N.370 – I NUOVI EUROPEI

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I nuovi europei
Un breve racconto di Gian Arturo Ferrari

(Corriere) Mi è capitato recentemente di andare a un matrimonio nelle Langhe. La sposa, insegnante elementare, era italiana. Lo sposo, chimico, era tedesco. Si sono conosciuti grazie a un Erasmus in Inghilterra. Lui ha cercato lavoro in Italia per un anno, distribuendo curricula cui nessuno ha mai risposto. Ha poi trovato in Germania, a Colonia, dove adesso vivono. Lei ha preso il suo brevetto di insegnante in tedesco e comincerà tra poco a lavorare in una scuola materna. Al matrimonio, assai festevole, sono arrivati tutti, italiani e tedeschi, con addosso gli stessi abiti: italiani; e a bordo delle stesse macchine: tedesche. Tutti a proprio agio alla cerimonia, tutti con l’aria di trovarla assolutamente normale, identica a quella che sarebbe stata in Germania, in Francia o in Inghilterra. A tavola hanno chiacchierato di quel che facevano, di serie televisive e di libri (americani però), delle proprie vacanze e di quali tra i voli low cost tra Italia e Germania fosse il più conveniente e andasse nei posti più strani. Alcuni tedeschi parlavano italiano – da così così, a bene – nessun italiano parlava tedesco, ma molti se la cavavano con quel poco o tanto di inglese che sapevano. Si sono tutti capiti benissimo. Non solo, ma, e questo è davvero importante, non c’è stata estraneità, quel guardarsi intorno smarriti e cauti in cerca dei propri simili, quel gradino di diffidenza che ancora fino a pochi anni fa ci sarebbe di sicuro stato. Fino a pochi anni fa l’idea di essere tra di noi, di eguaglianza e di parità, era proprio o di gruppi professionali o di élite intellettuali. Adesso è diventato senso comune. O, per meglio dire, senso comune per un nuovo ceto medio, più giovane, più civile e più allargato. Un nuovo ceto medio europeo. Che non equivale di certo all’insieme o anche solo alla maggioranza degli europei (in mezzo miliardo di persone c’è ovviamente di tutto…), ma che è la parte più attiva, più proiettata in avanti, quella che sarà senza ombra di dubbio la spina dorsale del domani. Sono gente simpatica questi nuovi europei. Gente pratica, con i piedi per terra (dai e dai, l’economia ce l’hanno nel sangue). Ma anche gente curiosa. Che è un modo diverso di essere colta, schivando la vecchia e arrogante retorica dei colti di professione. Gente che ha risolto in concreto, personalmente, il problema della doppia appartenenza al proprio Paese e all’Europa. Il proprio Paese sono le proprie radici, l’Europa è il proprio orizzonte, il terreno in cui misurarsi. Insomma, gli europei sono qui, sono già arrivati: inutile andare a cercarli. Quel che non c’è, a dire il vero, è l’Europa. O perlomeno una Europa degna di questi europei. Non si può chiamare Europa quello sferragliante convoglio in perenne viaggio tra Bruxelles e Strasburgo, quel coacervo di istituzioni ammonticchiate le une sulle altre, di cui nessuno, se non chi ne è parte, sa dire le precise competenze. In tempi di vacche magrissime per tutti è ora anche qui di semplificare, di sfrondare. E di risparmiare. Che credibilità potrà mai avere l’Europa che chiede riforme se non è capace di riformare se stessa? Poi occorre chiarezza: non trasparenza, che è un concetto nebuloso, chiarezza. Sulle due questioni essenziali, della cessione – e dunque sulla distribuzione – di sovranità, e sul comando. La Banca centrale europea e la Germania hanno diritto di rivendicare l’una e l’altro, cioè l’egemonia. Ma in che misura e in che modo? Abbiamo già fatto la colossale sciocchezza di varare un’unione monetaria senza un’unione fiscale. Cerchiamo di non farne altre.
La sinergia che manca tra imprese e ricerca
Romano Prodi

