La libertà religiosa in tempi di pandemia: difesa dalla Corte Suprema Usa e calpestata in Europa (e in Italia)

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La Corte Suprema Usa ha stabilito che il diritto di partecipare fisicamente alle funzioni religiose non può essere limitato in misura maggiore di quello di fare shopping, affermando che il servizio religioso è da considerarsi altrettanto “essenziale” dei servizi offerti dai supermercati dal punto di vista delle libertà individuali. Questo perché i diritti individuali nei Paesi anglosassoni sono tutelati di per sé e costituiscono dei limiti alle esigenze di interesse generale perseguite dal potere politico; nei Paesi europei continentali invece sono tutelati solo in quanto in accordo con l’interesse generale e finiscono per essere una concessione da parte del potere politico che a suo (di fatto) insindacabile giudizio può decidere quali cerimonie consentire e quali vietare

In tutti i dibattiti sui provvedimenti pubblici in tema di epidemia di Covid-19 è stata giustamente messa in luce la carenza (particolarmente grave in Italia) di procedure democratiche alla base di molte delle misure prese dagli organi del potere esecutivo. Si tratta di osservazioni sacrosante: quando si dice che un Dpcm non può limitare stabilmente (dato che ormai la situazione si protrae da mesi si può usare questo avverbio) le libertà individuali fondamentali, si dice una cosa vera che, tenendo conto ancor più che della lettera dello spirito della Costituzione, dovrebbe essere fatta propria non solo da chi emana tali provvedimenti (presidente del Consiglio) ma anche da coloro che dovrebbero intervenire (Parlamento, presidente della Repubblica) per fare in modo che gli stessi siano adottati con legge approvata dalle Camere. In queste brevi osservazioni vorrei però mettere per un attimo da parte il tema delle procedure democratiche (salvo tornarvi alla fine) per parlare dell’importanza del ruolo fondamentale che svolgono i limiti istituzionali rispetto al potere degli organi politici (esecutivi, ma anche legislativi) di intaccare le libertà individuali anche nei casi di emergenza quale quella attuale, limiti che sono molto diversi tra ordinamenti anglosassoni ed europei continentali.

Per molti aspetti, anche nella gestione dell’emergenza sanitaria, tutto il mondo è paese. Pure negli Stati Uniti d’America esistono le zone rosse, arancioni, gialle ecc., anche se essendo gli Usa uno stato federale le decisioni sono diverse da stato a stato e sono prese dai governatori locali, peraltro, come da noi, spesso senza grandi procedure democratiche alle loro spalle tramite “ordini dell’esecutivo”, molto simili nel contenuto e nel loro generico riferimento alle leggi in tema di emergenza sanitaria ai nostri Dpcm. Tra i più attivi nel restringere le libertà individuali si sono distinti due dei più importanti stati americani, entrambi a guida democratica, New York e la California. Le analogie con l’Italia e con l’Europa continentale però finiscono qui. Questi provvedimenti infatti sono stati fatti oggetto di una serie di contestazioni di fronte ai giudici federali (i singoli stati non possono “restringere” i diritti dei cittadini riconosciuti dal diritto federale in forza del XIV emendamento) da parte dei soggetti interessati, in particolare da parte delle organizzazioni religiose (le “denominations”) che hanno contestato i limiti al numero dei fedeli ammessi alle cerimonie religiose (spesso molto ridotto, addirittura 10 persone in edifici di culto con capienza di 1000 posti), a fronte ad esempio all’assenza di limiti numerici per la frequentazione dei negozi e dei supermercati (soggetti solo alle regole sul distanziamento personale). Come si sa, e checché se ne dica, gli americani sono un popolo profondamente religioso e la religione per loro è essenzialmente fonte di libertà, e non di doveri più o meno imposti come per molti europei continentali (chi conosce, ad esempio, le differenze tra l’illuminismo francese tendenzialmente anticlericale, se non ateo, e quello anglosassone portato avanti da credenti, e non di rado da soggetti impegnati nelle chiese cristiane, non potrà che confermare la cosa), per cui l’accettazione “passiva” della limitazione delle libertà di culto diffusa in molti Paesi europei (compreso il nostro) per loro sarebbe intollerabile.

