Non ci sembra facile, ci sembra bellissimo

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Non-ci-sembra-facile-ci-sembra-bellissimo

È sera. Il piazzale della caserma è illuminato da un timido lampione che attraversa le fronde appassite di un oleandro. All’orizzonte, una Roma annoiata e grigia.
Iacovelli osserva silenzioso i suoi compagni di viaggio, seduti ai piedi di un grosso pino, testimone raccolto e quieto di storie impastate di granelli di sabbia, polvere e fatica.
Si respira passione e tormento.
Celebrano così la loro essenza. D’altronde sono carabinieri, mica gente normale.
Immersi tra mille pensieri, galleggiano sospesi nel buio di un mare silenzioso che si estende all’infinito. Nessuna sensazione, nessuna emozione. Sono lì, immobili e silenti, a contemplare il nulla.
Il trillo di un telefono scuote le loro coscienze.
Risponde Antonio.
È proprio allora che la loro mente si ridesta. Iacovelli si concentra, riesce a distinguere il significato di certe parole.
Sembrano raggiungerlo da un qualche luogo profondo, situato appena dietro di sé. In una maniera impossibile a definirsi, pare che quelle parole facciano parte di lui, di loro, come se ne richiamassero delle altre, riconoscendole e attivandole.
È come osservare delle bolle di sapone fluttuare delicate verso uno specchio, aderire alle proprie immagini riflesse, deformarsi per un attimo e poi svanire all’improvviso.
Ogni singolo vocabolo arriva con lentezza, lettera dopo lettera, sillaba dopo sillaba, richiamando alla consapevolezza e al primo passo da compiere.
Il tempo scorre lento, slegandosi dalle leggi della fisica. Le frasi si allungano e ognuna di loro giunge solenne ai loro cuori.
È un rito incontrollabile che si compie ogni maledettissima volta: il tempo si dilata, all’infinito, l’eternità scorre via con la lentezza ieratica dei secoli.
Al telefono c’è Massimiliano, figlio di un ristoratore di Castel Gandolfo. Quella mattina il padre è stato portato via con la forza, sotto la minaccia di una calibro 21.
Racconta di ore di angoscia, dell’ultima chiamata con la richiesta di riscatto. Tremila euro in cambio del rilascio del padre. Che dovrà avvenire di lì a un’ora.
Iacovelli guarda i suoi, hanno meno di un’ora a disposizione.
Sono le 23.
Lo scambio è fissato per la mezzanotte, in un parcheggio poco distante.
Intanto arrivano i familiari, con i soldi del riscatto infradiciati da lacrime e sudore.
Iacovelli entra nei dettagli.
Poi, con auto separate, ognuno si dirige verso dove sa.
Iacovelli e Elpidio seguono i familiari a distanza.
Antonio e Pasquale si appostano nei dintorni, perché “occorre garantire un’adeguata cornice di sicurezza”.
È il momento.
I cuori battono veloci.
Uno dei figli consegna i soldi e si allontana velocemente.
Iacovelli e Elpidio entrano nel parcheggio.
Scendono dall’auto e corrono verso l’uomo che, colto di sorpresa, afferra una pistola e gliela punta addosso.
È un fermo immagine che può stroncarti o spingerti ad agire.
E loro agiscono.
In un impeto di forza, incastrano l’uomo con le braccia, lo disarmano. La pistola è carica.
Arrivano gli altri due e liberano l’ostaggio.
Dopo istanti interminabili, il tempo fatica a ritrovare se stesso.
L’orologio sembra fermo, congelato in un solo istante, come un granello di sabbia sospeso in una clessidra.
Quell’attimo, durato interi secondi, è passato.
Lentamente si ritorna a galleggiare nell’infinito di quel mare, finché il tempo non torna a scorrere a ritroso, liberandosi della visione di sé per potersi ripensare altrove.
I granelli tornano su nella clessidra, uno ad uno.
Sembra quasi di essere sospesi in quella condizione da un’eternità.
Relatività.