(Il Messaggero) Nella sua recente visita in California il presidente del Consiglio ha incontrato un nutrito gruppo di giovani imprenditori italiani che, a migliaia di chilometri di distanza, sono andati a costruire delle “start up”, cioè delle nuove imprese che nascono a grappoli dove esiste un ambiente favorevole. In fondo anche noi abbiamo avuto il periodo delle nostre start-up quando, dagli anni cinquanta fino agli anni ottanta, fiorivano i nostri distretti industriali, con sempre nuove aziende che fra di loro si integravano pur facendosi, nello stesso tempo, accanita concorrenza. Questo era allora possibile perché le imprese si fondavano su tecnologie semplici e su accessibili imitazioni, mentre la tumultuosa crescita del mercato permetteva un rapido ritorno degli investimenti. Il tutto era molto adatto all’Italia di allora: pur con tutti i nostri problemi si è perciò potuto parlare di miracolo italiano e vedere le nostre piccole e medie imprese indicate come esempio di efficienza e di innovazione nei manuali di tutte le Business School del mondo.

Oggi viviamo in un pianeta diverso: le imprese fondate sull’imitazione non reggono più di fronte ai nuovi concorrenti, mentre le nuove iniziative si fondano su tecnologie raffinate, hanno bisogno di nascere e vivere vicino a università e laboratori di ricerca d’avanguardia e, anche nei casi in cui richiedono capitali modesti, il ritorno del capitale di rischio è a lungo termine. Questo in conseguenza della complessità delle conoscenze da mettere insieme, delle laboriose prove sperimentali e delle autorizzazioni pubbliche necessarie. Il tutto senza tenere conto della difficoltà di reperire credito bancario, data la maggiore facilità nel giudicare il rischio di un prestito concesso a una fabbrica di piastrelle o di abbigliamento che non a un laboratorio che propone nuove molecole o raffinati processi di software. D’altra parte queste sono le aziende del futuro e la loro esistenza condiziona anche la vita e lo sviluppo delle aziende tradizionali. Non è quindi sorprendente dover constatare le difficoltà della nostra industria, presa nella tenaglia fra i Paesi a basso costo del lavoro e quelli che fanno tanta ricerca, soprattutto ricerca applicata.

Tuttavia, come capita in tutti i casi della vita, se si vuole cambiare qualcosa bisogna prima di tutto partire dalle risorse che abbiamo a disposizione e cercare di utilizzarle al meglio, sperando di potere in seguito preparare il complesso ecosistema che caratterizza i distretti dove nascono le nuove imprese. Partiamo dal fatto che le nostre risorse in ricerca applicata sono scarse, anzi infime, rispetto agli altri Paesi moderni. Abbiamo tuttavia centri di dimensioni non trascurabili, almeno attorno ai politecnici di Torino e Milano, alle università di Bologna e Pisa e al complesso delle università romane e napoletane. Senza nominare la non trascurabile presenza del Cnr e dell’Enea. Ho inoltre in mente l’Istituto Italiano di Tecnologia che è stato opportunamente creato proprio per promuovere la ricerca applicata dedicata a fare avanzare il nostro sistema produttivo e che sta facendo bene il suo mestiere.

Ebbene, quando mi sono messo ad analizzare se questi centri di ricerca promuovono nuove imprese, sono rimasto profondamente deluso. Le imprese generate sono pochissime e quasi sempre abbandonate a se stesse. E quindi non si sviluppano. I contatti fra le università e le imprese sono scarse, le “start up” non sono capite e non nascono le strutture dedicate a farle vivere. Strutture che, non a caso, nel linguaggio internazionale, sono chiamate “angeli”. Certo gli impedimenti burocratici e le regole allucinanti a cui sono sottoposte le nostre università e le nostre imprese costituiscono la prima difficoltà, ma ho dovuto constatare come siano difficili e complessi i rapporti perfino fra i laboratori d’avanguardia come quelli dell’Iit e la città di Genova, che ne ospita le strutture portanti. Ancora ostacoli burocratici ma anche un quasi totale disinteresse del mondo produttivo per capire che cosa si può ricavare da quei ricercatori e da quei laboratori d’eccellenza. Almeno in questi casi la colpa non è certo tutta del governo.

