di STEFANO PIETROSANTI
Negli ultimi giorni, una ridda di dichiarazioni incrociate tra Lussemburgo, Roma, Bruxelles e Berlino ha portato sotto i pubblici riflettori una questione di cui – in Europa – si sarebbe dovuto pubblicamente parlare ben prima. La possibilità di strumenti di debito federale per l’Unione Europea.
Gli eurobond – lanciati in diverse salse ora da Tremonti e Junker, ora da Monti e altri- hanno finalmente smosso l’animo dei centri di potere nazionali, sollevando per l’ennesima volta la coperta che pare nascondere la prospettiva dello scontro tra volontà di conservazione dei poteri delle Nazioni e necessità di aggregazione di questi, per la preservazione del ruolo del Vecchio Continente, nell’embrione di Stato Europeo. Ma chi sono i campioni di questo scontro? Da una parte possiamo sintetizzare i “paladini” delle Nazioni nella figura della Merkel: dura, coerente e a mio parere miope nell’irremovibile contrarietà a colorare le Istituzioni dell’Unione delle pur minime sfumature statali; dall’altra, qualche tecnico alle strette con alcune sponde politiche, oggi anche di alto livello. Da una parte un chiaro interesse, una volontà forte e allineata col ruolo del soggetto che la incarna; dall’altra un aggregato la cui voce man mano si chiarifica, ma che si trova nella scomoda posizione di avere il piede in due scarpe. Vorrebbe essere paladino dell’Unione-stato, ma ha come prima fonte di legittimità politica la comunità nazionale di provenienza. Vorrebbe essere paladino dell’Europa, rischia di ritrovarsi disegnato sullo scudo un fuorviante puzzle di Nazioni.
La forte presa di posizione di un uomo come Tremonti è un passo avanti enorme rispetto alla situazione di appena qualche settimana fa, nessuno può negarlo. Ma è anche vero che un uomo come Tremonti è l’archetipo di ciò che scrivevo poco sopra: un uomo facilmente già sazio di esperienze, con la punta del piede a tastare la scarpa Europa volendo mantenere il tallone ben saldo nel vecchio scarpone (stivale?) nazionale. Come è vero che pochi sono i giovani politici disposti a giocarsi la faccia e la carriera sulla speranza dell’Europa, da europei che cerchino la loro legittimità politica nella dimensione europea.
Cosa c’entra con gli eurobond? C’entra pienamente.
Se si propone “eurobond” bisogna dire chiaramente che si sta proponendo una riduzione del ruolo del debito statale. Si immetterebbero sul mercato titoli a credibilità maggiore e a liquidità più certa di qualsiasi titolo di debito nazionale. Se l’immissione dei titoli europei venisse gestita male, all’immissione di simili strumenti sul mercato si rischierebbe un aumento nel costo di rifinanziamento dei debiti nazionali, poiché esisterebbe, su un simile mercato, una credibile e solida alternativa a questi. Non credo sia un rischio che uomini legati alla vecchia sfera nazionale possano assumersi in pieno. La vera unificazione, e quindi anche l’unificazione economica del continente, è improbabile venga fatta fino in fondo, con piena disposizione al rischio, all’innovazione, da chi ha comunque una facile e sicura scappatoia nel suo ambiente politico nazionale.
In ogni caso, ben venga qualunque presa di posizione in favore di una maggiore unità, nella speranza che si capisca la dimensione funzionale della sfera economica rispetto all’unione politica. Il vero motivo di questo scritto è esattamente la paura che – anche riuscissero in tutto quello che sperano – signori come Tremonti e Juncker non trovino il coraggio di fondare un passo avanti dell’integrazione (come sarebbe l’emissione di eurobond) nel terreno della scelta politica, ma si limitino a legare qualche debole radice alla pietra della convenienza tecnica. A questa pietra, simili uomini già legarono l’euro, dando l’assurda impressione che dietro di esso non ci fosse un percorso storico, ma un puro slancio verticistico.
Qui sta, credo, una delle grandi questioni che affrontiamo oggi, ossia il far fronte all’autoinganno che coinvolge soprattutto i membri delle vecchie generazioni in posizioni di potere, ma che in generale è l’autoinganno di tutti coloro che sono o pavidi, o non particolarmente fedeli a un sistema liberale e democratico. Il pensare che non debba più esserci un ragionamento sulle distinzioni, sui limiti delle posizioni, un ragionamento sugli orizzonti (destra e sinistra non vuol dire niente, le distinzioni in politica non vogliono dire nulla, ci dividiamo solo tra ragionevoli e irragionevoli, noi ci limitiamo a “fare” le cose etc); il pensare che l’amministrazione della cosa pubblica non nasca dall’istituzionalizzazione dello scontro tra differenti visioni in un quadro costituzionale comune, ma dalla semplice applicazione di soluzioni prodotte a livello tecnico da una classe politica che le presenta sempre come le uniche possibili e che appena ottiene qualcosa, sembra non vedere l’ora di presentarlo non come una conquista, ma come un dato di fatto monolitico che è “fuori discussione” che “è un punto di non ritorno” e così via proseguendo nella fiera del non senso, dato che i “punti di non ritorno” sono i più mitici UFO della storia politica.
Questo anche perché, a livello economico, è impossibile negare l’esistenza di una “mano visibile” della politica che, pur nel caso si limitasse solamente a definire e pulire il campo d’azione della mano invisibile, comunque esisterebbe perché esiste una comunità da cui si genera l’economia. Proprio perché la mano invisibile dell’economia non abbia a subire danno da quella visibile di cui sopra, è bene che questa sia impegnata nel suo compito: la progressiva costruzione di nuovi progetti di vita comune, invece che presa da scatti improbabili, come posseduta da personalità multiple che a volte si esprimono (come d’altronde evidenzia la recente lettera di richiamo della Bdi alla Merkel) in gesti di dubbio gusto.