Il passo indietro dell’Italia: il Partito democratico inciampa sui diritti dei gay

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di Claudia Moschi

“Farsi bacchettare dall’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite è un po’ come farsi dare lezioni di morale dal nostro Presidente del Consiglio”. Questa è solo una delle tante battute che circolano nella blogosfera e nei social network italiani che in queste ultime settimane stanno dando il meglio di sé: vetriolo profuso generosamente senza risparmiare nessuno e il bersaglio preferito è diventato il frantumato Partito democratico, come dire, per interposta persona. Se il protagonista indiscusso della satira italiana (con una buona partecipazione della stampa estera) è il Premier Berlusconi il fallout radiattivo investe spietatamente gli avversari di Popolo della libertà e Lega Nord lasciando poche speranze a quanti attendevano l’emergere di una valida alternativa: in un periodo in cui la maggioranza ha servito un assist dopo l’altro all’opposizione questa si è giocata tutte le possibilità di goal, a porta vuota per giunta. Ci si può chiedere dove fossero i 22 deputati del Pd al momento del voto per l’approvazione del provvedimento che conteneva la norma sullo scudo fiscale, ma sarebbe inutile: le polemiche sui parlamentari assenteisti si prolungano da diverse legislature e in settimana la questione è tornata alla ribalta su quotidiani e telegiornali.

Si potrebbe parlare della completa mancanza di contenuti nelle dichiarazioni dei candidati alla segreteria del Partito o dell’incapacità di andare oltre a controbattute degne delle scuole materne, ma anche questa è roba vecchia. Si sa che la propaganda del maggior partito di opposizione si basa prevalentemente sulla critica di una singola persona che, per quanto condivisibile, dopo un po’ stanca e lascia senza niente in mano, al massimo riempie una piazza per un pomeriggio. Parlare dell’attività del Partito democratico, insomma, lascia il tempo che trova perché non si tratta di un’organizzazione di massa ma di una frittata malriuscita in cui le componenti della ricetta non si sono amalgamate, gli ingredienti scappano da tutte le parti e fanno quello che vogliono. Non ci sono regole e le poche linee di principio vengono ignorate nei momenti più importanti per seguire convinzioni personali. Ecco allora che quando la Camera dei Deputati si riunisce per votare un disegno di legge contro l’omofobia redatto da una deputata del Pd, Paola Concia, la frittata implode. La proposta prevedeva l’inserimento delle aggravanti per i reati commessi con “finalità inerenti all’orientamento o alla discriminazione sessuale della persona offesa dal reato”, un passo necessario e urgente dopo i numerosi episodi di violenza contro i gay che hanno costellato gli ultimi mesi eppure non si è riusciti a farlo quel passo. I voti a favore sono stati 285 e 222 quelli contrari ma tra questi quello che ha pesato più di tutti appartiene all’onorevole Paola Binetti perché ha riaperto una vecchia ferita e riportato in auge il problema dell’organizzazione interna del Pd che, recidivo, continua a spaccarsi: espellerla o meno? È vero che il Pd ha vocazione pluralista ma diventa sempre più simile ad una Torre di Babele in cui ognuno parla per sé e nessuno si capisce.

In un Paese che ha portato avanti con tanta caparbietà la moratoria contro la pena di morte diventa paradossale non essere riusciti ad approvare una legge contro l’omofobia. L’Onu l’ha definito un “passo indietro” in merito alla tutela dei diritti di degli omosessuali e Amnesty International ha rincarato la dose con accuse altrettanto pesanti. A questo punto diventa imbarazzante per il Partito democratico pensare che i più coerenti in materia siano stati i deputati provenienti dall’ala della destra finiana. Rileggendo alcuni commenti nei salotti internettiani si scorge una soluzione: votare Gianfranco Fini il 25 ottobre?

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