Sappiamo che i nuovi business sono difficilmente individuabili, altamente rischiosi e diversi fra di loro. Tra le nuove imprese solo una su cinque (o forse una su dieci) avrà successo: ma sappiamo anche che, come accade in tutti gli altri Paesi, il guadagno che deriva dall’impresa di successo costituisce una remunerazione del capitale impiegato molto più elevata della media, anche tenuto conto del costo dei fallimenti. Mi chiedo perciò come mai, intorno a questi ed altri centri di ricerca, non nascano gli “angeli” in grado di adempiere il complesso compito di legare le imprese all’ecosistema della ricerca, della finanza e delle altre imprese. E mi chiedo perché le autorità pubbliche non ne aiutino in modo prioritario la nascita, impegnandosi anche a contribuire in modo proporzionale agli impegni degli operatori privati. Parlo naturalmente di una presenza minoritaria, perché questo non è un mestiere adatto al pubblico. Ma quanti e dove sono gli operatori privati disposti a rischiare? Ben pochi!
Come uscire dalla crisi

Nel corso delle ultime settimane sono apparsi molti articoli contenenti proposte per superare il presente stallo economico e occupazionale. Lasciando perdere le numerose teorie accademiche, alcune proposte sembrano essere concrete e praticabili.

Come aumentare gli occupati

(Luca Ricolfi, La Stampa) Sulle ragioni per cui l’Italia, quale che sia la congiuntura economica, cresce meno della maggior parte delle altre economie avanzate, il consenso è relativamente ampio. Nessuno nega che vi sia una carenza di domanda (calo dei consumi, investimenti insufficienti). Nessuno nega che la pressione fiscale sulle aziende (Irap, Ires, contributi sociali) soffochi l’economia; nessuno nega che il non aver fatto le riforme modernizzatrici (mercato del lavoro, giustizia civile, pubblica amministrazione) stia costando carissimo. Ovviamente, trovare le cause è molto più facile che non indicare le terapie. Dove cominciano i dissensi è sul modo di rispondere alla crisi. Qui non si vuole parlare delle decine di teorie che circolano fra gli esperti, ma solo a quelle che hanno una plausibilità politico/economica e non si basano su ipotetici aiuti esterni (tipo eurobond, interventi della Bce, eccetera). Ebbene, se ci limitiamo alle teorie realistiche, a me pare che esse si riducano a tre.

La prima è la “teoria dello stimolo”. Secondo questo punto di vista, l’economia non si può riprendere senza uno stimolo di almeno 30 miliardi di euro (2 punti di Pil), tendenzialmente sotto forma di riduzioni fiscali alle famiglie e alle imprese. Tali riduzioni andrebbero finanziate in deficit, promettendo all’Europa (e ai mercati finanziari) di fare le riforme e ridurre la spesa pubblica negli anni a venire. La formulazione più chiara ed esplicita di questo punto di vista mi pare quella degli economisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi.

La seconda teoria potremmo chiamarla del “passo dopo passo”. Secondo questa versione, se l’Italia dovesse promettere riduzioni della spesa pubblica e riforme strutturali non verrebbe creduta né dai partner europei, né dai mercati finanziari. E se provasse a sostenere la domanda aumentando il deficit dal 3, al 4, o al 5%, verrebbe immediatamente castigata dai mercati, con conseguente impennata dello spread. Quindi l’unica cosa da fare è galleggiare per qualche anno intorno al 3% di deficit pubblico, e nel frattempo cambiare la composizione della domanda, riducendo simultaneamente e gradualmente sia la spesa pubblica sia la pressione fiscale. Questa, nella sostanza, è la posizione del governo e del suo ministro dell’Economia. La formulazione più chiara di questa posizione mi pare quella dell’economista Roberto Perotti (collaboratore del Governo), che l’ha recentemente esposta in un bell’articolo sulla rivista online Lavoce.info.

