Edward Hopper, la mostra dei record

di ELISA PALMIERI

Dopo aver conquistato il pubblico di Milano, attirando nelle sale del Palazzo Reale oltre 180 mila visitatori, la mostra “Edward Hopper”, la prima grande rassegna in Italia dedicata al più famoso artista americano del XX secolo, è visibile presso il Museo Fondazione Roma fino al 13 giugno e in due mesi ha fatto già registrare una presenza media di duemila visitatori al giorno.

Considerato il caposcuola del Realismo americano, Hopper (1882-1967), il pittore della solitudine, dell’a lienazione e dello smarrimento, racconta la vita quotidiana della middle class, fotografa momenti intimi e di silenzio, sentimenti di attesa, soffermandosi lì dove non ci sono parole. Nei suo dipinti dall’atmosfera rarefatta, che colpiscono per il taglio cinematografico, spicca l’importanza dell’elemento architettonico, che appare negli scorci inediti o nelle prospettive particolari, spunto di ricerca continuo per l’artista. La mostra nella capitale sottolinea fortemente questa valenza, mettendo in risalto l’importanza dell’elemento architettonico anche attraverso la ricostruzione degli spazi.

Non a caso, il primo impatto entrando nel museo è quello di sorpresa, perché lo spettatore incontra nella prima sala una ricostruzione scenografica ispirata al dipinto Nighthawks, ambientato in un locale notturno dalle luci soffuse. L’invito è, dunque, quello di entrare in scena, varcare le soglie dell’immaginazione per immergersi totalmente nelle atmosfere create da Hopper. Ma l’allestimento non è l’unico fattore d’interesse della mostra romana, poiché questa vanta, oltre alle 160 opere esposte a Milano, tra cui oli, acquerelli e disegni provenienti da prestigiosi musei statunitensi, in particolare il Whitney Museum of American Art, altri capolavori dell’artista, tra cui the Sheridan Theatre(1937), New York Interior (1921 circa), Seven A. M (1948), South Carolina Morning (1955).

Artista della lentezza, Hopper raggiunge la maturazione artistica attorno ai quarant’anni: la mostra segue l’evoluzione creativa in un percorso articolato in sette tappe, che si sviluppa a partire dalla formazione a New York fino agli ultimi capolavori. 

La prima sezione comprende diversi autoritratti, tra cui il Selfportraitdel 1925- 1930, non visibile nella sede del Palazzo Reale, estremamente affascinanti, poiché presentano l’artista su uno sfondo scuro, che sembra risentire dell’influenza dei primi maestri newyorkesi, in particolare di William Merritt Chase, con la sua adorazione per Velasquez e Manet. Le tinte scure tendono a scomparire o, piuttosto, a lasciare il posto alla luminosità e a pennellate più abbozzate, quando l’artista si reca a Parigi, dove soggiorna in tre momenti, nel 1906, nel 1909 e nel 1910. Hopper adesso brama la luce, e la insegue, traendo ispirazione da Degas e Manet, mentre mostra poco interesse verso le esposizioni di Cézanne e Picasso, che si tenevano in questo periodo. Il pittore percorre la città, dipingendo gallerie di personaggi che sembrano quasi caricature o scrutando ogni interno, scala, i ponti lungo la Senna o la chiusa di un canale, fino al Louvre, che rappresenta in una visione dal basso.

Se Parigi ha su questo artista un’influenza determinante, non si può dire diversamente di un’altra esperienza che incide fortemente sulla produzione futura, agli occhi di Hopper meno gradevole perché dettata meramente da esigenze di sopravvivenza: dal 1906 al 1925 lavora come illustratore pubblicitario, per iniziare, nel 1915, un’attività di incisore che lo porterà a distinguersi prima ancora di essere noto come pittore. Molto abile nel definire i contrasti di luci, Hopper dà vita a incisioni ispirate ai grandi maestri fiamminghi, Rembrandt al di sopra di tutti, dove le ombre si allungano acquistando profondità nelle tante scene notturne, di opere come Notte nel parco, Ombre nella notte, Un angolo.

Per la prima volta, sono esposti alcuni disegni preparatori e la copiosa opera grafica dell’artista viene messa a confronto con alcune delle opere più note, quali Summer interior (1909), Pennsylvania Coal Town(1947), Second Story Sunlight (1960), A Woman in the Sun (1961). Hopper teneva sempre con sé un taccuino su cui eseguiva studi a matita, ma lavorava anche su fogli più grandi, con una conté crayon che permetteva un piacevole tocco morbido e sfumato. Questi disegni costituiscono un’importante chiave di lettura per la comprensione della sua creatività, in quanto mostrano il retroscena di alcuni noti dipinti,  in cui si avverte una tendenza all’astrazione e alla sospensione del tempo, così come alla memoria e degli spazi. Lo studio per Morning sun, del 1952, ad esempio, rappresenta una figura femminile seduta davanti ad una finestra, così come descritta nel quadro definitivo, ma adorna di mille osservazioni riportate a matita, con indicazioni su dove sottolineare le ombre scure o dove dare più luce, fino a dettagli estremamente minuziosi, che rivelano l’esplorazione del soggetto di quest’artista che affermava: «Tutto quello che avrei sempre voluto era dipingere la luce del sole su una panchina di una casa».

Promossa dalla Fondazione Roma, cui si deve l’impulso iniziale alla realizzazione dell’evento, grazie all’iniziativa del Presidente Emmanuele Francesco Maria Emanuele, la mostra è realizzata in collaborazione con il Comune di Milano – Cultura, il Whitney Museum of American Art di New York e la Fondation de l’Hermitage di Losanna; coprodotta e organizzata da Arthemisia Group, proseguirà alla Fondation de l’Hermitage di Losanna, dal 25 giugno al 17 ottobre 2010.

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