Un liberale al tempo di Monti

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di ANTONIO MARTINO

Il momento presente suggerisce l’opportunità di fare alcune riflessioni di natura generale. So benissimo, come liberale, che liberalismo e democrazia non coincidono, che fondamentali diritti e libertà individuali possono essere violati e calpestati anche da una democrazia, e, di fatto, lo sono: una sola generazione addietro si sarebbe rimasti sbalorditi dalla quantità e qualità di grossolane violazioni delle libertà personali introdotte nel nostro Paese da un sistema di democrazia parlamentare.

Tuttavia, mi guardo bene dal concludere che liberalismo e democrazia siano incompatibili, non lo sono affatto. Credo invece che un paese liberale sia anche necessariamente democratico ma che l’inverso non sia vero: i provvedimenti liberticidi adottati dalle democrazie di quasi tutto il mondo sono orripilanti. Che cosa dire di un paese che considera un suo cittadino adulto e maturo abbastanza da guidare l’automobile, stipulare un contratto di lavoro, sposarsi, rischiare la vita per il suo paese indossando una divisa, pilotare aerei militari supersonici, ma non abbastanza adulto o maturo da entrare in un bar a bere una birra? Questo accade nella più grande democrazia al mondo: gli USA; tutte le cose prima elencate sono consentite a chi ha meno di ventuno anni, mentre per bere una birra bisogna averne di più, in quasi tutti gli Stati!

Detto questo, pur consapevole dei rischi che anche una democrazia comporta per le mie libertà, non ho mai votato per i due governi “tecnici” nei quali mi sono imbattuto da quando sono in Parlamento: Dini e Monti – due amici, specie il secondo – non hanno mai avuto il mio voto. Sono, infatti, d’accordo con chi espresse quest’opinione: “I governi cosiddetti amministrativi o tecnici sono sempre stati i governi più seriamente e pericolosamente politici che il Paese abbia avuto. Il loro preteso agnosticismo è servito sempre e soltanto a coprire, a consentire o a tentare le più pericolose manovre contrarie alle necessità e agli sviluppi di una corretta vita democratica. (…) Governo di affari, dunque, e dopo di esso un mutamento non nel senso limpidamente indicato dalla consultazione elettorale, ma nella direzione opposta.” Era Palmiro Togliatti alla Camera il 9 luglio 1963!

Togliatti non era un democratico ma aveva un sacro rispetto per la sovranità popolare e riteneva che essa sia violata da governi nati non in conseguenza di elezioni. Personalmente sono da sempre favorevole a governi composti di non parlamentari scelti da un Presidente eletto dal popolo. La divisione dei poteri esecutivo e legislativo, essenziale alla democrazia, mi induce ad essere critico non solo della democrazia parlamentare ma anche del cosiddetto “modello Westminster”: i membri del governo di sua maestà britannica devono essere scelti fra i membri della Camera dei Comuni.

Purtroppo la nostra osannata (a parole) Costituzione non conferisce al Presidente la facoltà di scegliersi il governo che più gli aggrada; a essere violata quindi non è soltanto la sovranità popolare ma anche la nostra Carta Costituzionale: in una democrazia parlamentare escludere i membri del Parlamento dal governo costituisce, a mio parere, un autentico oltraggio all’istituzione parlamentare. Per questo Dini non ebbe mai il mio voto e il mio amico Mario Monti, come gli dissi fin dal primo momento, non lo avrà mai.
La maledizione della “seconda Repubblica” è stata la scelta del presidente della Camera: nel 1994 Irene Pivetti, il cui partito ci fece subire il ribaltone e perdere le elezioni del 1996; nel 2001 Pierferdinando Casini, che ci fece perdere le elezioni del 2006; nel 2008 Gianfranco Fini, il cui gruppetto ha contribuito alla fine della nostra maggioranza, spianando le porte a Mario Monti. Non è per niente casuale che i più acriticamente entusiasti del governo Monti siano l’UDC di Casini e il FLI di Fini.

Che fare? Berlusconi non ha mai, dal 1994 a oggi, cambiato la sua strategia elettorale: ha sempre promesso di ridurre l’invadenza della politica nella vita dei cittadini, ridurre drasticamente le spese pubbliche attuando coraggiose riforme, abbassare le aliquote d’imposta e il carico tributario complessivo gravante su famiglie ed imprese. Con questa prospettiva di “rivoluzione liberale” ha vinto nel 1994, 2001 e 2008, e quasi vinto nel 1996 e nel 2006. Evidentemente gli italiani vogliono proprio ciò che egli aveva promesso loro e, se qualcuno promettesse loro di realizzare – finalmente! – quel programma e avesse un minimo di credibilità, secondo me vincerebbe le elezioni. L’eredità di questo quasi ventennio è chiarissima: le sinistre sono una minoranza dell’elettorato, non sono per niente omogenee, e non è per nulla scontato che vinceranno le prossime elezioni.

Se recuperato, lo “spirito del 1994” può farci uscire dallo squallido pantano in cui siamo precipitati. E’ questa la speranza di un liberale al tempo di Monti.

L’Opinione, 28 marzo 2012

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