Sicurezza e stabilità tornano ad essere le parole d’ordine dell’azione politica del Regno Hascemita

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1986

di MIRCA BRANCALEONE

In risposta alle pressioni provenienti anche dalla piazza giordana di fronte ad un palcoscenico che dal Maghreb al Medio Oriente si infiamma ogni giorno di più e ai problemi economici che da sempre attanagliano il Paese senza mai avere avuto una soluzione reale, Abdallah II si concentra su due obiettivi fondamentali: mantenere uno stretto controllo sul Paese e l’avvio della riforma della controversa e avversata legge elettorale.
Le due azioni politiche che il monarca ha posto in essere negli ultimi venti giorni non aggiungono però nulla di nuovo al panorama politico giordano.

Lo scorso primo febbraio, il Re ha sciolto il precedente governo di Samir Rifai e designato nuovo Primo Ministro Marouf al-Bakhit. Il passato di al-Bakhit, che già ha ricoperto questo ruolo per due anni dopo gli attentati del novembre 2005 contro tre grandi alberghi di Amman fino al novembre 2007, come capo della Sicurezza Nazionale ci ricollega allo scopo del mantenimento della sicurezza. Se a prima vista poteva sembrare che la Giordania stesse seguendo lo stesso percorso egiziano di respingere il proprio governo al fine di attenuare le tensioni interne, ciò che sta accadendo ad Amman è diverso: a differenza dell’Egitto, il regno Hascemita, la cui famiglia regnante è diretta discendente del Profeta Maometto, non sembra infatti correre il rischio di un cambiamento di regime.

Il 24 febbraio, il nuovo governo giordano, su richiesta del Re, ha creato un comitato responsabile che avrà il compito, nell’arco di sei mesi al massimo, di proporre riforme concrete alla legge elettorale del paese e avvierà a questo scopo colloqui con i sindacati, i partiti politici, le organizzazioni della società civile, politici indipendenti e personale dell’esercito in pensione.

La riforma della legge elettorale va invece inquadrata nel più generale contesto di riforma politica del Paese.
La Giordania per decenni ha superato tempeste politiche ed economiche attraverso l’indebolimento dell’opposizione politica, e relegando alla distribuzione di benefici e privilegi la creazione di una base coesa di supporto ed un apparato di sicurezza leale all’ordine politico esistente. Il regime è stato abile nel sostenere questa situazione capitalizzando la centralità geografica del Paese, beneficiando dell’immagine di stabilità in una regione particolarmente turbolenta ed assicurandosi un flusso di assistenza economica esterna tale da controbilanciare la mancanza di risorse e riuscire in questo modo a mantenere la stabilità politica interna. Ma in un equilibrio sempre precario.

Tuttavia non si è mai arrivati ad un vero cambiamento democratico, poiché si è trattato nella realtà di uno sforzo di riforma dall’alto dettato dalla necessità della Monarchia Hascemita di mantenere la stabilità interna minacciata da sfide esterne significative. Il risultato politico, dunque, è piuttosto limitato: i cambiamenti sostanziali promessi, infatti, non sono mai andati oltre la retorica e mentre è sempre aperto il dibattito sui problemi fondamentali del sistema politico giordano, non sono in agenda reali riforme strutturali in merito. La monarchia mantiene il monopolio del potere e le decisioni politiche più importanti tuttora sono appannaggio esclusivo del Re, della corte reale e dei servizi segreti.

L’uso di una “mano invisibile” per disegnare il risultato elettorale deriva da due preoccupazioni principali. La prima riguarda il disagio nella convivenza di due gruppi: coloro che fanno risalire la loro discendenza alla Transgiordania, l’area a est del fiume Giordano, e la popolazione di origine palestinese. Il moderno Regno di Giordania ha ospitato successive ondate di palestinesi. I giordani di origine palestinese non sono stati completamente assorbiti nella struttura del potere politico e sono generalmente esclusi dalla possibilità di ricoprire posizioni di alto rango nei servizi militari e di sicurezza, pilastri centrali del regime. Il secondo motivo è legato alla paura che una radicalizzazione, in gran parte urbana, dell’opposizione politica, scatenata attraverso la democrazia parlamentare, potrebbe portare la nazione verso un percorso politico in forte contrasto con quello sostenuto dal regime. Questo timore va ben oltre una redistribuzione delle risorse quale potrebbe scaturire da ogni cambiamento di potere: la classe urbana professionale ha sempre manifestato un interesse molto attivo nelle questioni riguardanti l’ideologia (che sia il nazionalismo arabo, l’islamismo, la democrazia o in precedenza il marxismo) e la politica estera, rispetto alla popolazione rurale (o tribale). Le organizzazioni di opposizione, islamista e di sinistra, che insieme dominano i rami esecutivi dei sindacati professionali, sono sempre state particolarmente dure in merito alle posizioni assunte dal regime in merito ai conflitti ai suoi confini, legando la loro politica ad una vigorosa retorica ideologica. Vista la predominanza della popolazione di origine palestinese nei centri urbani, il regime è sempre particolarmente preoccupato per una possibile combinazione delle due, che il radicalismo politico delle città possa assumere una pronunciata tonalità palestinese e islamista, accentuando così la minaccia proveniente dalla opposizione urbana.
I meccanismi dell’ingegneria elettorale giordana sono principalmente due e comportano una manipolazione attenta sia delle regole sia dei confini propriamente geografici del voto.
Il primo è la sotto – rappresentazione dei centri urbani nelle liste elettorali.