C’è però anche un terzo modo di vedere le cose, che chiamerò “concentrare le risorse”. Secondo questo punto di vista è vero che la teoria dello stimolo non fa i conti con la diffidenza dei mercati finanziari verso l’Italia, ma è altrettanto vero che la linea del “passo dopo passo” è troppo debole e troppo lenta. E’ molto improbabile che le riduzioni effettive della spesa pubblica superino gli 8/10 miliardi l’anno, e a questo ritmo sarà già un miracolo se Renzi riuscirà a rinnovare il bonus da 80 euro e finanziare i nuovi ammortizzatori sociali. Di qui l’idea di non disperdere gli sgravi in mille rivoli. Anziché uno stillicidio di alleggerimenti fiscali o contributivi di cui nessuno si accorge, meglio concentrare le risorse sui settori più dinamici dell’economia italiana, aiutandoli ad aumentare l’occupazione, la competitività, o entrambe. E’ questa, ad esempio, l’idea lanciata da Oscar Farinetti, fondatore di Eataly, in cui invita Renzi a varare <un provvedimento molto forte di sgravio fiscale per le aziende che nell’ultimo anno sono cresciute nelle esportazioni>.

Anche se la proposta Farinetti è spudoratamente pro domo sua, perché la catena di vendita dei prodotti Eataly sarebbe fra le prime a beneficiarne, credo che l’idea andrebbe considerata molto seriamente. Quando le risorse sono molto scarse può essere assai miope spalmarle su tutti, anziché indirizzarle verso quei settori o quelle imprese che meglio possono contribuire a far uscire la barca dell’Italia dalle secche in cui si è incagliata. Semmai la domanda è: uscire sì, ma come? Le risposte possono essere due. Se si ritiene che le risorse disponibili vadano usate innanzitutto per aumentare la competitività dell’Italia, l’idea di Farinetti è ottima. Se invece si ritiene che vadano usate per sostenere l’occupazione, la strada potrebbe essere decisamente diversa: anziché sostenere le imprese che l’anno scorso (in passato) hanno aumentato il fatturato delle esportazioni, si dovrebbero premiare le imprese che nel prossimo anno (in futuro) aumenteranno il numero di occupati. Questa secondo modo di concentrare le risorse a me sembra la più utile all’Italia, almeno finché la situazione dell’occupazione resterà drammatica come oggi.

Prendere esempio dalla Silicon Valley

Enrico Moretti è un economista italiano che insegna a Berkeley, in California. L’anno scorso è stato convocato alla Casa Bianca dal presidente Obama per discutere le sue tesi sul lavoro. Per esempio ha scoperto che, in una città media degli Stati Uniti, per ogni posto di lavoro in aziende all’avanguardia, se ne generano cinque nell’economia tradizionale. Moretti ha scritto un ottimo articolo, da non perdere, perché dà risposte chiare alla domanda: perché l’Italia è in eterna recessione? E’ un articolo lungo, ma semplice e chiaro: non lasciatevi scoraggiare.

(Enrico Moretti, La Stampa) Dopo gli anni dolorosi della recessione, l’economia americana è in forte ripresa. Un primo punto da evidenziare è che questa crescita ha avuto luogo in un periodo di austerità severa dei bilanci pubblici – nettamente più severa di quella dell’Italia È importante farlo presente perché in questo momento in Italia si sta parlando molto di legge di bilancio e di austerità, ma molte delle proposte sul tavolo non sembrano particolarmente austere. Negli Stati Uniti, nei cinque anni tra il 2009 e il 2013, il numero di impiegati pubblici è stato ridotto di 700 mila posti – una cifra impensabile in Italia anche fatte le debite proporzioni. Il rapporto tra occupati nel settore pubblico e occupati nel settore privato è ai minimi degli ultimi 40 anni. Questa austerità non è stata imposta da vincoli esterni, come in Italia, ma da scelte politiche interne da parte del governo federale e soprattutto da parte dei governi statali.