Di fronte ai giudici federali inferiori (distrettuali e d’appello) le cause hanno avuto esito vario e nella maggior parte dei casi inizialmente sfavorevole per i ricorrenti, almeno per quanto riguarda la richiesta (di tipo “cautelare” si direbbe tecnicamente) di sospendere l’efficacia dei provvedimenti dei governatori in attesa della decisione finale sul merito della controversia. Peraltro alcuni governatori nel frattempo hanno modificato in senso permissivo il colore delle zone interessate, consentendo il culto “in presenza” in termini più ampi e in sostanza corrispondenti a quelli richiesti dalle organizzazioni religiose. Nonostante queste modifiche, le richieste degli interessati sono giunte sino alla Corte Suprema che, sempre in attesa delle decisioni definitive da parte dei giudici inferiori, ha emanato una serie di decisioni che hanno stabilito che il diritto di partecipare fisicamente alle funzioni religiose non può essere limitato in misura maggiore di quello di fare shopping nei supermercati. Nella principale pronuncia in materia della Corte, nella causa che contrappone la Diocesi cattolica di Brooklyn al governatore dello stato di New York A. Cuomo (la causa Roman Catholic Diocese of Brooklyn, New York v. Andrew M. Cuomo, Governor of New York : 592 U. S. ____ 2020), la Corte in data 25 novembre ha emanato un’ingiunzione al rappresentante del potere politico di astenersi dall’adottare provvedimenti simili a quelli contestati, in quanto ritenuti discriminatori verso i fedeli delle organizzazioni ricorrenti e quindi contrari al I emendamento sulla libertà religiosa. Solo per fare un altro esempio, in data 3 dicembre la Corte ha emesso un provvedimento analogo nei confronti del governatore della California G. Newsom a favore della organizzazione evangelica Harvest Rock Church di Pasadena, richiamandosi alla decisione precedente.

Nulla di simile è accaduto in Italia né in Europa, ma perché? La risposta, ovviamente a modesto avviso di chi scrive, è che il rapporto tra diritto e politica è profondamente diverso nei Paesi anglosassoni (e in particolare negli Stati uniti) e in quelli europei continentali. Nei primi, diritto e politica sono separati e contrapposti poiché si occupano di cose diverse: la politica agisce dal punto di vista degli interessi generali, mentre il diritto parte dal punto di vista dei singoli cittadini; nei secondi invece diritto e politica sono complementari tra loro, dato che entrambi si adoperano a realizzare un equilibrio tra interesse generale e diritti individuali, solo che la politica lo fa guardando ai risultati da raggiungere, mentre il diritto lo fa in base alle regole da seguire, e anche quando i giudici (per quanto indipendenti nel loro giudizio, cosa che peraltro non sempre accade) sottopongono a giudizio le decisioni politiche per verificarne la correttezza, lo fanno da un punto di vista simile a quello di coloro che le hanno adottate, mirato alla conciliazione tra diritti individuali e interessi generali. In sostanza, i diritti individuali negli Stati uniti, e in genere nei Paesi anglosassoni, sono tutelati di per sé e costituiscono dei limiti (ovviamente non assoluti, ma valutabili tenendo conto delle circostanze) alle esigenze di interesse generale perseguite dal potere politico; nei Paesi europei continentali invece essi sono tutelati solo in quanto sono in accordo con l’interesse generale, ed il potere politico è chiamato ad operare una ragionevole (cioè astrattamente non illogica) mediazione tra esigenze collettive e libertà individuali. Una distinzione molto sottile, si dirà, che molto spesso non viene nemmeno avvertita (in tutti gli ordinamenti occidentali esistono giudici che valutano le decisioni degli organi politici), ma ciò nondimeno molto profonda che si rivela in tutta la sua chiarezza e in tutta la sua importanza proprio nelle situazioni di emergenza.