Tra le richieste che il Fronte di Azione Islamica, braccio politico dei Frateli Musulmani giordani, avanza da sempre, pur nella consapevolezza che sarebbe impossibile tornare al sistema di voto elettorale del 1989 che tanto aveva avvantaggiato il movimento islamico, vi è quella di determinare i distretti elettorali in base al numero di abitanti, in modo da garantire un peso uguale al voto di ciascun elettore ovunque esso risieda. Una ridefinizione dei collegi, nel senso di una maggiore proporzionalità, porrebbe infatti un termine alla sotto – rappresentazione delle aree urbane del Regno, dove gli islamisti possono contare sul maggiore sostegno. In assoluto contrasto, la nuova legge elettorale, la Temporary Election Law n° 34 per l’anno 2001, che negli ultimi dieci anni ha subito dei cambiamenti ma sempre di facciata, attribuisce ai distretti elettorali di Amman e Zarqa, i maggiori centri urbani del Regno Hascemita, che rappresentano più della metà della popolazione totale ma dove è più alta la concentrazione di giordani di origine palestinese, solo il 32 % dei seggi (33 sui 104 assegnati). Alle città di Mafraq, Karak, Tafileh e Ma’an, che insieme rappresentano il 12 % della popolazione ma che sono storicamente le aree di maggiore sostegno al regime, sono assegnati 22 seggi (pari al 21 %). È chiaro, dunque, che aumentando il numero dei seggi in tutte le circoscrizioni, la legge elettorale, ancora una volta, è stata accuratamente redatta per favorire una composizione parlamentare favorevole al regime.
Il secondo è il sistema di voto stesso, il one – person – one – vote.

Nonostante tale sistema elettorale non sia intrinsecamente ingiusto e non limiti la libertà dei cittadini di scegliere il proprio candidato, è ovvio che inevitabilmente privilegi i legami tribali piuttosto che l’affiliazione politica o ideologica. Il principio one – person – one – vote, introdotto nel 1993 e tuttora in vigore, è stato violentemente criticato dai gruppi di opposizione ed il motivo principale per cui l’opposizione islamista ha boicottato le elezioni parlamentari del 1997 e anche l’appuntamento elettorale svoltosi lo scorso anno.

Per tutti questi motivi, la riforma alla legge elettorale per cui la commissione è stata formata e di cui il primo ministro Marouf al-Bakhit sarà a capo, non subirà nessun cambiamento significativo. Quest’ultima mossa va vista, infatti, alla luce del prisma del mantenimento dello status quo politico e frutto di una scelta strategica volontaria del regime, e in particolare di Abdallah II, per assicurare la continuità e la stabilità del sistema monarchico e della distribuzione del potere esistente.

Tre gli obiettivi primari di questa strategia:
1.l’attenuazione delle pressioni popolari attraverso il gioco democratico

2.la creazione di una istituzione – la Camera dei Deputati – con la quale il regime può condividere la responsabilità delle scelte politiche da perseguire, alcune impopolari

3.l’inclusione, nella propria base di sostegno, di tutte le forze politiche pronte a collaborare, escludendone altre. Quest’ultimo obiettivo, diretto in primo luogo ai Fratelli Musulmani in quanto unica forza a disporre di un consistente seguito popolare, implica l’esclusione dal campo politico legittimo di quella parte dell’Associazione più intransigente nei confronti del potere.

Nessuna reale intenzione, dunque, di trasferire il potere politico dalla monarchia a istituzioni elette. La crescente pressione regionale costituisce ancora una volta la giustificazione per coloro, Re in testa, che preferiscono uno stato di sicurezza più rigido piuttosto che un’apertura, anche graduale, del sistema politico giordano.

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