Se la differenza non sta nella spesa pubblica (perché in America si è ridotta), che cosa spiega il fatto che l’economia americana è ripartita e quella italiana è ancora in recessione? Ci sono molte differenze tra l’economia americana e quella italiana, ma il ruolo della innovazione è la principale differenza. Il dinamismo di regioni come quella dì San Francisco e Silicon Valley è uno dei fattori chiave che spiega perché l’economia americana è ripartita a ritmi elevati e perché probabilmente continuerà a crescere a ritmi elevati nei prossimi anni. La differenza principale tra una regione come Silicon Valley e l’Italia, è in ciò che si esporta. Va detto che il settore dei servizi, che dà lavoro a più di due terzi degli occupati, non è molto diverso in Italia e nella Silicon Valley. Il settore dei servizi comprende tutte le imprese che forniscono un servizio ai residenti di una città, dai commercianti ai ristoranti, dalle imprese di costruzioni agli avvocati, dagli insegnanti ai tassisti. La produttività del lavoro in questo settore a Silicon Valley, è analoga a quella italiana. Per esempio, un negoziante, un cameriere, un architetto o un parrucchiere non sono molto più produttivi a Silicon Valley rispetto a Milano o a Napoli. Ma è il settore dell’export, quello dove le differenze sono notevoli.

Anche se dà lavoro a meno di un terzo degli occupati, il settore dell’export è la chiave per capire la differenza di fondo tra l’economia italiana e quella di Silicon Valley. A Silicon Valley il settore dell’export è dominato da settori con altissimi livelli di innovazione. Le imprese investono molto in ricerca e sviluppo e di conseguenza producono beni e servizi unici, che nessun altro paese al mondo sa fare. La globalizzazione favorisce le imprese di questo settore, perché i paesi emergenti non rappresentano una competizione, ma sono invece mercati dove vendere prodotti. Quando la Cina, il Brasile o la Polonia crescono, la domanda per i prodotti di Silicon Valley cresce: questo vuoi dire più posti di lavoro e salari più alti. In Italia, invece, il settore dell’export è dominato da settori tradizionali.

Anche se ci sono eccezioni importanti, le imprese italiane investono molto meno in ricerca e sviluppo e di conseguenza producono beni e servizi meno unici e più comuni. Inoltre le imprese italiane investono poco in ricerca e sviluppo non solo rispetto a quelle di Silicon Valley, ma anche rispetto a quelle di quasi tutti gli altri paesi europei. La globalizzazione sfavorisce le parti tradizionali dell’industria italiana perché le mette in competizione diretta con i paesi emergenti, che hanno costi del lavoro molto minori. Quando la Cina, il Brasile o la Polonia crescono, questo vuoi dire qualche vendita in più, ona soprattutto più competizione per i settori tradizionali in Italia, dal tessile ai mobili, dalle scarpe agli occhiali. Una differenza ulteriore tra Italia e Silicon Valley è che le imprese di Silicon Valley sono piccole, ma poi crescono. Anche se molte falliscono, una su cento esplode e diventa un gigante globale con decine di migliaia di impiegati. Le imprese italiane sono piccole e rimangono no piccole. Questo dipende in parte da profonde ragioni culturali ma in parte anche dal fatto che la nostra legislazione del lavoro e l’alta pressione fiscale non incoraggiano la crescita. Le imprese piccole sono state la spina dorsale del boom economico italiano degli Anni ‘50, ‘60 e 70, ma non possono più essere il motore trainante oggi. Un’ulteriore differenza con l’Italia è che le imprese di Silicon Valley investono molto in capitale umano, dal training in impresa ai corsi di specializzazione esterni, dal 20% di tempo dedicato a sviluppare progetti personali a periodi sabbatici. Le imprese italiane investono pochissimo in capitale umano. Questa differenza ha conseguenze sempre più nocive sulla produttività dei lavoratori italiani, e la loro capacità di creare innovazione perché oggi il capitale umano è il fattore produttivo più importante.

