Impegno bipartisan prima del voto

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Riportiamo un interessante articolo scritto qualche anno fa da Mario Monti in occasione delle elezioni imminenti e pubblicato da Il Corriere della Sera

di MARIO MONTI

Da qualche mese le due coalizioni che si contenderanno la guida dell’ Italia nelle elezioni del 9 aprile hanno iniziato a mettere a fuoco le idee per i rispettivi programmi. Grazie agli stimoli del dibattito sulla stampa, le linee programmatiche si stanno facendo più nitide. Per la politica economica e finanziaria emergono anche indicazioni sulle misure che un nuovo governo, espressione dell’attuale maggioranza o invece formato dall’attuale opposizione di centrosinistra, potrebbe introdurre nei primi cento giorni. E’ auspicabile che i programmi prospettati agli elettori divengano più specifici, chiarendo non solo i benefici sperati ma anche i sacrifici necessari per conseguirli, e che su tali programmi si sviluppi un confronto serrato e maturo.

Ma forse, mentre si affinano e si affilano i «programmi dei primi cento giorni», sarebbe utile un atto comune di responsabilità, una sorta di «impegno dei cento giorni prima ». Da assumersi ora, nei prossimi giorni. Si convenga di riparare in un ormeggio sicuro, sottraendole alla tempesta elettorale, poche barche, quelle che sono ritenute indispensabili per portare l’Italia su una rotta di maggiore competitività, crescita e occupazione.

A differenza che in epoche passate, non vi sono oggi grandissime divergenze ideologiche sulle politiche economiche. Vi è certo spazio, fortunatamente, per propensioni differenti in materia di equità distributiva e di tutela dell’ambiente; ma la globalizzazione, l’appartenenza all’Unione Europea e all’euro, l’esigenza della competitività impongono un sentiero molto stretto. Un sentiero che deve valorizzare l’efficienza nell’impiego delle risorse: accrescere la concorrenza, eliminare la ruggine delle rendite, lubrificare i meccanismi dell’economia con il merito e con l’apertura a chi finora è stato escluso, non con la collusione e con la protezione dei privilegi corporativi. Certo, è legittimo e forse positivo che vi siano forze politiche con agende meno convenzionali, più ambiziose: ad esempio, modificare radicalmente il processo della globalizzazione. Purché si tengano presenti due dati della realtà: l’Italia, da sola, non può fare proprio nulla di ciò; e un’Italia poco competitiva non può né sopravvivere degnamente nel quadro internazionale che esiste, né avere l’autorevolezza per contribuire in modo significativo al suo cambiamento.

La consapevolezza del sentiero stretto è ormai abbastanza diffusa. Lo dimostra, sul piano terminologico, il fatto che, in un Paese in cui la cultura liberale non si è mai affermata molto sul piano delle idee e ancor meno nelle politiche economiche concretamente praticate, oggi quasi tutti, a destra e a sinistra, amano qualificarsi «liberali». E probabilmente sono sinceri. Lo dimostra, sul piano programmatico, la notevole coincidenza che si riscontra— a sinistra, al centro e a destra — nelle enunciazioni a favore di una maggiore concorrenza come criterio ispiratore di politiche orientate allo sviluppo.
«The competition solution » è un bel libro di Paul A. London (American Enterprise Institute, Washington, 2005) che spiega come la crescita economica degli Stati Uniti a partire dagli anni ’90 sia «il risultato di un duro impegno politico, che ha richiesto alcuni decenni, per aprire i mercati e accrescere in essi la concorrenza, più che delle politiche monetarie e fiscali alle quali va di solito la maggiore attenzione degli economisti». Ma qual è il sottotitolo del libro? «The bipartisan secret behind American prosperity ».

L’autore illustra numerosi casi in cui solo grazie al consenso bipartisan tra Repubblicani e Democratici è stato possibile contrastare monopoli e oligopoli, sostenere l’antitrust e porre fine alla fissazione di prezzi collusivi in settori chiave dell’economia. Non sarebbe possibile anche in Italia — Paese che ne ha molto più bisogno degli Stati Uniti, soprattutto nel settore dei servizi — convenire tra le forze politiche che su alcuni indirizzi e magari su qualche misura concreta esse non si daranno battaglia? Non potrebbero riconoscere, le due coalizioni, che qualunque di esse sia chiamata a governare dovrà, nell’interesse della crescita del Paese e per dare una prospettiva ai giovani, dispiacere in una certa misura alle diverse corporazioni (delle quali quasi tutti facciamo parte)? E che, perciò, ciascuna di esse si impegna: durante la campagna elettorale, a non inseguire il consenso delle varie corporazioni promettendo loro il mantenimento di tutti i loro privilegi e di tutte le loro rendite; dopo le elezioni, ad attuare quegli indirizzi e misure se andrà al governo e, se invece sarà all’opposizione, a non attaccare il governo che li attui.

L’esperienza americana, e anche quella dell’Unione Europea, mostrano che non è impossibile per i pubblici poteri prevalere sulle lobbies, nell’interesse dei cittadini-consumatori e favorendo così lo sviluppo di imprese più produttive e dell’occupazione. Ma se, come tende ad avvenire in Italia, le forze politiche temono di alienarsi le diverse categorie, allora si assiste a molta concorrenza nella politica—tra le coalizioni e spesso al loro interno—senza che si riesca ad introdurre sufficiente concorrenza nell’economia. Si osserva la debolezza dei pubblici poteri di fronte a poteri economici che possono magari apparire «poteri forti» rispetto a una politica debole. Ma che sono in genere deboli, a volte debolissimi, rispetto alle forze economiche di altri Paesi, che sono state costrette, da pubblici poteri più forti, a temprarsi in un ambiente economico più aperto e competitivo.

Non dovrebbe essere impossibile, sulla base delle riflessioni già condotte nell’una e nell’altra coalizione, individuare un piccolo numero di barche, una flottiglia per un’Italia più moderna e competitiva, da mettere al riparo dalle tempeste elettorali. Passi avanti nelle liberalizzazioni, in particolare dei servizi( da quelli finanziari ad alcuni servizi a rete, dai servizi professionali a quelli nel campo dell’università); assicurazione che verrà dato seguito concreto alle segnalazioni dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato sui provvedimenti che ostacolano la concorrenza; spedita realizzazione, con tutte le cautele in atto in altri Paesi, delle infrastrutture indispensabili affinché l’Italia non sia emarginata dalla competizione internazionale. Sono forse questi i campi strettamente essenziali. Per ognuno di essi sembra esservi un ragionevole grado di consenso su ciò che occorrerebbe fare. Non si potrà trovare la forza per farlo davvero?

Prima di concludere: «ragionevole, ma impossibile», torniamo indietro di qualche settimana. Non veniva considerato quasi impossibile che si approvasse, con il consenso della maggioranza e dell’opposizione, una nuova legge sul risparmio, che si rinnovasse il vertice della Banca d’Italia, che governo e opposizione concordassero la nomina a governatore di una personalità altamente rispettata in Italia e all’estero, che riunisce in sé il senso delle istituzioni e la cultura del mercato?

Nel suo semplice e profondo messaggio di fine anno, il presidente della Repubblica ha «rivolto a tutti l’esortazione al dialogo, al confronto leale, aperto, reciprocamente rispettoso». Forse basterebbe raccogliere quell’esortazione. E applicarla almeno a pochi temi relativamente semplici, ma vitali per il futuro dell’economia e della società italiana.

© Corriere della Sera 13 novembre 2000

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