In questo senso il caso della Diocesi di Brooklyn è emblematico: il tema del contendere era la definizione di “servizio essenziale” (anche qui tutto il mondo è paese) riconosciuto alle vendite nei supermercati e non alle funzioni religiose: qualunque giudice italiano (e qualche pronuncia in questo senso vi è già stata, anche se non riferita alla materia religiosa), ma anche qualunque giudice europeo continentale, si sarebbe accontentato di verificare la ragionevolezza in sé dei provvedimenti degli organi governativi, cioè il fatto che, dal punto di vista del potere politico la decisione, per quanto opinabile, non fosse illogica a priori. La Corte Suprema americana è invece andata oltre, secondo i criteri dello “scrutinio rigoroso” sempre utilizzati quando è in questione un diritto fondamentale quale quello della libertà di culto ed ha affermato che il servizio religioso, in assenza di controindicazioni specifiche dal punto di vista sanitario (controindicazioni sanitarie di cui invece si sarebbe dovuto tener conto in base alle opinioni dissenzienti, presenti come da tradizione nella stessa sentenza) è da considerarsi altrettanto essenziale dei servizi offerti dai supermercati perché ritenuto tale dal punto di vista delle libertà individuali. Lo stesso fatto che i provvedimenti dei governatori fossero nel frattempo di fatto divenuti inefficaci a seguito del mutamento di colore delle zone non ha impedito alla Corte, nonostante l’opinione dissenziente sul punto del suo presidente J. Roberts, di dichiarare comunque, in via per così dire “preventiva”, rispetto a futuri provvedimenti analoghi il diritto dei fedeli a non essere penalizzati rispetto ai clienti dei supermercati.

Il risultato è una differenza fondamentale riguardo ad uno dei diritti più importanti riconosciuti negli stati moderni, la libertà di religione: mentre gli americani, nonostante la pandemia, sono legittimati a praticarla liberamente sia pure entro uno spazio limitato, ma protetto rispetto alle decisioni discrezionali del potere politico, da noi gli stessi diritti sono oggetto di concessione da parte del potere politico che a suo (di fatto) insindacabile giudizio può decidere quali cerimonie consentire e quali vietare, e la più importante tutela pratica concessa ai singoli sembra essere quella tipica della cultura italiana rappresentata dalla applicazione “lassista” e basata sul principio del “chiudere un occhio” da parte dei soggetti addetti ai controlli. Peraltro, questa diversità non dipende dalle decisioni dei politici attuali, ma è il frutto di un lungo percorso storico che, partendo dalla comune origine di tutti gli stati occidentali dalla monarchia medievale ha imboccato strade diverse, quella della monarchia a potere limitato nei Paesi anglosassoni e quella della monarchia a potere assoluto nei Paesi europei continentali; una distinzione culturale di lungo periodo che è sopravvissuta anche dopo la democratizzazione degli stati nell’età contemporanea. Una diversità strutturale, che se è vero quanto appena detto non può essere superata facilmente e che, e qui torniamo al tema delle procedure democratiche, dovrebbe rendere i governi europei, compreso il nostro, molto più cauti nell’adottare certi provvedimenti e più disponibili ad accettare di sottoporre le proprie scelte alle procedure parlamentari. In uno stato quale quello americano, basato da secoli sulla cultura del potere limitato, le scelte degli organi politici anche se non perfettamente democratiche possono più facilmente essere frenate nei loro eccessi dalle decisioni dei giudici; negli stati eredi della cultura del potere assoluto ciò è molto più difficile, il che rende decisivi il rispetto e il rafforzamento delle procedure parlamentari che devono stare alla base di scelte tanto importanti dal punto di vista del diritto generale alla salute, ma altrettanto fondamentali per il rispetto della libertà individuale, un diritto ugualmente prezioso.

Di Fabrizio Borasi in ATLANTICO QUOTIDIANO QUI

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