Accade sempre così a certe persone: la mente abbandona quegli istanti per riavvolgere all’indietro il proprio nastro, così i suoi anni e la sua vita. Non prova nulla, tranne quella strana sensazione di movimento all’indietro, quel fluttuare che diviene via via sempre più frenetico.
Mentre i giorni, le settimane, i mesi, gli anni, il tempo di tutta la sua esistenza scorrono fino all’ultimo ricordo.
Indietro.
Un’operazione lampo, che non ha lasciato vittime né macerie, se non il meritato carcere per un bandito spavaldo, già noto alle cronache giudiziarie.
Dalle indagini risulterà che il fine del sequestro era quello di estorcere all’imprenditore l’ennesima rata di un debito di 40 mila euro.
Somma lievitata negli anni, con interessi usurari, fino a più che raddoppiare.
Bel colpo, ma a quale costo?
Alto.
Perché fare il carabiniere così è cosa seria.
Occorre passione, determinazione e una buona dose di coraggio.
Soprattutto davanti a una pistola puntata in faccia.
Occorre avere anima, soprattutto.
È un po’ come quando all’improvviso un suono martellante ti desta bruscamente.
E tu, frastornato, cerchi l’origine di quel terribile rumore.
Lotti col cuscino, ti togli di dosso la coperta e poggi i piedi sul pavimento freddo.
La stanza è illuminata dalla luce del sole che penetra dalla finestra, tagliata dalle tapparelle abbassate.
È la sveglia o, forse, il telefono di Antonio, quel dannato affare dal rumore così infernale.
Lo puoi spegnere con un gesto irritato e rimanere seduto sul letto, ancora mezzo assonnato.
Oppure tornare ad osservarlo con più attenzione.
Certo, è un vecchio modello, di quelli che non si usano più da almeno una decina d’anni, eppure è così bello.
Allora ti stropicci gli occhi per liberarli dal sonno e torni a guardarti attorno, sempre più in preda alla confusione.
Sei in un letto a una piazza sola, isolata, posizionato di lato contro la parete di una stanza piccola e modesta.
Ma dov’è questo letto?
È forse nella stanza di un albergo?
Non ricordi di essere andato in qualche hotel la sera prima!
In effetti la totalità degli eventi dei giorni precedenti sembra come nascosta dietro una cortina di nebbia, come quella che avvolge le cime delle montagne.
E allora torni a guardare la stanza, in cerca di qualche indizio.
Noti la presenza di una piccola scrivania, su cui hai ammucchiato libri e quaderni che nessuno leggerà mai.
Ti accorgi che sui muri sono appesi dei poster.
Quindi no, non è un albergo.
È il posto più bello e infame del mondo.
Quello che ti lusinga e ti risucchia per poi sputarti via quando perdi di sapidità.
Allora rovesci le coperte, salti giù.
C’è un calendario appeso alla parete e quella faccia riflessa nello specchio con l’espressione stupita di un giovanotto poco più che adolescente.
I capelli portati più corti rispetto alla pettinatura che usava negli anni ottanta, una volta folti e di un lucido castano scuro, e privi di quel leggero tocco brizzolato che da qualche anno ha cominciato a schiarirti le tempie e i lati della testa. Intorno agli occhi, rughe e disincanto.
È la conferma che cercavi.
Nella vita si può scegliere tra due strade.
Una si chiama paura.
L’altra, speranza.
La prima, ricoperta di rimpianti.
La seconda, lastricata di bellezza.

Questa storia è liberamente ispirata a un fatto di cronaca realmente accaduto. Si tratta del sequestro Savo, avvenuto a Castel Gandolfo (RM) il 15 maggio 2015, a seguito del quale i carabinieri Alessandro Iacovelli, Antonio Carulli, Pasquale Gallitiello e Elpidio Sorbo arrestarono Alessio Martinelli, pregiudicato di Nettuno (RM), poi condannato a pena esemplare.

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