L’ascesa del settore dell’innovazione è associata a una crescita di valore del talento e del capitale umano, per una semplice ragione: la creazione di valore economico dipende dal talento e dal capitale umano come mai in passato. Nel Novecento la competizione gravitava intorno all’accumulo di capitale fisico. Oggi si gioca invece intorno alla capacità di attrarre il migliore capitale umano. Il rendimento economico delle nuove idee non è mai stato tanto alto e che il compenso ottenuto da chi le partorisce è lievitato anch’essa La somma di tutti questi fattori spiega perché nel settore dell’export la produttività del lavoratore medio a Silicon Valley è più del doppio di quella del lavoratore medio nel settore dell’export in Italia. Questa differenza ha conseguenze enormi per tutto il paese. In primo luogo vuoi dire che in Italia c’è una minor domanda di lavoro nel settore dell’export, e quindi meno crescita occupazionale e meno crescita salariale. Ma vuole dire anche meno crescita nel resto dell’economia, in quei due terzi del mercato del lavoro che produce servizi locali. Perché ogni posto di lavoro nell’high tech genera molti posti aggiuntivi nei servizi.

Come si riduce il divario fra Italia e Silicon Valley? È fondamentale riorientare il mix settoriale del paese da uno che investe poco in ricerca e sviluppo e capitale umano e produce beni e servizi tradizionali ad uno avanzato che investe molto ricerca e sviluppo e capiti umano e produce beni e servizi innovativi. Questo non vuol dire necessariamente copiare il modello settoriale di Silicon Valley, centrato su Internet, software, biotecnologie, robotica, materiali e tecnologie verdi. L’Italia deve innovare, ma non deve (né può) riprodurre pedissequamente il modello di alt Ci sono molte parti dell’industria dell’innovazione che sono più consone alla storia e al competenze oggi presenti Italia. È sempre meglio partire dai propri punti di eccellenza e costruire sulla base dei propri vantaggi comparati vantaggi comparati. È un’impresa né facile né veloce, ma necessaria. È ovvio che questo cambiamento non può avvenire ope legis. In un’economia di mercato lo Stato non deve, e soprattutto non può determinare direttamente la composizione industriale del Paese. Sono le imprese che devono decidere cosa produrre e dove investire. Ma il mercato risponde agli incentivi e soprattutto ai disincentivi creati dalla politica economica. Quello che può e deve fare lo Stato e ridurre i vincoli che impediscono al panorama industriale italiano di crescere e modernizzarsi. Non è che i lavoratori italiani sono di per sé meno produttivi di quelli di Silicon Valley perché si impegnano meno o sono meno creativi o meno intelligenti. Infatti, se si trasferiscono a Silicon Valley ì lavoratori italiani vanno benissimo, in molti casi meglio dei lavoratori americani. Non c’è grande impresa a Silicon Valley in cui ingegneri o scienziati italiani non abbiano un ruolo importante. Non c’è centro di ricerca all’università di Berkeley o Stanford in cui ricercatori italiani non eccellano. Quello che è diverso è tutto l’ecosistema produttivo, gli incentivi e disincentivi creati dal quadro normativo e fiscale. In questo quadro le riforme sono un primo passo assolutamente necessario (anche se forse non sufficiente). È chiaro che senza un sistema fiscale meno punitivo per il capitale umano, senza regole del lavoro più moderne, senza un sistema giudiziario più veloce e una pubblica am-ministrazione meno medioevale, è difficile cominciare ad attrarre investimenti esteri e stimolare investimenti interni nei settori avanzati.

