’esternalizzazione fa sì che lo Stato divenga il cliente di imprese che producono servizi in regime di monopolio, mentre i cittadini si trovano ridotti alla condizione di utenti privi di ogni potere. Perché le socialdemocrazie (al pari dei sindacati, loro principali alleati) non sono state in grado di opporsi? La risposta di Crouch è articolata e complessa, ma in essenza mi pare che le ragioni fondamentali da lui indicate siano due.

 

In primo luogo, la responsabilità è della transizione al postfordismo, con la conseguente, drastica riduzione del peso numerico e politico della classe operaia. Ciò ha indotto le socialdemocrazie a cercare una nuova base elettorale, rivolgendosi a una massa interclassista. In questo modo la cultura di questi partiti si è inevitabilmente avvicinata a quella delle controparti liberali, privilegiando le esigenze individuali dei singoli rispetto a quelle collettive dei raggruppamenti sociali. È nata così la Terza via dei Blair, dei Clinton e degli Schroder, di fatto appiattita sui dogmi liberisti. Quanto al sindacato, il suo indebolimento deriva dall’aver scelto una linea difensiva a esclusiva tutela delle residue minoranze di lavoratori industriali “garantiti”, ignorando le masse di lavoratori terziari sottoposti ai nuovi regimi di lavoro precario e flessibilizzato (in particolare donne, giovani e immigrati). Da questa impasse, sostiene Crouch, la socialdemocrazia, può uscire solo attraverso un drastico cambiamento di visione, passando cioè da una logica difensiva a una logica assertiva.

 

Tuttavia è proprio in questa pars costruens (come succede di regola) che il discorso di Crouch si rivela, a parere di chi scrive, deludente. Per quanto ammetta che la globalizzazione non è un evento naturale, ma il frutto di precise scelte politiche, Crouch sembra accettarla come un processo non solo ineluttabile e irreversibile, ma anche ricco di potenzialità positive. Al punto che, in più occasioni, scrive che fra il neoliberismo di secondo tipo (quello critico) e la socialdemocrazia non esiste conflitto antagonistico e nemmeno differenze che non possano essere ricomposte in un compromesso sociale e politico.  Dove sta, dunque, il cambio di visione? Si riduce forse alla ricerca di un parziale riequilibrio dei rapporti di forza fra libero mercato e regolazione statale? Crouch cita ad esempio le socialdemocrazie scandinave per la loro capacità di gestire la rivoluzione postfordista attraverso regimi di flessibilità/sicurezza. Insomma suggerisca di allentare le tradizionali tutele giuridiche al lavoro dipendente in cambio di un reddito minimo garantito per tutti. In conclusione la montagna ha partorito un topolino. Mi pare inoltre che Crouch – pur consapevole del fatto che i rapporti di forza remano in direzione opposta, con super ricchi, governi nazionali, istituzioni transnazionali e media uniti nell’alimentare l’inerzia neoliberista e nel garantirne la schiacciante egemonia ideologica – non si renda conto del carattere utopistico del suo progetto politico.

 

Ci sono vari liberismi

 

