Quello che Grillo non sa

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LIVIO GHERSI

Il professor Paolo Bonetti è un liberale di antica data. A metà degli anni Settanta, quando l’intellighenzia italiana era quasi tutta schieratissima a sinistra, curò, per i tipi della Casa Editrice Laterza, un’apprezzata antologia di articoli pubblicati a suo tempo dal settimanale “Il Mondo” diretto da Mario Pannunzio. E’ anche autore di significativi studi del pensiero di Benedetto Croce; anche Croce, per tutta la seconda metà del ventesimo secolo, è stato un pensatore ostracizzato. Del quale la cosa più gentile che si potesse scrivere era che fosse “sorpassato”.

Il 27 marzo scorso Bonetti ha così scritto nel sito on-line della “Fondazione Critica Liberale“: l’impressione è che i parlamentari del Movimento 5 Stelle «non vogliano assumersi responsabilità di governo o di sostegno al governo semplicemente perché non sono in grado di farlo, non ne hanno la capacità culturale e la necessaria energia politica. Come il loro capo sono dei contestatori, non dei costruttori, bravi nel protestare, talvolta con ottime ragioni, ma inetti a fare qualcosa che implichi effettiva conoscenza dei problemi, senso di responsabilità verso il paese, coraggio anche di rischiare l’insuccesso. Gli italiani non tarderanno ad accorgersi che il voto concesso a questo Movimento è un voto sterile, che lascia le cose come sono e serve piuttosto a sfogare frustrazioni e rabbie che a indicare una strada di effettivo cambiamento della politica italiana».

Questo giudizio — che condivido — è molto pertinente per valutare la teoria secondo cui il Governo sarebbe un Organo quasi superfluo, tanto che basterebbe prorogare illimitatamente il simulacro di Governo che attualmente è in carica per l’ordinaria amministrazione. Sostiene Beppe Grillo che basta il Parlamento; questo, anche in costanza di un esecutivo dimissionario e politicamente figlio di nessuno, potrebbe legiferare su qualsivoglia materia.

Nella realtà vale la considerazione opposta: non si può fare a meno dell’attività di governo. Consideriamo la politica economica; questa presuppone un atto di contenuto programmatorio (il Documento di Economia e Finanza) e si articola necessariamente in tre provvedimenti legislativi: la legge di stabilità, il bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario successivo, il bilancio triennale dello Stato per il triennio successivo all’esercizio in corso.

La nostra Costituzione distingue due poteri attribuiti ad Organi costituzionali diversi. Il potere di elaborazione del bilancio è di competenza esclusiva del Governo, nel senso che non potrebbe essere messo in discussione un disegno di legge di bilancio di iniziativa parlamentare. Perché il Governo, per la posizione che occupa nell’ordinamento costituzionale, è l’unico a disporre di una informazione completa sulla condizione dei conti pubblici.

Il Governo, in particolare, conosce: l’ammontare della spesa concretamente attivata in attuazione delle disposizioni di spesa contenute nelle leggi in vigore; il gettito delle entrate riscosse e la situazione di cassa; il costo delle pubbliche amministrazioni, centrali e periferiche, che compongono lo “Stato apparato”; i rapporti finanziari intercorrenti fra il livello di governo nazionale, le Regioni, e gli altri livelli di governo dotati di «autonomia finanziaria di entrata e di spesa» ai sensi dell’articolo 119 della Costituzione. Il Governo, inoltre, conosce gli oneri che gravano sull’Italia in esecuzione dei trattati internazionali stipulati; nonché quelli che gravano sull’Italia per la sua condizione di Stato membro dell’Unione Europea. I Gruppi parlamentari non hanno gli strumenti per disporre di un quadro informativo così completo; meno che mai potrebbero averlo i singoli deputati o senatori.
Quindi — ripeto — il potere di elaborazione del progetto di bilancio, cui corrisponde il dovere di presentare annualmente il rendiconto consuntivo dell’esercizio precedente, ricade nella responsabilità esclusiva del Governo.

Il Parlamento ha, invece, il potere di approvazione del bilancio e del consuntivo; ciò è conforme ad una consolidata tradizione costituzionale secondo cui l’ultima parola in materia di conti pubblici spetta all’Organo investito di funzioni di rappresentanza generale della Nazione.

L’articolo 81 della Costituzione, così come modificato dalla legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, ha fissato il principio del necessario «equilibrio tra le entrate e le spese» del bilancio dello Stato. Quello di equilibrio è un concetto dinamico, nel senso che va perseguito durante tutta la durata dell’anno finanziario e non soltanto raggiunto al momento dell’approvazione formale del documento contabile. Tutta la più recente normativa dell’Unione Europea prevede che il Governo di uno Stato membro sia tenuto ad attivare interventi correttivi tutte le volte che, in corso di esercizio, si determino spese significativamente maggiori rispetto alle previsioni di bilancio, tali da alterare l’equilibrio dei conti pubblici. Nel nostro ordinamento, la copertura finanziaria delle leggi include ora pure una “clausola di salvaguardia”: questa comporta la correzione automatica, in sede amministrativa, degli scostamenti, già in atto, o potenziali, rispetto agli oneri originariamente valutati nelle previsioni di spesa (articolo 17, commi 1 e 12 della legge n. 196/2009, nel testo vigente).

Tutto ciò premesso, non è ipotizzabile un Parlamento che legiferi in assoluta libertà e chieda all’Esecutivo in carica di limitarsi a contabilizzare le nuove decisioni di spesa, via via assunte. Nel quadro costituzionale c’è una necessaria dialettica tra Parlamento e Governo per tutto ciò che attiene alla tenuta dei conti pubblici. E’ evidente che un Governo debole e delegittimato non potrebbe assolvere il suo ruolo.

Questo è soltanto uno dei tanti argomenti che si possono spendere per dimostrare che un Governo è necessario e che l’Italia oggi ne ha più che mai bisogno.
Bonetti parlava di un limite intrinseco al Movimento 5 Stelle, riconducibile a mancanza di «capacità culturale». I nuovi parlamentari faranno tutti un corso intensivo di avvicinamento alla comprensione della complessità. Peccato che il loro apprendistato potrebbe risultare troppo breve per maturare esperienze significative. Peccato che le prossime elezioni ravvicinate alle quali vorrebbero correre con beata incoscienza, potrebbero non attribuire loro il definitivo successo.

Si coglie, nella Storia, un meccanismo ricorrente: quando il pendolo si sposta troppo in direzione della protesta, della volontà di sovvertire tutto, del fanatismo per il nuovo in quanto tale, si determina, per reazione, nell’opinione pubblica, un desiderio di ordine, di stabilità, di fine delle mattane. Beppe Grillo non lo sa. Se ne accorgerà a sue spese. Soltanto che nel frattempo tutti noi avremo perso un’occasione storica. Chissà quando si ripeteranno numeri parlamentari così alti a servizio di una teorica volontà di cambiamento! Volontà che nessuno ha avuto la capacità di tradurre in pratica. Perché 109 deputati e 53 senatori non si accontentavano di niente di meno che di un Governo a 5 Stelle.

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