Una legge di stabilità non ortodossa

(Riccardo Achilli e Lanfranco Turci, Iniziativa 21 giugno) Le prospettive macro- economiche dell’Italia si sono ulteriormente peggiorate. La previsione di ripresa, sulla quale il Governo aveva fondato le sue proiezioni di finanza pubblica, è saltata. Nel frattempo, il mercato del lavoro continua a degradarsi. Nei primi sei mesi del 2014, l’occupazione non è cresciuta. Il tasso di posti vacanti è pressoché nullo, indicando come le imprese non abbiano spazi per fare assunzioni. Nel frattempo, la crisi sta cambiando natura, perché alla recessione produttiva si sta affiancando, per insufficienza dei redditi disponibili, di crescita della disoccupazione e di ristagno degli investimenti, anche la deflazione. Siamo quindi davanti ad un crinale della crisi per certi aspetti inedito. E’ di tutta evidenza che proseguire sulla strada segnata dai Trattati europei e dai parametri del Patto di Stabilità, di fronte a questa torsione della crisi, è un suicidio. E’ evidente anche che le cosiddette riforme strutturali non abbiano di per sé prospettive di rilancio della crescita. Non serve flessibilizzare ulteriormente le modalità contrattualistiche del lavoro, se le imprese non assumono. E’ compito delle politiche macroeconomiche far sì che si ricostituiscano condizioni di domanda tali da creare spazi per una ripresa dell’occupazione e della crescita.

Dunque noi avanziamo una proposta di legge di stabilità che si colloca al di fuori dei perimetri imposti da Trattati europei, e che impone una battaglia in sede europea, finalizzata ad allentare i vincoli dei Trattati. La legge di stabilità che proponiamo non rispetta, quindi, i limiti del Patto di Stabilità e Crescita, ed ha un ammontare di 40 miliardi, così composto: A) 4,5 miliardi di riduzione di imposte (a metà fra imprese e famiglie). B) 5 miliardi per un programma di piccole opere pubbliche immediatamente cantierabili, segnalate dagli enti locali e dalle Regioni, prioritariamente rivolte alla riqualificazione di immobili pubblici, a strutture pubbliche per servizi ai cittadini, alla difesa del suolo, alla prevenzione del rischio idrogeologico ed alla tutela ambientale, da collocare fuori dal Patto di stabilità, ed aggiuntive rispetto ai programmi di investimento già in corso o definiti. C) 6 miliardi destinati ad un Fondo per gli Investimenti strategici, gestito dalla CDP, mirato a sostenere investimenti delle imprese nei settori della ricerca applicata ed industriale e dell’innovazione tecnologica nelle aree determinate dal Piano Nazionale della Ricerca; della formazione del personale; dell’internazionalizzazione commerciale; dell’acquisizione di servizi reali. D) Altri 2 miliardi finanzieranno start-up e spin-off nei settori ad alta tecnologia e nell’industria culturale e creativa. In relazione alle esigenze delle imprese ed alle condizioni del mercato del credito, tale fondo potrà essere erogato scegliendo fra contributi a fondo perduto, in conto interessi, prestazione di garanzie pubbliche o strumenti di partecipazione al capitale di rischio. E) 10 miliardi per il bonus degli 80 euro rimodulato, ovvero decrescente al crescere del reddito, fino a 24.000 euro, e non cumulabile da più percettori nell’ambito di un solo nucleo familiare, al fine di recuperare risorse per estendere il beneficio a chi è collocato sotto la soglia di incapienza fiscale ed ai pensionati al minimo; F) 12,5 miliardi per uno strumento di tutela universalistica che unifichi la sperimentazione del reddito di inserimento al sostegno delle fasce povere della popolazione che non hanno uno specifico problema di inserimento lavorativo, a strumenti individualizzati di formazione/ricollocamento lavorativo, e contro l’esclusione sociale.