(LB) Tutti i Paesi liberi praticano la libertà economica: dunque non si possono non dire liberisti. Tuttavia c’è liberismo e liberismo: quando un Paese come l’Italia preleva il 52% della ricchezza prodotta ogni anno, per ridistribuirla; oppure il 56% come la Francia; oppure il 60% come la Svezia, questi Paesi non si possono certo dire socialisti, ma neanche liberisti assoluti, dal momento che il liberismo vuole essenzialmente uno Stato minimo e un mercato massimo, mentre il socialismo vorrebbe lo Stato massimo e un mercato minimo. Quindi, per cominciare, i liberismi non sono tutti uguali. Il secondo discrimine, tanto essenziale quanto trascurato dalle dottrine socialiste, è l’efficienza della ridistribuzione. Gli svedesi sopportano un prelievo straordinario perché riconoscono che ciò che gli viene prelevato dallo Stato, gli viene restituito in buoni servizi, efficienti, trasparenti, comprensibili e verificabili (tutto come da noi). I francesi, a fronte di un pesante esborso, stanno oggi ribellandosi a una ridistribuzione che implica dispersione e sprechi. Per ciò che riguarda l’Italia, infine, sappiamo che manca l’efficienza della ridistribuzione. Rispetto ai Paesi del Nord Europa c’è un altro discrimine da evidenziare. I dipendenti pubblici vengono chiamati, qui da noi, servitori dello Stato, e cioè di una entità ideale ed astratta, tale per cui si rende necessaria una interpretazione autentica dei suoi voleri. E chi, se non i “servitori” di tale entità, come i sacerdoti degli antichi dei, sono qualificati a questo compito? La storia ovviamente desinit in piscem, perché alla fine realisticamente i nostri servitori dello Stato fanno quello che gli aggrada; come e quando gli aggrada. Da cui l’anomalia: più che servire lo Stato, servono se stessi. Ben diverso è il concetto del “servire” nei paesi del Nord (ad esempio nel Regno Unito e nelle sue ex colonie) dove i dipendenti pubblici, vengono chiamati public servants e sono servitori di una entità ben più concreta, e cioè il corpo dello Stato, consistente nei cittadini di carne e di sangue.

 

L’uomo più ricco di tutti i tempi

 

(Giovanni Vigo, Sette del Corriere) Branko Mìlanovic, uno dei massimi esperti della disuguaglianza mondiale, si è posto una curiosa domanda: <Chi è stato (é) l’uomo più ricco di tutti i tempi?>. Un quesito al quale vorremmo rispondere con precisione ma, sfortunatamente, la cosa non è possibile. Non abbiamo i tassi di cambio per trasformare ad esempio i dollari in sesterzi romani, o le lire sterline nei soldi di Carlo Magno. Ed è altrettanto problematico confrontare i consumi di oggi con quelli di due millenni fa: eccettuati pochi casi, consumiamo beni così diversi e con prezzi tanto mutati da rendere impossibile un’operazione in apparenza così semplice. Per superare tutti questi ostacoli Milanovic ha escogitato un metodo che offre risultati convincenti. Se non è possibile confrontare i redditi di un possidente romano con un petroliere del Novecento, perché non paragonare i guadagni dei più ricchi con quelli dell’uomo medio di ciascuna epoca? Secondo Aldo Schiavone, intorno al ‘50 a.C. Marco Crasso, uno degli individui più ricchi dell’antica Roma, aveva un reddito stimato in 12 milioni di sesterzi; un cittadino romano del suo tempo ne guadagnava pressapoco 380. A conti fatti il reddito di Crasso era uguale a quello di 32 mila persone. Facciamo un salto di quasi di 2000 anni e scopriamo che Andrew Canergie, uno degli americani più ricchi di tutti i tempi, aveva nel 1901 un reddito equivalente a quello di 48 mila cittadini statunitensi. Ancora più agiato era John D. Rockefeller che nel 1937, quando il suo patrimonio aveva raggiunto l’apice, guadagnava quanto 116 mila americani. Oggi il suo primato è stato polverizzato dal magnate messicano Carlos Slim, che con il reddito di un solo anno potrebbe assumere 440 mila dei suoi concittadini. Naturalmente, calcoli di questo genere non possono che essere approssimativi e qualcuno potrebbe pensare che si tratta di fantasie costruite in un’epoca, la nostra, nella quale i numeri hanno il primato assoluto. Raymond W. Goldsmith, uno studioso che ha dedicato molte energie all’economia antica, ha calcolato che il reddito della famiglia di Ottaviano Augusto, il primo imperatore, equivaleva allo 0,08 per cento del prodotto annuo di tutto l’impero, che contava allora 50 milioni di abitanti. Nella stessa epoca un senatore, esponente di una élite che non contava più di 600 individui, metteva insieme ogni anno circa 180 mila sesterzi, 500 volte il reddito di un cittadino medio. A essere concentrati in poche mani non erano solo i redditi, erano anche i patrimoni. Tacito ricorda che la donazione postuma di Augusto al popolo romano superò i 43 milioni di sesterzi, qualcosa come lo 0,2 per cento del Pil (e Branko Milanovic ci propone un confronto suggestivo: per fare qualcosa di comparabile, George W. Bush, al momento di lasciare la Casa bianca, avrebbe dovuto distribuire agli americani circa 30 miliardi di dollari).

