Noi la crisi non la paghiamo!

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Risposte varie e disordinate a una crisi complessiva e unitaria

di Stefano Pietrosanti

Finito il momento dello stupore, il crollo dei mercati e la recessione ci stanno conducendo alla fase della presa di coscienza. E’ un bene: traumi del genere vanno riflettuti a fondo e se ne esce solo se si sviluppano soluzioni coerenti nella prassi e nel pensiero, ma – dalla mia posizione a margine – mi sembra di cogliere una preoccupante faciloneria. Sconvolti dai fatti recenti, i vari Stati hanno avuto come prima reazione quella di dissimulare, poi di cercare il colpevole, che è stato velocemente preso, fotografato ed esposto al pubblico rabbioso.

Messi in carcere tutti i truffatori, eliminato il segreto bancario e imposte nuove regole alla finanza non avremo risolto nemmeno la metà dei problemi. Dal 2007 il mercato creditizio ha continuato a correre sul nulla, affetto da una strana sindrome di Willy il Coyote, mentre i centri di controllo democratico erano presi da altro. Ora Willy col suo tonfo ha scosso governi che – liberali mai, ma liberisti sempre – si sono risvegliati statalisti, organici, populisti; soprattutto in Europa, dove il new labour e il nostrano centro destra sono i migliori esempi di ribaltone.

Questa crisi vede due “tipi base” di vittime: i co-attori del disastro, ovvero coloro che richiedevano il credito facile venendo meno alle più basilari norme di prudenza, e la buona massa dei lavoratori, che adesso comincia a subire la ricaduta reale della crisi finanziaria.

Qui è il punto. “Noi la crisi non la paghiamo!” Il grido che percorre le strade e non vuole vedere, che scaglia la sua rabbia cieca contro questo nuovo mostro dell’alta finanza e del top-management, perdendo di vista la realtà e i modi che ci sono per agire su di essa. La crisi va pagata, è un dato di fatto. Va pagata con il nostro ingegno, con il nostro impegno, con il nostro lavoro e il nostro pensiero, perché è un debito di tutti noi occidentali, dal primo capitano d’industria all’ultimo studente. Non c’è capro espiatorio da portare come ottuso olocausto alla rabbia. Noi la crisi la dobbiamo pagare, perché facendolo accettiamo l’eredità del mondo, subentriamo ai padri.

Bel modo, direte. Ma purtroppo è così; quello che dobbiamo pretendere è dettare noi – noi nuove generazioni, noi che vivremo in pieno gli sconvolgimenti futuri – le condizioni e una di queste, imprescindibile, è la ricostruzione di quella consapevolezza minima necessaria per vivere in un sistema democratico. Dietro la rabbia, dietro la creazione del nemico comune esterno, come nella Germania del ’29 che individuò il nemico nelle persone di fede ebrea, e della logica del complotto, dietro gli specchietti per le allodole del mercato truffaldino, come del populismo, c’è quell’asfissiante mancanza di comprensione, di interpretazione della realtà. La paura verso ciò che richiede fatica per essere compreso.
Non ce ne siamo accorti, ma dobbiamo ancora vincere la battaglia dei nostri vecchi antenati repubblicani, mazziniani persino: il suffragio universale. Il voto è un potere esercitabile solo dove c’è comprensione della realtà, se questa manca, il diritto al voto è vuoto. La comprensione si raggiunge tramite la vita in una società che esprima una sua etica e gli stati liberal-democratici dell’occidente devono capire che non sfuggiranno mai a questo bisogno. L’etica liberale – priva quindi di assolutismi, di verità rivelate, di letture escatologiche del mondo – deve essere viva e presente, perché la sua esistenza è l’unico baluardo, da una parte, contro le derive anti-sistema del sistema stesso, dall’altra contro la rabbia. Quest’ultima non è altri che una ricerca di etica dove l’etica non c’è, una ricerca furiosa pronta a cedere al primo offerente, se non trova una controparte seria con cui dialogare.

Bisogna togliersi dalla testa che il pensiero sia sovrastruttura. Buona parte dei comportamenti che hanno condotto all’attuale congiuntura economica non derivano da particolare stupidità, o da una logica organica e negativa – come a qualcuno piacerebbe credere – ma dalla semplice mancanza di coscienza del fatto che tutti facciamo parte della stessa comunità di cultura, di interessi e, più in generale, di vita. Non c’è alcun potere maligno dietro la crisi, nessuna premeditazione, solo quell’affermazione che (confessiamolo) a pelle accettiamo spesso: “non importa perché, basta che funzioni”. Non basta, non è mai bastato. Ogni sistema che non sappia rispondere ai suoi perché, che li rimuova, crolla alla minima esitazione o difficoltà. Bisogna avere pronte le risposte, quelle risposte di valore e di cultura comune che sono le sole a salvare un sistema in crisi. Dove non ci sono vanno create. Vanno create sugli unici valori che in Occidente non dividano, non segnino linee di confine emozionali esclusive, ma canali di comunicazione e di inclusione per le nostre idiosincrasie: i valori della democrazia, della libertà di vita e di coscienza, dell’autodeterminazione nella libertà. Quella libertà che ha un significato morale, di dignità e rispetto, assoluto e incancellabile, su cui potremo costruire ancora fondamenta solide e continuative per la nostra civiltà e il nostro mondo. Se non lo capiremo, qualunque soluzione sarà temporanea e da qualche parte, inespresse o trionfanti, vivranno sempre le più grandi nemiche di questa nostra fragile società occidentale: la paura e la rabbia.

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