I predetti provvedimenti saranno coperti per circa 22 miliardi da un insieme di interventi, tra i quali: recupero di evasione fiscale imperniata sull’introduzione dello scontrino telematico e della fatturazione telematica (12 miliardi ); previsione di minor costo del servizio del debito pubblico (3 miliardi); una spending review mirata (3 miliardi), centrata su riduzione delle spese militari, riduzione stipendi degli alti dirigenti, pubblicazione telematica degli appalti pubblici, razionalizzazione dei corpi di polizia; aumento del gettito sui tabacchi e su lotto, lotterie e giochi (1,5 miliardi); dismissione di immobili pubblici non aventi preminenti interessi storico-artistici e rinegoziazioni dei contratti di locazione di immobili in uso alla P.A. o da queste locati a terzi. I restanti 18 miliardi sarebbero coperti da aumento del debito pubblico (1,15% del PIL). Tale manovra porterebbe il rapporto fra deficit pubblico e PIL attorno al 4,2%, ed avrebbe un effetto espansivo pari a circa 1,2 punti di PIL, lasciando sostanzialmente inalterato, ma con una lievissima riduzione rispetto al livello attuale, il corrente rapporto debito/Pil.

Articolo 18

Caro Lorenzo,
Non amo Alan Friedman, ma stavolta non posso sostanzialmente non concordare con l’articolo che hai riportato nel numero scorso dello Zibaldone. Se i dipendenti sorpresi a rubare i bagagli dei passeggeri sono stati reintegrati al loro posto (caso Malpensa), a causa dell’art. 18, allora l’art. 18 va cambiato. Certo, va mantenuto il reintegro nei licenziamenti discriminatori (lo vuole anche la Costituzione). Ma occorre eliminare l’abuso odierno. Purtroppo, nella canea di urla pro o contro, non riesco a vedere proposte serie ed equilibrate, capaci di salvaguardare i veri diritti fondamentali, senza proteggere anche gli eccessi, le prevaricazioni, o semplicemente l’interesso collettivo rispetto a quello individuale o minoritario, come troppo spesso avviene oggi. Mi pare anche chiaro che toccare il solo art. 18 non basta. Una vera assistenza all’occupazione ed alla riqualificazione, o aggiornamento professionale degli inoccupati è basilare. E le indennità odierne (disoccupazione, cassa integrazione, ecc.) vanno, io credo, condizionate alla disponibilità reale a rioccuparsi e/o a riqualificarsi, anche in ambiti diversi da quelli precedenti. Ti chiederei: riesci a trovare una proposta che sintetizzi le suddette caratteristiche? Grazie e saluti.
Francesco Molinari

Risposta: Caro Francesco, di opinioni sull’articolo 18 in questi giorni son pieni giornali, riviste, internet, eccetera. A volerli anche solo riassumere c’è da perdere la testa, tanto più che non c’è un testo definitivo, ma tutto viene rinviato alla legge delega. Conviene aspettare come saranno i decreti attuativi (quando? Aggiungo però il parere del mio amico Claudio Bellavita che ha il pregio di essere breve e sensato.

(Claudio Bellavita, Circolo Rosselli) A proposito di articolo 18, con le questioni di principio si fa poca strada, soprattutto quando vengono proclamate “a prescindere” dal testo concreto delle norme. Che, da quel che ho potuto leggere, prevedono tutele crescenti nell’arco dei primi 3 anni del contratto a tempo indeterminato, a fronte di un contratto a tempo determinato che comporta maggior retribuzione per il lavoratore e maggiori oneri sociali per il datore. E anche dopo i 3 anni, permane il divieto di licenziamento discriminatorio. Il fatto poi che le norme non si applichino sotto i 15 dipendenti, concorre al nanismo delle aziende italiane. Vivamente consigliato dai consulenti che guadagnano di più con quattro aziende di 15 persone, che fanno le stesse cose per lo stesso padrone, che su una azienda unica di 60 dipendenti. Il paragone con il referendum dei 4 punti è azzeccato solo sull’esito della vicenda: se Pci e Cgil han perso quel referendum, che toccava i soldi, a maggior ragione perderanno un referendum sull’art. 18. Infatti il referendum è già andato in soffitta.

Citazione

Il gioco delle tre carte: con il Tfr in busta paga, molti supererebbero la soglia dei 1500 euro, e addio agli 80 euro… (Giovanni Scirocco)

lorenzo.borla@fastwebnet.it

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