Del patriottismo

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LIVIO GHERSI

Un commentatore autorevole, qual è Sergio Romano, scrive che i partiti maggiori (ossia PD, PDL, UDC) hanno «un obbligo e un interesse: sostenere il governo Monti patriotticamente» (quotidiano “Corriere della Sera“, edizione del 14 giugno 2012, p. 1).

Le sorti del governo Monti e della Patria italiana verrebbero così a coincidere. Tesi su cui sarebbe molto facile l’ironia, se non fossimo in una situazione in cui gli aspetti tragici sono prevalenti.

L’esperienza del governo Monti stimola una prima riflessione: in altre epoche storiche, quando si chiamarono persone di riconosciuto prestigio ad incarichi di governo, risultò confermato che l’Italia era un grande Paese, in grado di trarre dalla sua società personalità di primo livello. Ricoprirono la carica di Ministro della Pubblica istruzione intellettuali come Francesco De Sanctis, Benedetto Croce, Giovanni Gentile. Si occupò di politica estera Carlo Sforza. Si occuparono di politica economica e finanziaria Luigi Einaudi, Ezio Vanoni, Donato Menichella (quest’ultimo nel ruolo di Governatore della Banca d’Italia).

Chi volesse sostenere che i membri del Governo in carica esprimono il meglio che l’Italia oggi possa esprimere, dal punto di vista tecnico, non renderebbe sicuramente un buon servizio al nostro Paese: qui si trova la prova provata di una fase di decadenza, che non è soltanto politica, non è soltanto economica, ma è anche culturale e morale. Non è elegante fare riferimenti personali; ma, ad esempio, il Ministro che, in nome e per conto del Governo, ha partecipato all’accordo fra la FIAT ed i Sindacati dei lavoratori sul destino produttivo dello stabilimento di Termini Imerese, dismesso dalla FIAT, ha dato il proprio autorevole avallo ad una tipica operazione da politicanti cialtroni.

La crisi che ci travaglia mette l’opinione pubblica italiana di fronte ad una serie di “evidenze”, proprio laddove per troppi anni si è fatto finta di non vedere, o di non capire. La prima evidenza è il fallimento dell’Unione Europea. O questa si trasforma in qualcosa di radicalmente diverso quanto a regole di funzionamento e rispetto dei princìpi della democrazia rappresentativa, oppure non merita di essere salvata. E’ soltanto una pagina ingloriosa da chiudere, senza rimpianti.

Un rapido ripasso su come funziona oggi. Il potere legislativo spetta al Consiglio, attualmente presieduto da Van Rompuy, e, soprattutto, per tutte le scelte fondamentali d’indirizzo, spetta al Consiglio Europeo, cui partecipano i Capi di Stato o di governo dei Paesi membri. La procedura legislativa cosiddetta ordinaria prevede pure il coinvolgimento del Parlamento Europeo. Prima il Parlamento esprimeva soprattutto pareri; ora può partecipare direttamente al processo legislativo, ma il suo ruolo è ancora limitato. E’ incontestabile che finora il Parlamento Europeo, l’unico Organo fornito di legittimazione democratica, abbia contato infinitamente meno del Consiglio. Così sarà anche nel prossimo futuro.

Il lavoro istruttorio spetta sempre alla Commissione, attualmente presieduta da Barroso; tutte le procedure passano attraverso quest’Organo. I cui membri non vengono da Marte, ma sono pur sempre designati dai governi dei Paesi membri dell’Unione. Il fatto che poi i commissari siano tenuti ad operare al servizio dell’Unione Europea, e non degli Stati che li hanno espressi, è altra questione.

Bisogna concentrare l’attenzione sul fatto che, nelle Istituzioni europee, il vero potere sta nell’insieme dei Capi di Stato o di governo dei Paesi membri. Tutti gli Stati membri, formalmente, stanno sullo stesso piano, ma è di tutta evidenza che il loro rispettivo “peso politico” è molto diverso. Così, ad esempio, Cipro e la Germania, sono entrambi Paesi membri dell’Unione ed entrambi hanno l’euro come moneta; ma a nessuno verrebbe in mente che Cipro eserciti un ruolo determinante negli indirizzi di politica economica e monetaria dell’Unione. Qualcuno è molto “più eguale” degli altri, come nella Fattoria degli Animali di Orwell.

Il Consiglio Europeo ed il Consiglio quale potere esercitano nei confronti dei singoli Stati membri? Un potere di “coordinamento”. In un articolo pubblicato nell’ottobre del 2010 nel quotidiano “Corriere della Sera“, Tommaso Padoa Schioppa scriveva: «I limiti dell’impianto sono evidenti. Ho altre volte sostenuto che una politica economica europea fondata sul mero coordinamento è nello stesso tempo troppo debole e troppo ambiziosa. … Ambiziosa, perché neppure là dove una vera federazione esiste, il governo federale ha un potere di coordinamento sulle politiche dei federati (si chiamino Stati, Länder, Province o Regioni)» (Si veda il libro “Scritti per il «Corriere» 1984-2010“, Rizzoli, 2011, p. 659).