 

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L’ignoranza degli italiani

 

(Francesco Costa e Luca Sofri, Il Post) La società britannica di ricerche Ipsos-Mori ha chiesto a un campione rappresentativo di italiani – e di altre quattordici nazioni dell’Ocse – un po’ di informazioni sul loro paese: quanti sono, secondo loro, gli immigrati; quanti sono i disoccupati; quante sono le persone con più di 65 anni; quante sono le ragazze madri; quanti sono i musulmani, quanti sono i cristiani. Eccetera. L’Italia è risultato il paese più ignorante di tutti. Crediamo che ogni anno ci sia in Italia un 17% di ragazze madri: in realtà sono lo 0,5%. Crediamo che in Italia ci sia un 20% di musulmani: sono il 4%. Crediamo che in Italia ci sia un 49% di disoccupati: sono il 12%. Crediamo che in Italia ci sia un  30% di immigrati: sono il 7%. Nessuno ha cognizioni lontane dalla realtà come noi. Queste sono le percezioni sulla base delle quali ci facciamo un’opinione e andiamo a votare; queste sono le percezioni con cui i politici devono fare i conti – in un senso o nell’altro – quando cercano il consenso degli italiani.

 

La cosa più istintiva da fare è imputare questa tragica disinformazione agli italiani stessi: d’altra parte, in ultima istanza, ognuno di noi è responsabile di quel che è. Un popolo che si informa così poco, che legge così pochi giornali, che è così poco interessato a conoscere quello che gli succede attorno se non in discussioni da bar, non può che avere torto su tutto – spesso anche con una certa sicumera – e decidere così le cose sbagliate per le ragioni sbagliate. Ma siamo sicuri che il problema sia nella domanda e non nell’offerta? Lo dico da giornalista: siamo sicuri che il giornalismo e l’editoria debbano essere gli unici settori a cui sia concesso dare ai clienti la colpa dei loro fallimenti? Nessun venditore di frigoriferi accuserebbe della sua crisi le persone che non comprano abbastanza frigoriferi. Già vi sento: <Ma l’informazione non è un frigorifero!>. Certo, certo. Se c’è una cosa su cui siamo i migliori, in Italia, è batterci il petto declamando solennemente il valore dell’informazione. E poi tornare a fare pessima informazione. Sicuri che la patologica e sistematica diffusione di notizie false e imprecise, i toni terrorizzanti e apocalittici usati su qualsiasi cosa, non abbiano a che fare con la disinformazione degli italiani?

 

La produzione di allarme, enfasi, drammatizzazione, se attuata su grandissima scala e in questo delicato settore non solo ne stimola la domanda, ma cambia un Paese e la sua cultura. Come americani diventati obesi a causa dell’offerta di cibo poco salubre, o come tabagisti ammalati di cancro perché il mercato del tabacco ha costruito una dipendenza, i fruitori di notizie italiani (tutti, da chi legge i giornali a chi guarda la tv a chi sta su internet) sono stati formati e assuefatti a un modo di pensare per cui ogni singolo evento – o persino la mancanza di un evento – è foriero di drammi di ogni tipo, o comunque brutte sorprese: nei settori più diversi, dalla politica alla cronaca allo sport ai grandi eventi naturali, ai palinsesti della tv, ogni giorno tutto è “sull’orlo di”. Si annunciano rivolgimenti, o minaccia tragedie. Che poi non si verificano nella stragrande maggioranza dei casi: ma per allora ne staremo già annunciando altre. E questo ha creato un paese obeso di diffidenza, di paura, di sfiducia, di egoismo, per i cui cittadini ogni cosa è cattiva, infida o almeno sospetta. E ogni singolo fatto non ha più valore di per sé – è sempre troppo poco – ma solo per le cose più spaventose che può annunciare.