L’Italia non è uno Stato federale; ma è uno Stato che riconosce l’autonomia (di entrata e di spesa, come recita l’articolo 119 Cost.) alle Regioni, alle Province autonome di Trento e Bolzano, e ad altri livelli di governo territoriale (Comuni, Province, Città metropolitane). Tutte le polemiche contro il centralismo sono sempre state supportate dall’argomento che non fosse giusto, né rispondente a criteri razionali, che il livello centrale si impicciasse nelle più minute scelte, che invece dovevano restare di esclusiva competenza delle comunità locali, le uniche in grado di valutare i propri rispettivi interessi.

Bruxelles, invero, non si impiccia nelle più minute scelte. Si limita a dire allo Stato italiano: il tuo bilancio deve essere tendenzialmente in pareggio (senza deficit annuale) e devi ridurre il tuo debito pubblico di un tot ogni anno. Non mi interessa cosa fai per ottenere questi risultati, né mi interessa quali costi sociali dovranno sostenere i tuoi cittadini; ma se non ci riesci ti sanziono.

Primo effetto: il Patto di stabilità interno (la cui prima versione fu introdotta con legge n. 448/1998, quando Presidente del Consiglio era D’Alema); ne consegue la forte compressione delle autonomie regionali e locali. Gli indirizzi che i corpi elettorali regionali e locali hanno espresso con il proprio voto, valgono niente.

Secondo effetto: il Governo nazionale, durante il semestre europeo, sottopone alle Istituzioni dell’Unione Europea il proprio Documento di Economia e finanza (DEF) e concorda i contenuti essenziali e, soprattutto, i saldi, della legge di stabilità e della legge di bilancio (in prospettiva triennale). I relativi progetti di legge sono formalmente presentati al Parlamento nazionale dopo che abbiano ottenuto l’avallo delle Istituzioni comunitarie. Ne consegue una forte compressione dei poteri delle due Camere del Parlamento, sintesi del sistema democratico-rappresentativo. Gli indirizzi che il corpo elettorale nazionale ha espresso con il proprio voto, valgono niente.

Per gli Stati membri che hanno adottato l’euro come moneta il “coordinamento” è ancora più stringente. Ad esempio, nel mese di marzo del 2011, il Governo italiano, allora presieduto da Berlusconi, ha sottoscritto il “Patto euro plus” con gli altri Paesi dell’eurozona. Patto che si è tradotto: a) nella riforma dei regolamenti del Patto di stabilità e crescita del novembre 2011; b) nell’impegno ad introdurre la regola del pareggio di bilancio in Costituzione (si veda la legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1); c) nella modifica dell’articolo 136 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE); d) nel progetto di trattato che istituisce il “Meccanismo europeo di stabilità”, sostitutivo del precedente “Fondo salva Stati”; e) nel progetto di trattato “sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria”, detto del “Fiscal compact“.

Vi sembra si tratti di quisquilie, di bazzecole, come avrebbe detto il grande Totò? Eppure non ricordo che il governo Berlusconi si sia preoccupato di informare gli Italiani, spiegando bene loro quali impegni venivano sottoscritti in Europa, e quali conseguenze pratiche ne sarebbero derivate.

Gli accordi intergovernativi seguono spesso logiche poco trasparenti. Ci si accorda secondo modalità che non potrebbero essere riportate senza gli opportuni filtri nel dibattito pubblico. Il potere delle Istituzioni europee è nella sua origine frutto di queste logiche di vertice, poco trasparenti. Le conseguenze ricadono su di noi, poveri mortali, che ci illudiamo di contare qualcosa eleggendo i nostri rappresentanti nel Consiglio comunale, nel Consiglio regionale, nelle due Camere del Parlamento, nel Parlamento europeo.

Il paradosso dell’Unione Europea, così come si è finora realizzata, è che le Istituzioni europee possono esercitare nei confronti di un grande Stato membro come l’Italia un potere di gran lunga superiore a quello che gli Stati Uniti d’America possono esercitare nei confronti dello Stato della California, o che il Governo federale elvetico può esercitare nei confronti di un qualunque Cantone della Svizzera.

Nel contempo, però, in nome dei due Trattati fondamentali, i quali per adesione ideologica rispecchiano la teoria monetarista, non c’è una Banca centrale dell’Unione che possa stampare moneta e adottare politiche moderatamente inflazionistiche per sottrarsi alla stretta dei mercati finanziari e difendersi dalle manovre speculative.

In nome del “coordinamento” si può tutto, meno che generare un po’ di inflazione. Perché, nell’Europa qual è, la stabilità dei prezzi vale infinitamente più del benessere e delle condizioni di vita dei cittadini europei in carne ed ossa.

Ci sarebbero molti altri argomenti per spiegare perché un genuino spirito patriottico porta ad essere arrabbiati con chi ha realizzato questa Unione Europea ed ha la faccia tosta di difenderla. Al momento, però, lo spazio è finito.

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