 

Citiamo due esempi fra i tanti: prendete lo spazio dedicato dalla stampa a qualsiasi cosa riguardi l’immigrazione in Italia, prendete in particolare lo spazio allarmista dedicato agli sbarchi a Lampedusa. Ebbene, la grandissima maggioranza dei migranti irregolari arriva via terra e via aria. Addirittura il 73% arriva in aeroporto con visto turistico e rimane dopo la scadenza: un fatto enorme che, salvo poche eccezioni, i giornali hanno ignorato. Ancora: prendete il dato sulla disoccupazione. Gli italiani pensano che ci sia un 49% di disoccupati, quando in realtà sono il 12%. Peccato che siano i giornali italiani, tutte le volte, a presentare i dati sulla disoccupazione – che sono gravi, gravissimi e mi sento quasi scemo a doverlo specificare – in modo errato e fuorviante; sono i giornali italiani a urlare nei titoli la balla <metà dei giovani senza lavoro> o <un giovane su tre è disoccupato> quando, nella fascia 15-24 anni la disoccupazione vera è dell’11%, costringendo l’Istat tutte le volte a fare smentite e chiarimenti. Se è vero che una democrazia può dirsi compiuta solo se è adeguatamente informata, allora quello che rende l’Italia una democrazia incompiuta forse non sono né il Patto del Nazareno né il gruppo Bilderberg: forse sono i suoi giornali. Si fanno leggere da pochi italiani e informano male quelli che ancora li comprano. Hanno prodotto, per richiamare l’attenzione o per inedia, questo tragico panorama di disinformazione. E quindi se vendono meno forse è perché se lo meritano, malgrado che tutti noi siamo pronti a batterci il petto: invece che fare il baluardo della democrazia, contribuiscono alla sua destabilizzazione.

 

Tecnologie

Voto elettronico in Brasile

 

(Rocco Cotroneo, Corriere) Ad appena tre ore dalla chiusura delle urne, un Paese di oltre 200 milioni di abitanti come il Brasile ha saputo il nome di chi lo governerà per i prossimi quattro anni. Senza exit poll e senza proiezioni. Di più: il risultato era pronto dopo un paio d’ore, ma per rispetto agli elettori dell’Acre – lo Stato amazzonico con un fuso orario diverso – le autorità hanno preferito aspettare. Tutto ciò è merito del voto interamente digitalizzato. Non c’è carta, né spoglio manuale. L’elettore digita il numero del suo candidato su un terminale (l’urna elettronica), vede apparire la foto e conferma. La macchinetta viene portata ovunque, persino nei remoti villaggi della foresta: a volte parte una settimana prima con una canoa ed è alimentata con un impianto fotovoltaico.  La sera del voto arriva un elicottero per portarla al centro di scrutinio più vicino. Il Brasile è la quarta democrazia del mondo, dopo India, Usa, Indonesia, ma da anni è all’avanguardia nella tecnologia del voto. Quella elettorale è una eccellenza del brasile a cui guardano molti Paesi. Ma il sistema non è immune da difetti. Uno è politico. La grande maggioranza dei brasiliani vota a fatica per il candidato, quasi tutti portano al seggio un foglietto, perché a volte i numeri da ricordare sono ben cinque. Ciò porta a sovrastimare l’importanza della preferenza. L’altro è un rischio tecnico. L’urna elettronica non ha riscontro cartaceo, non esiste cioè una stampante che dia la ricevuta all’elettore o una copia per lo scrutatore. In caso di contestazioni non si può controllare, contando di nuovo le schede. Ma il sistema elettronico gode di un consenso unanime in Brasile. Nonostante lo scarto minimo del primo dato (50,99% a 49,01%), domenica sera lo sconfitto Aécio Neves non ha perso tempo e ha chiamato la vincitrice Dilma Rousseff. Non sarebbe successo ovunque. Tuttavia non si può escludere che un giorno un margine più stretto porti a contestazioni. Con qualche fondamento.

 

Citazione

 

Anni fa, un omosessuale di colore che conobbi a una festa mi raccontò questa facezia: quale è la differenza tra essere nero ed essere omosessuale? Risposta: che non ti tocca dire ai tuoi genitori che sei nero (Michael Cunningham)

 

lorenzo.borla@fastwebnet.it

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